Il Consiglio dei Ministri ha, da poco, approvato un decreto legge per far fronte alla difficile situazione di Taranto, dove un provvedimento della magistratura ha sottoposto a sequestro buona parte degli impianti dell’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, le cui continue emissioni di sostanze nocive sono state ritenute pericolose per la salute degli abitanti della città pugliese. Lo stabilimento siderurgico dell’Ilva si estende per 15.000.000 metri quadrati e fornisce quasi la metà dei 26 milioni di tonnellate di acciaio prodotti ogni anno dall’Italia dando lavoro a 11.571 dipendenti. Nata negli anni Sessanta , l’Ilva è dal 1995, proprietà del Gruppo Riva, primo produttore di acciaio in Italia e terzo in Europa.
Operai, sindacati e vertici aziendali hanno intrapreso una serie di manifestazioni per protestare contro la sentenza della magistratura che metterebbe a rischio molti posti di lavoro. Le manifestazioni in favore del diritto al lavoro si sono però scontrate con le istanze di chi, ambientalisti e cittadini preoccupati per il tasso di inquinamento e l’incremento dei tumori nella zona, reclama innanzitutto il diritto alla salute. La contesa fra chi difende il diritto al lavoro e chi quello alla vita si è concretizzata, questa settimana, in un duro confronto di piazza, in cui i Cobas, gli ambientalisti e i centri sociali, hanno interrotto la manifestazione dei sindacati e dei dipendenti dell’Ilva, intenti a scongiurare la chiusura dello stabilimento. Il decreto varato dal Governo prevede la bonifica delle aree sottoposte alle emissioni dannose provenienti dagli stabilimenti dell’Ilva e una riqualificazione ambientale della città di Taranto già approvata dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Tuttavia potrebbe non bastare.
I risultati dell’inchiesta
Nonostante i vertici dell’Ilva assicurino di aver apportato, negli ultimi anni, significative migliorie agli impianti siderurgici per abbattere l’inquinamento, le perizie disposte dal gip Patrizia Todisco e depositate a marzo 2012, parlano chiaro: l’alto livello di inquinamento a Taranto è prodotto principalmente dall’Ilva e c’è una relazione diretta fra emissioni degli stabilimenti Ilva e il tasso di tumori che, in città, risulta ben oltre la media nazionale. Dal 1998 al 2010, si sono verificati 386 decessi per emissioni industriali con dei picchi nei quartieri più vicini allo stabilimento Ilva (Borgo e Tamburi), dove ci si ammala fino al 130 per cento in più che altrove. In base a questi risultati il gip ha concluso che gli impianti dell’Ilva producono emissioni nocive “oltre i limiti” e che hanno “impatti devastanti” sia sull’ambiente che sulla popolazione: “L’imponente dispersione di sostanze nocive nell’ambiente urbanizzato e non” – si legge nel provvedimento del gip – “ha cagionato e continua a cagionare un grave danno per le persone , danno che si è concretizzato in eventi di malattia e di morte”. Anche i tumori dei bambini sono “significativamente in eccesso”. Per questo, l’ordinanza prescrive “l’immediata adozione, a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana, del sequestro preventivo”. Intanto si attende l’esito dell’udienza del Tribunale del Riesame in merito ai ricorsi presentati dall’Ilva sul sequestro degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico. Il tribunale del Riesame si esprimerà anche sui ricorsi presentati dai difensori degli otto arrestati, ora ai domiciliari: Emilio e il figlio Nicola Riva, proprietari dell’Ilva e i dirigenti dello stabilimento, Luigi Capogrosso, Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò.
O il lavoro o la vita
Nel frattempo è difficile immaginare che le polemiche fra chi vuole tutelare il lavoro e chi la salute possano placarsi. Scegliere fra diritto al lavoro e diritto alla salute è una scelta (quasi) impossibile che riflette il paradosso delle condizioni attuali della nostra società in crisi e del ruolo primario che ha assunto in essa il lavoro trasformato in una forma di ricatto sempre più spinto, fino alla scelta estrema fra il lavoro e la vita stessa. Certo il diritto alla salute è propedeutico e viene prima di qualsiasi diritto al lavoro: che senso ha mantenere un posto di lavoro mentre tutt’attorno viene meno la vita stessa? La terra dà frutti avvelenati, i bambini muoiono di orrende malattie e alle madri viene vietato di allattarli per evitare di cominciare a nutrirli di diossina fin da subito. Detto questo, nessuno dovrebbe trovarsi a dover scegliere fra il diritto alla salute e quello al lavoro: due valori fondanti della concezione stessa di “essere umano”. In questo senso la scelta fra lavoro e salute è una scelta tragica: un conflitto fra due valori altrettanto irrinunciabili: frutto di una fase storica di profondi mutamenti in cui una globalizzazione troppo azzardata e non governata, ha definitvamente travolto tutte le certezze che abbiamo sempre dato per scontato. La vicenda dell’Ilva dimostra che oggi si può anche essere costretti a scegliere fra la vita stessa e il lavoro. Per questo la crisi, in cui l’Europa è immersa, non può essere considerata una delle tante, ricorrenti, crisi del ciclo economico, ma è una crisi di civiltà che impone di fare delle scelte per il futuro che si intende costruire. Impresa non facile ma quel che è certo, e che risulta evidente dal caso di Taranto, è che il modello di sviluppo nato in Inghilterra nel XIX sec. con la Seconda Rivoluzione Industriale, oggi non è più sostenibile in Occidente. Quante acciaierie e quanti impianti altamente inquinanti dovremmo continuare a sostenere per mantenere un livello di occupazione destinato comunque a calare in una società postindustriale? Quante macchine ciascuno dobbiamo acquistare in Europa per sostenere un’industria dell’auto ormai alla frutta?
Contraddizioni sindacali
Ma oltre alle contraddizioni del sistema economico e della fase storica generale, la vicenda dell’ Ilva mette in evidenza soprattutto i limiti del “sistema Italia” che in questi anni non è stato in grado di ammodernare i suoi più importanti impianti industriali, e della sua leadership incapace di superare visioni ideologiche ormai sorpassate e piccoli interessi di bottega. A questo proposito il comportamento dei sindacati a Taranto è emblematico: protestano contro una sentenza della magistratura e solidarizzano con i vertici dell’azienda. Si dirà che lo fanno per i lavoratori ma è difficile sostenere che si tutelano gli interessi di una persona (il lavoratore è prima di tutto una persona) quando non si tutela la sua salute. Lo scontro, tutto a sinistra, fra sindacati e ambientalisti, d’un tratto ha reso plasticamente evidente la realtà: ormai i sindacati mirano alla semplice conservazione dei posti di lavoro restanti più che alla tutela dei lavoratori (se in questi anni si fosse fatto qualcosa di efficace non si sarebbe arrivati a questo punto a Taranto). In una fase di cambiamenti epocali, i sindacati e buona parte della sinistra italiana rischiano di diventare i più accaniti conservatori dell’esistente invece che delle forze progressiste fautrici di nuove idee e nuovi modelli di sviluppo più sostenibili e più democratici, capaci di tirare finalmente fuori il Paese dallo stato di ibernazione in cui è bloccato da vent’anni. Certo nessun cambiamento è indolore, ma se si continua a restare ancorati al passato invece di progettare il futuro non si va da nessuna parte e la tanto invocata crescita economica continuerà ad essere solo una chimera.
Più facile a dirsi che a farsi? Sicuramente. Tuttavia le idee non mancano anche se non vengono mai applicate. Che fine ha fatto la famosa agenda digitale del Governo che doveva farci guadagnare fino a un punto di pil e diminuire finalmente quell’incredibile ritardo che il nostro paese ha nell’economia digitale?
Quale sviluppo per l’Italia?
A tal proposito sarebbe opportuno che Bersani, Casini e Vendola, oltre ad accapigliarsi, legittimamente e quotidianamente, sui matrimoni gay, ci facessero capire anche che modello di sviluppo hanno in mente per il nostro Paese. Oggi non basta più inneggiare al tanto propagandato “lavoro”. É necessario che quelle forze progressiste,e che si candidano a traghettare, dopo Monti, l’Italia attraverso il guado più stretto dal dopoguerra ad oggi, dicano chiaramente cosa intendono quando sostengono che metteranno al centro della loro agenda il lavoro. Intendono forse che hanno intenzione di tutelare solo quei posti di lavoro legati a un modello produttivo non più sostenibile e destinato (piacente o nolente) all’estinzione, o hanno intenzione di creare nuova occupazione in settori in cui un paese occidentale oggi può, veramente, essere competitivo? Quale modello di sviluppo ha in mente il centro sinistra per l’Italia dei prossimi dieci anni? Finché non si risponderà a questa domanda non c’è alternativa a Monti.