Il vertice economico di mercoledì sera a Bruxelles ha confermato gli attesi mutamenti politici all’interno dello scacchiere europeo. La prima volta di Hollande, infatti, non poteva non creare scompiglio in una situazione già precaria: sembra che alcune idee di Europa, timidamente sussurrate durante l’era “Merkozy”, avessero semplicemente bisogno di un leader forte ed autorevole che potesse rappresentarle. Un presidente francese ha ancora il suo peso, nonostante lo strapotere tedesco affermatosi durante gli ultimi vent’anni, specie se trova l’appoggio quasi completo di un paese come l’Italia e, sotto alcuni aspetti, anche del Regno Unito.

Appare in effetti sorprendente l’intesa tra Monti ed il “socialista” Hollande, fondata su un sostanziale ritorno alle politiche Keynesiane di stimolo della domanda, da promuovere addirittura attraverso strumenti pubblici quali i Project Bond. Questa linea suona quasi come una resa, un’ammissione del malfunzionamento di una certa politica economica dominante per un trentennio.

I punti cardine della discussione sono fondamentalmente tre: Grecia, crescita ed Eurobond. Si tratta di materie notevolmente spinose, sulle quali non si è ancora raggiunta la convergenza, per cui le decisioni sono state ancora una volta rimandate al Consiglio di giugno. Tecnicamente non poteva essere altrimenti, dato che solo il Consiglio può assumere posizioni ufficiali da esprimersi con votazione, tuttavia è evidente che la linea di confine tra riunioni formali ed informali sta progressivamente scomparendo: le parole pronunciate in questi meeting pesano come una votazione in plenaria, per cui i capi di governo tendono a muoversi con estrema cautela, anche se alcune linee di pensiero emergono chiaramente.

Partendo dalla Grecia, il comunicato ufficiale del Presidente Barroso precisa inequivocabilmente il pensiero della Commissione: “Vogliamo che la Grecia rimanga nell’Euro e per questo la sosterremo, a patto che rispetti i suoi impegni di riforma”. Il nodo cruciale risiede nell’ultima proposizione, poiché sono ormai in molti a ritenere eccessive le condizioni imposte ad Atene per la concessione dei prestiti da parte della Troika. Oltre al fronte interno al paese, dove a giugno si terranno nuove elezioni dall’esito incerto e l’Europa spera in un governo “amico”, bisogna fare i conti con l’avanzata dei socialisti guidati da Hollande, che potrebbero intraprendere una discussione in merito alla revisione delle politiche sul controllo fiscale. Sull’argomento si cerca comunque di glissare in attesa degli sviluppi elettorali, inoltre l’impressione è che non esista ancora il fantomatico “piano B” annunciato dai media in questi giorni: gli effetti di un’eventuale uscita della Grecia dall’euro rimangono imponderabili, anche se potrebbero non essere così devastanti se affrontati con misure comuni.

Le posizioni di Italia e Francia sembrano invece molto vicine per quanto riguarda il tema della crescita. Nei corridoi istituzionali si sta insinuando l’idea che la crisi attuale, generata da uno shock finanziario, sia ora guidata dal calo della domanda aggregata, ovvero dalla depressione di consumi ed investimenti. Perseverando nella politica di austerity, si rischia dunque il tracollo del PIL, già in recessione per alcuni paesi tra cui il nostro, con la conseguente impossibilità di ridurre il debito. In sostanza, senza crescita le misure restrittive potrebbero risultare inutili ed il pareggio di bilancio resterebbe un miraggio. A tal proposito è arrivata la proposta dei “Project Bond”, titoli di debito emessi dalla BEI (Banca Europea degli Investimenti) attraverso cui finanziare progetti infrastrutturali trasversali. L’idea è di ridare un ruolo primario ad un’istituzione sottoutilizzata e dal capitale relativamente limitato (circa 230 miliardi), nella speranza di rimettere in moto l’economia stagnante.

Di gran lunga più spinosa è la questione degli Eurobond, i titoli di debito europei la cui copertura sarebbe garantita congiuntamente da tutti gli Stati Membri. Italia e Francia sono ormai dichiaratamente favorevoli, anche perché auspicano di trarne benefici in termini di abbattimento dello spread, ma il progetto si scontra con il muro tedesco che su tale punto non sembra voler cedere. Il “no” della Merkel è piuttosto un “non ora”, giustificato dalla mancanza di una politica di bilancio comune: in altri termini Berlino, prima di rischiare la sua enorme posizione di vantaggio (oggi emette titoli a tassi estremamente bassi), vorrebbe centralizzare definitivamente il controllo sui conti pubblici. La posizione di Hollande sugli Eurobond è speculare rispetto a quella tedesca: “Per noi sono l’inizio di un processo, per la Germania sono la conclusione di processo”. La Merkel deve anche confrontarsi con l’opposizione interna, visto che non tutti i tedeschi sono convinti che questa sia la strada giusta. Schulz, socialista e presidente del Parlamento Europeo, ha dichiarato nei giorni scorsi che i tedeschi “sono avvantaggiati dall’avere prestiti all’1% mentre gli altri pagano il 6%”, quindi in futuro potrebbe non esserci più “un mercato europeo per i prodotti tedeschi”, in quanto “gli altri non avranno i mezzi per comprarli”. Anche il Regno Unito si schiera a favore, temendo gli eventuali effetti negativi per l’economia inglese di un eventuale tracollo dell’euro.

Il presidente francese spinge anche su altri due fronti, anche se con maggiore cautela. Il primo riguarda l’introduzione della “Tobin Tax”, la tassa sulle transazioni finanziarie fortemente osteggiata dal Regno Unito, che non vuole compromettere il volume d’affari sulla borsa della City. Il secondo, di natura forse più radicale, concerne la riforma dello statuto della BCE in chiave americana, per cui l’obiettivo d’inflazione stabile dovrebbe essere affiancato dall’equilibrio macroeconomico. Su tali temi la discussione è praticamente allo stato embrionale, anche perché non rientrano nelle priorità di breve periodo: il fatto che vi siano delle proposte in merito va tuttavia sottolineato, poiché si tratta di veri e propri impulsi verso una politica economica sostanzialmente diversa da quella dominante.

Dal canto suo, il governatore della BCE Draghi, nell’ambito di una lezione in memoria di Federico Caffè tenuta giovedì presso la facoltà di economia della Sapienza, ha difeso l’operato dell’istituto di Francoforte. Le imponenti operazioni di rifinanziamento al sistema bancario, sostiene Draghi, hanno “evitato un ben più severo rischio di restrizione creditizia che avrebbe conseguenze sulla crescita e sulla stabilità ben più gravi di quelle che osserviamo attualmente”. Il problema è che gran parte di questi soldi sono stati utilizzati dalle banche per comprare titoli di stato e non per aumentare il volume dei prestiti alle imprese, per cui l’economia rimane “strozzata”. Ad ogni modo, il governatore anche ha parlato di occupazione giovanile come motore per la crescita ed ha difeso il modello europeo di welfare, quale “strumento per promuovere in sé inclusione, solidarietà ed equità”. Le parole di Draghi sembrano dunque confermare la nuova inclinazione europea, per cui alle politiche di austerità devono essere associati programmi per la crescita e per il sostegno al reddito: la speranza è che alle parole seguano i fatti, altrimenti le tensioni sociali che soffiano sull’Europa non potranno che aumentare.

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