Napoli non reagisce: Napoli, e buona parte del Mezzogiorno, ha smesso di reagire nel primo secolo dopo Cristo. Se si ignorano le premesse le indignazioni di oggi sono semplicemente occasioni da palcoscenico.
Le organizzazioni criminali, o la tendenza della criminalità ad organizzarsi, affondano le radici per così dire culturali in situazioni contingenti assai remote. Situazioni che, storicamente, si sono verificate essenzialmente nel Mezzogiorno d’Italia. Un territorio che per circa mille e 700 anni ha rappresentato il cuore dell’economia e il crocevia degli scambi commerciali e, si direbbe oggi, etnici.
Così, parallelamente all’evoluzione culturale e filosofica (che non ha avuto pari in alcun’altra zone d’Italia), si è evoluto un sistema economico spesso, in certa misura, autogovernatosi a causa della lontananza meramente fisica dei centri amministrativi e politici. In una prima fase infatti, tramontato il periodo della Magna Grecia caratterizzato da insediamenti relativamente piccoli e improntati all’autogestione soprattutto fiscale e amministrativa (Atene non imponeva alle colonie alcuna tassazione in favore del governo centrale dal momento che tali colonie non erano frutto di campagne di conquista governative ma di emigrazione spontanea sebbene “incentivata” da aruspici politicamente pilotati) e fino al dissolvimento dell’Impero romano (possiamo orientativamente collocare questo periodo tra il I e il IX secolo dopo Cristo), il governo dei territori del Mezzogiorno, pur rappresentando essi il granaio di Roma e dunque una componente essenziale per un’economia basata prevalentemente sull’agricoltura, era affidato a delegati locali, nella maggior parte dei casi dotati di ampia autonomia, attese le difficoltà nei collegamenti tra quei territori e Roma.In una seconda fase, collocabile tra l’anno Mille fino all’unità d’Italia, i regni Longobardi, quindi Aragonesi, Angioini e infine Borbonici, anch’essi scelsero di concentrare i “centri decisionali” nella capitale, Napoli, nonostante le risorse economiche e umane grazie alle quali l’intero regno si assicurava la forza e la sopravvivenza provenissero da territori decentrati (i contadi, le terre di lavoro, le capitanate). Sia la prima che la seconda fase hanno come ulteriore caratteristica comune, a differenza del periodo greco, la necessità per il governo centrale di imporre anche imposte e tasse. Questa politica, associata alla concentrazione – avutasi essenzialmente dal primo Medioevo in poi – delle terre del Mezzogiorno nelle mani di poche famiglie (spesso discendenti di centurioni, governatore e consoli della Roma imperiale) favorì la progressiva emigrazione degli esponenti di tali famiglie dai territori di loro proprietà (latifondi, dal latino latus= ampio e fundus= podere) alla capitale del regno. La loro presenza “a corte” era infatti strategica affinché potessero trattare costantemente sui privilegi fiscali da ottenere, o da difendere, per tenere in equilibrio l’economia del latifondo e “ammortizzare” gli imprevisti (incidenza delle variazioni climatiche sui raccolti, necessità di riconoscere ai mezzadri e ai coloni una certa tolleranza nei pagamenti di colonìe e mezzadrìe). Tuttavia ciò comportò un sempre maggior ricorso alla delega nel governo locale. Le case regnanti delegavano i latifondisti, questi ultimi man mano emigrati nella capitale del regno per controllare i loro interessi politici, delegavano campieri, esattori e personaggi “carismatici” locali. Si creò così, poco alla volta, un meccanismo sostanzialmente autarchico, nel quale ciascuna componente “giocava le proprie carte” – utilizzava cioè il potere contrattuale di cui disponeva o il potere tout court – per trarre i propri vantaggi. La prima conseguenza di ciò fu la nascita di gruppi organizzati, ciascuno a sostegno dei propri obiettivi. Non sempre leciti. Dove l’impunità dell’illiceità era sufficientemente assicurata dalla lontananza geografica degli eventuali poteri di controllo.
Così da alcune testimonianze storico-archeologiche si ricava che a Pompei, uno dei centri più importanti del commercio fino a pochi anni prima della distruzione per l’eruzione del Vesuvio, tra il 60 e il 75 d.C. era pratica inquietantemente diffusa il pagamento di tangenti in cambio di licenze di commercio nelle strade propizie della città, come via dell’Abbondanza.
Già nei due secoli precedenti il fenomeno delle tangenti versate ai delegati dell’amministrazione locale sia per ottenere ciò cui non si aveva diritto, sia per facilitare il riconoscimento di diritti, crebbe a dismisura. Tanto da costituire un vero e proprio allarme sociale. Le proteste, il malcontento dei territori delle province per le vessazioni dei governatores (spesso ex centurioni) e dei proconsoli che, non va dimenticato, amministravano anche la Sicilia, indussero il Senato nel 149 avanti Cristo all’approvazione della Lex Calpurnia che condannava il reato di concussione. Di questo periodo numerosi sono i resoconti dei processi. Emblematico quello al governatore della Sicilia, senatore Gaio Verre, per il quale nel 70 avanti Cristo viene addirittura istituito un tribunale speciale (che da quel momento si occuperà di tutti i casi di concussione). I “funzionari” rei confessi si difendono affermando che la colpa è dei ricchi. Che sono loro i corruttori e non gli amministratori che obbligano a pagare tangenti (sembra di leggere i verbali della tangentopoli degli anni Novanta). In quegli anni, tra il 130 avanti Cristo e il 60 dopo Cristo, la “società civile” (come la chiameremmo oggi) si ribellò alle continue concussioni inviando sempre più denunce sebbene spesso anonime. Ciò spinse molti governatori a “pentirsi”: cominciarono a confessare. Alcuni accusavano anche altri, ma c’era chi si difendeva affermando di essere vittima di un complotto politico dell’opposizione, a loro volta accusata di “controllare” alcuni praetor, i magistrati provinciali, che – a dire di costoro – facevano politica attraverso l’uso distorto della giustizia (anche qui: chi vi ricorda?). L’effetto di questa tangentopoli avanti Cristo, dal 90 a.C. in poi, fu il blocco di lavori pubblici e la chiusura di molti cantieri. Gli operai venivano licenziati, le amministrazioni locali erano in crisi e fu necessario trovare una soluzione politica. Il problema si trascinò a lungo, finché Traiano, nel 100 d.C., dispose che le denunce anonime non venissero prese in nessun contro e introdusse una norma che favoriva la collaborazione con la giustizia da parte di funzionari e imprenditori corrotti. A chi parlava, consentendo di spezzare la rete della corruzione, veniva riconosciuto uno sconto di pena fino al 50 per cento e, soprattutto, veniva concesso di tenere la metà delle somme guadagnate illecitamente (ricevute dalle concussioni o dalle corruzioni nel caso dei funzionari, o ottenute grazie agli appalti conquistati in modo irregolare nel caso degli imprenditori). In teoria veniva disposta, come pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici per i funzionari e l’esclusione dalle gare d’appalto per gli imprenditori e i commercianti. Tuttavia vi sono alcuni esempi contrari: il costruttore che realizzò il porto romano di Fiumicino, ad esempio, dopo aver collaborato con la giustizia ed aver beneficiato degli sconti previsti da Traiano, dopo appena due anni era tornato nel giro degli appalti avendo ricevuto in concessione importanti lavori pubblici a Roma (e tutto questo non somiglia a ciò che è avvenuto mille e 900 anni dopo?).
Contro questa tendenza vessatoria delle amministrazioni periferiche, l’economia locale tentò di difendersi affidandosi a rappresentanti di categoria. Poco alla volta però da tali rappresentanti finì col dipendere la stessa sopravvivenza di un’attività economica. E ci fu chi, per essere favorito, cominciò a sua volta a pagare i “protettori”. L’organizzazione dei protettori divenne così progressivamente autonoma e finalizzata a se stessa. Con queste premesse perché Napoli dovrebbe reagire? La reazione è sempre frutto di un confronto, un paragone: questo non ci sta bene perché ci sta meglio quest’amtro. In un paragone si paragonano, appunto, due termini. A Napoli dov’è il secondo termine di paragone? Si perde nella notte dei tempi e non se ne ha memoria. Credere possibile una reazione sarebbe come ritenere che gli abitanti della Tortuga avessero la possibilità culturale di reagire contro i pirati. La Tortuga viveva grazie ai pirati, non malgrado i pirati. E Napoli vive grazie all’illegalità, non malgrado l’illegalità. Se improvvisamente tutti i commercianti non facessero lavorare minorenni che evadono l’obbligo scolastico o manodopera più o meno specializzata ma in nero, se tutti gli ambulanti dovessero pagare la concessione del suolo pubblico, se tutti gli imputati venissero condannati nei tempi adeguati e andassero in galera (soltanto per fare alcuni eempi a caso), l’economia locale non potrebbe permettersi di pagare un pranzo al ristorante, di acquistare prodotti più o meno essenziali a prezzi dimezzati rispetto ad altre zone d’Italia, e lo Stato non saprebbe dove mettere i detenuti.
E’ evidente – mi auguro – che si tratta di una provocazione: non incito all’illegalità. Piuttosto tento di far capire che la legalità non è un arredo urbano: non si può decidere di punto in bianco di installarla.
Qualcuno si è mai chiesto perché un’officina meccanica a Napoli ripara un’auto con la metà della somma necessaria altrove? Anche tralasciando i ricambi provenienti dalle rapine ai Tir (che pure costituiscono una componente essenziale, tanto che le compagnie di assicurazione non coprono più i carichi diretti più a sud di Frosinone), basti pensare che l’officina media, a Napoli, non paga per lo smaltimento degli oli usati, non paga per lo smaltimento delle batterie, talvolta l’impianto elettrico è alimentato abusivamente con un collegamento a quello stradale pubblico, non paga i contributi a chi lavora, non paga, talvolta, nemmeno l’affitto al proprietario del locale. Eppure, per converso: le officine specializzate, quelle certificate dalle case costruttrici, a Napoli hanno il minor numero di clienti in rapporto al parco auto circolante rispetto a qualunque altra città d’Italia. Insomma: perché pagare 100 euro l’ora una manodopera specializzata (anche se in regola con le norme) quando lo stesso lavoro, anche di buona qualità, può costare un terzo? Ma questa è la stessa logica in omaggio alla quale la Nike costruisce scarpe in Asia utilizzando ragazzini. E allora: cosa c’è di più scioccante nel video dell’omicidio rispetto ai tanti documentari sullo sfruttamento della manodopera minorile nei Paesi asiatici? Eppure quando ci s’indigna per questi ultimi ci si sente spesso rispondere che in realtà a quelle latitudini il lavoro minorile è una regola e se le grandi multinazionali smettessero di servirsene sarebbe la morte per intere popolazioni. Non voglio giudicare se si tratta di obiezioni giuste o sbagliate. Dico soltanto che se c’è (e c’è) chi le trova giuste, queste stesse persone non possono pretendere che Napoli reagisca. Se reagisse dovrebbe chiudere. Perché anche Saviano, scommetto, se a Napoli pagasse una pizza e una birra 25euro, quanto cosa a Roma, invece di 8 o al massimo 10, uscirebbe dal ristorante indignato.