Fermi tutti: lo stipendio dei magistrati non si tocca. Colpo di spugna sul contributo di solidarietà. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 223/2012 che accoglie, in parte, i 15 ricorsi da parte di 13 Tribunali amministrativi regionali e bolla come illegittima la parte della manovra estiva 2010 che incide sul trattamento economico previsto per le toghe e alti dirigenti della Pa.

Le fondamenta della decisione – «Irragionevolmente oltrepassati» i limiti tracciati dalla giurisprudenza costituzionale per i giudici della Consulta alle prese con le norme che prevedono l’adeguamento delle retribuzioni dei magistrati. Tanto più che «il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo e indipendente, eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro» nell’assetto costituzionale italiano: il meccanismo esistente -«imprescindibile» – che svincola la progressione stipendiale da una contrattazione serve a garantire i precetti dell’autonomia e dell’indipendenza tra i poteri dello Stato e permette di evitare «il mero arbitrio di un potere sull’altro».

La natura tributaria delle disposizioni – La manovra di Tremonti, così com’è strutturata, non è applicabile anche per un altro motivo. La disposizione per cui si bloccano, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni dal 2011 al 2013 e il conguaglio del triennio 2010-2012 e che fissano dei limiti per l’acconto del 2014, per i giudici della Consulta integra «un blocco della corresponsione di somme» solo per una ben determinata platea di destinatari e per un periodo maggiore rispetto alle esigenze di bilancio portate a giustificazione della norma stessa. L’analisi è svolta in modo particolare sulla questione dell’indennità corrisposta ai magistrati, definita dalla giurisprudenza della corte come «voce collegata al “servizio istituzionale svolto” (ordinanza n. 57 del 1990)» poiché legata strettamente all’esercizio delle attività peculiari delle toghe, soggetta a una regolamentazione autonoma. Per i giudici costituzionali, l’impostazione scelta dal Legislatore nel comma 22 dell’articolo 9 nel Dl 78/2010 fa sì che il «prelievo triennale straordinario per aliquote crescenti» si configuri come un tributo, nonostante il riferimento testuale al “contenimento delle spese”, per il carattere autoritativo dell’atto, di carattere ablatorio, utile a reperire risorse per l’erario. Proprio la natura tributaria della misura integra le censure di illegittimità costituzionale sollevate dai rimettenti con riferimento agli articoli 3 e 53 della Carta costituzionale. Il tributo «introduce senza giustificazione, in elemento di discriminazione soltanto ai danni della particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che beneficia dell’indennità giudiziaria». Una discriminazione ancora più iniqua, sottolineano dalla Corte, perché l’indennità giudiziaria supplisce «alle gravi lacune organizzative dell’apparato della giustizia». Due i principi violati: parità di prelievo e parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante che a loro volta si manifesta in due profili differenti.

Oltre al prelievo «ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici», si pone il problema del cosiddetto contributo di solidarietà con due fasce di prelievo per una platea limitata di soggetti passivi. (il 5% sui redditi che eccedono i 90mila euro, il 10% sulla parte di reddito che eccede i 150mila euro annui) che si sovrappone alla richiesta del Legislatore del 3% sui redditi annui superiori a 300mila euro. Illegittimo quindiil comma 2 dello stesso articolo 9 per l’irragionevole effetto discriminatorio determinato dal tributo.

La questione Tfr – L’ultimo punto della sentenza riguarda l’illegittimità della ritenuta previdenziale per il trattamento di fine rapporto che gravava sullo stipendio dei pubblici dipendenti. Già partita la corsa al rimborso da parte delle categorie professionali per il recupero di quanto già trattenuto da gennaio ad oggi. Secondo la Cgil, la restituzione ai 3milioni e 400mila dipendenti di quanto versato nel 2011 e 2012 vale complessivamente fino a 3,8 miliardi di euro.

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