A Pechino accade anche che un ragazzo mai visto, forse mai esistito, con una busta di plastica in una mano e un giubbotto in un’altra, le braccia allargate come in croce, fermi un’intera colonna di carrarmati; ma non c’è solo Pechino, e che fine ha fatto quel ragazzo, al di là delle numerose versioni ufficiali e ufficiose in proposito?
Tirando ora le fila di tutto il discorso, perché parlare proprio della Cina? Direi per istinto, così come d’istinto mi sono sentito, nell’articolo della scorsa settimana, di raffrontare due entità oltre misura disomogenee e inavvicinabili, o forse apparentemente diverse, quali Napoli e la Cina; e, con tutta probabilità, anche perché credo di intuire e, in gran parte, di vedere con gli occhi della mente, che la Cina è in pool position per dominare il Mondo, indipendentemente da ogni giudizio su che cosa ciò significhi per tutti, non tra qualche tempo, ma a quanto pare, tra pochissimo tempo.
Qui bisogna armarsi di buona volontà, oltre che di umiltà. Posso solo descrivere, nero su bianco, quello che riesco ad osservare di uno sciame di meteoriti che vedo attraversare la porzione di cielo che ho sott’occhio. Nulla di più.
La Cina è ormai indiscutibilmente proiettata verso il traguardo di essere la prima potenza economica mondiale: dell’ormai famoso BRICS (il club dei Paesi che avranno, presto, il controllo globale del nostro sempre più piccolo Mondo: Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), è quella che possiede (ha in pancia, come dicono gli addetti ai lavori), da sola, titoli del debito pubblico di numerosi Paesi, compreso il nostro, pur dotati di un certo benessere, se non di floride economie, tra cui gli Stati Uniti d’America (la maggiore potenza militare del Mondo), di importo superiore a quello di tutti gli altri Paesi dello stesso “club”, messi insieme, a lor volta ben forniti. Ormai non è più possibile, in casa, nei centri commerciali, nei negozi, sottrarsi a quel “made in China” che appare quasi dappertutto, eppure c’è un rigoroso dirigismo in Cina, quindi una compressione pesante della libertà, cominciando dal controllo delle nascite; c’è l’assoluta intolleranza per il dissenso; ci sono i Laogai, che, stando ai resoconti, sono delle specie di campi di concentramento dove si lavora come schiavi per purgarsi del proprio anticonformismo. Eppure si dice che siano affollati, quindi c’è molto anticonformismo.
Tra pochi anni, ci saranno più miliardari in Cina che in tutto il resto del Mondo messo insieme, ma saranno tuttavia una minoranza, e tutti gli altri? Dovrebbe essere questo il Mondo della felicità che Carlo Marx prometteva? Chi può rispondere a queste domande? O meglio, chi può sentirsela di rispondere a queste domande?
Vivo a Milano. Via Pier Paolo Sarpi può definirsi la Chinatown italiana.
Partiamo da una decina d’anni fa, tanto per non andare troppo lontano, da una strada, ma un intero quartiere attorno, per la verità, pullulante di persone dagli occhi a mandorla indaffarate, magazzini traboccanti di merce di ogni genere, ogni tipo di veicoli e mezzi di trasporto per rifornire i negozi intasati, bui, superaffollati, fumo invasivo delle vecchie caldaie per riscaldamento accese, dappertutto, e dove siamo giunti ora, con notevoli balzi in pochi anni, addirittura pochi mesi? Il nuovo salotto di Milano, pedonalizzato, ma intorno continuano ad accumularsi merci nei capaci magazzini. Bei negozi, bei ristoranti, e i prezzi sempre bassi, in alcuni casi bassissimi. La c.d. Milano Bene, ormai, non disdegna dal venire a fare shopping qui.
Passo tutti i giorni, per andare al lavoro o per caso, davanti al Consolato generale cinese, che si trova vicino casa mia. Una volta era poco più di uno sportello per far fronte agli innumerevoli “visti” e autorizzazioni che occorrono per qualsiasi cosa a chiunque abbia qualcosa a che spartire con la Cina, sia o non sia cinese. Ora tutto questo è rimasto, anzi le file di utenti si sono allungate, nel tempo, in modo impressionante (ci sono tanti nuovi arrivi e non muore mai nessuno); a volte si snodano intorno ai palazzi, ma la sede consolare, occupa ormai due palazzi di 4/5 piani contigui.
Situazione sempre in fermento; c’è molto spesso una camionetta dell’esercito italiano di presidio, a volte anche di notte, secondo imperscrutabili periodicità. In occasioni molto sporadiche ho trovato uno schieramento di ordine pubblico più consistente, ma compassato, immobile, e proprio di fronte all’entrata principale del Consolato, dov’è il balcone dell’ufficio di rappresentanza del Console (una donnetta minuta, età indefinibile, vispa), con tanto di bandiera rossa con le cinque piccole stelle intorno alla grande in un angolo, dalle dimensioni di un lenzuolo sventolante sui comuni passanti, uno sparuto gruppo di Tibetani, con i loro costumi tradizionali e la piccola variopinta bandiera, uno o due cartelli, con le loro incomprensibili, misteriose casette e lineette. Chiedo a qualcuno per saperne di più: niente di aggressivo o volgare, “Libertà per il Tibet” o qualcosa di simile. Silenzio da una parte e silenzio dall’altra.
In diversi giorni, tutte le settimane, di mattina, invece ci sono molti contestatori cinesi, con tanto di manifesti che occupano intere pareti, che fanno volantinaggio, distribuiscono giornali, discutono, o sono semplicemente immobili, nelle loro plastiche, rituali, posizioni di preghiera o di esercizio spirituale, e i messaggi corrono tra tutti coloro che sono in fila per gli adempimenti burocratici.
Qui, stranamente, nessun servizio di ordine pubblico.
Sono i rappresentanti della Falun Dafa, detta anche Falun Gong che predicano “Verità, Compassione, Tolleranza”, in continuità con l’antica cultura cinese. Sono perseguitati in modo estremamente crudele e sistematico nel loro Paese, come risulta da numerose fotografie. Ma perché ciò accade, pur dichiarandosi essi apolitici ed essendo manifesta questa posizione da quello che essi diffondono e praticano?
Rispondo riportando fedelmente, pur in sintesi, ciò che leggo da un depliant scritto anche in italiano e distribuito a tutti i passanti:
Nel luglio 1999 l’ex leader comunista cinese Jiang Zemin lanciò la persecuzione in quanto geloso della popolarità del Falun Gong che, alla fine degli anni ’90 contava da 70 a 100 milioni di seguaci; molti di più dei membri del Partito Comunista. Il vertice del PCC è in diretta opposizione con i fautori dei principi sopra indicati perché teme di perdere il controllo, che ritiene necessario avere, sulle persone.
A partire dal 2001 Jiang Zemin, Luo Gan, Liu Jing, Zhou Yongkang e altri sono stati denunciati per genocidio, torture e crimini contro l’umanità in 15 Paesi.
“Io sono Li” è il titolo del bellissimo film di Andrea Segre.
Riporto, come ripresa da un commento a cura di Antonio Liaci, su HitsChina, un portale di economia, cultura e società, la seguente riflessione sul messaggio racchiuso nel film: Dalla marginalità dell’immigrazione, in un ambiente dove ancora persistono focolai di intolleranza, l’amore può rompere le barriere della diversità e dove non può l’amore, la solidarietà trova lo spazio necessario per manifestarsi nei modi più inaspettati.
Ma chi è davvero Li? Quale è la sua storia? Quale è il suo segreto? Quale è la realtà che la tiene lontana da suo figlio e dagli amici, dall’innamorato che vorrebbe aiutarla? Il regista procede per allusioni, per lunghi silenzi, per interpretazioni secondo la sensibilità di chi guarda il film.
Anche questo è Cina.
Lascio da ultima una mia esperienza professionale:
Qualche anno fa si rivolse al mio studio legale un cinese, che chiameremo Hu, da tempo residente in Italia, il quale mi chiedeva di assisterlo in una pratica di ricongiungimento familiare con la moglie ed il figlio residenti a Shangai; pur non essendo questo il mio ambito specialistico di diritto, non potetti sottrarmi, essendomi stato raccomandato da un amico.
Fino a quel momento Hu aveva fatto tutto da solo; c’erano stati dei passi avanti ma ad un certo punto si era bloccato, e non trovava altro che ostracismo, da parte delle Autorità Italiane che più volte gli avevano respinto la richiesta di emettere l’atto finale di nulla osta al ricongiungimento, senza il quale la sua famiglia non poteva raggiungerlo in Italia.
Hu non aveva alcuna intenzione di recarsi in Cina per portare a compimento, sul posto, le pratiche necessarie presso gli Uffici preposti del Ministero degli Esteri cinese, e presso il Consolato italiano. Voleva definire la questione, tutta da qui. Scelta assolutamente saggia e oculata. Un’altra mia cliente egiziana (Milano è una città spiccatamente cosmopolita) che, da che era “donna de casa” al suo Paese, si era trasformata qui in “donna de classe”, con tutto quel che segue, e chiedeva assistenza legale contro forme di stalking alle quali era sottoposta ad opera di suoi connazionali, informandosi nel contempo su tempi e procedure per fare delibare in Italia una sentenza di divorzio che era in procinto di ottenere dalla Corte di Appello del Cairo, “dove tutto era cambiato ormai”, insistette e fu irremovibile di fronte a mio fermo parere dissuasivo, nel voler ritornare al Cairo per presenziare di persona all’ultima udienza per il divorzio, senza farsi rappresentare. Non l’ho più rivista. Magari, però, semplicemente non era contenta del trattamento ricevuto dallo studio legale. Chi sa perché, allora, mi ha lasciato la sua documentazione, in vista del proseguimento dell’incarico.
Tornando ad Hu, una volta veniva rilevato che non era idoneo all’abitazione familiare l’appartamento che aveva in affitto, e neanche il nuovo appartamento, e quello successivo, un’altra volta il suo lavoro non garantiva il minimo indispensabile per il ménage familiare, e il nuovo lavoro, e il nuovo ancora, e i documenti della moglie erano irregolari, o non erano sufficienti, forse c’era un’altra moglie, forse c’era un altro figlio; e poi la moglie che lavoro avrebbe svolto in Italia per contribuire alla conduzione familiare? E il figlio avrebbe lavorato, studiato? E così via.
E così tra un canone di locazione “in nero”, uno “in lucido”, ma di un monolocale senza servizi, un lavoro di aiutante magazziniere, uno di pizzaiolo ma “non a posto”, poi “a posto”, una correzione di errore materiale in una dichiarazione, una correzione sul passaporto e così via, erano trascorsi 14 anni.
“Scusi, ma lei in questi 14 anni, non ha più rivisto né sua moglie, né suo figlio!” Domanda-constatazione legittima.
“No. Ci siamo scritti, ci siamo scambiati fotografie.”
“E lei che cosa ha fatto qui in tutti questi anni? Non ha mai pensato di rinunziare e tornare in Cina? Non ha mai fatto delle vacanze?”
“Ho sempre e solo lavorato. Ho speso molto poco per me di quello che ho guadagnato. Il resto l’ho messo da parte per comprare una casa, quando saranno qui anche mia moglie e mio figlio”.
Mi mantengo sul generico; meglio essere prudenti, soprattutto in una situazione come questa.
“Guardi che io farò tutto il possibile, ora proviamo a ripresentare da capo tutta la documentazione. Ma non le posso assicurare niente. Potrebbero passare altri anni.”
“Ah non si preoccupi avvocato. Tutta la documentazione di mia moglie è a posto, il mio lavoro, la casa, e tutto il resto è a posto; anche se ci vogliono anni, alla fine non possono negarmi il ricongiungimento.”
Senza nessuna rabbia, con gentilezza, col sorriso sulle labbra.
Per lui gli anni passavano, come per gli altri i mesi.
Dopo una drammatica, lunghissima telefonata con una funzionaria del Consolato italiano a Shangai, persona in gamba, di Sassari, anche se un po’ cinese a sua volta, oltre che abbastanza sarda, la faccenda fu, insperatamente risolta; ci vollero, ad ogni modo, altri 8 – 9 mesi.
Un giorno Hu passò a trovarmi, dicendo che andava all’aeroporto di Linate a prendere la moglie e il figlio che arrivavano dalla Cina, dopo aver fatto scalo non ricordo dove.
Ma me lo disse come se mi stesse comunicando che andava a prendere la famiglia di ritorno da un breve periodo di ferie, una quindicina di giorni, non una quindicina di anni. D’altronde era venuto apposta per dirmelo.
Ecco un altro pezzettino di Cina.
E poi c’è tanta altra Cina da scoprire, ma la maggior parte di essa, probabilmente, non sarà mai scoperta; ed è, in fin dei conti, così anche per Napoli. (seconda parte – fine)