“L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita ecc. ecc.”, questo è l’incipit della nostra Costituzione che raccoglie quei principi così primari da non poter essere violati da alcun’altra legge ordinaria.
Mentre è ovvio che l’assetto repubblicano e il potere del popolo (nel significato greco di democrazia) devono essere tra i primi dogmi da affermare in una costituzione, è invece sorprendente e denso di significati che accanto a “Repubblica” e “Democrazia” sia posto il “Lavoro”.
A ben pensarci, un primo articolo della Costituzione che inizi con: “L’Italia è una repubblica democratica. La sovranità appartiene al popolo ecc.” non avrebbe fatto lamentare alcuno per incompletezza.
E invece no, accanto a repubblica e democrazia, i nostri padri costituzionali hanno sùbito posto il lavoro. Che non è solo terzo, si badi bene, con pari dignità degli altri due ma viene invece fatto assurgere a loro fondamento; talché democrazia e repubblica traggono le loro radici, la loro base dal lavoro.
Questo rappresenta dunque la linfa della democrazia e il pilastro dell’assetto repubblicano. Di conseguenza ridurre o perdere il lavoro vuol dire ridurre o perdere la democrazia e la repubblica. Ad esso il legislatore costituente ha dato un senso che va ben oltre il semplice concatenarsi di prestazione e controprestazione unite da un rapporto sinallagmatico, per affidargli piuttosto un significato quasi sacro e appunto fondante dell’Italia.
Da quanto sopra discendono notevoli e molteplici conseguenze. Ma di esse preme citare quella che si manifesta come la più rilevante: il diritto al lavoro ricopre una posizione di primazia rispetto a tutti gli altri diritti, pur se tutelati dalla costituzione, poiché solo al lavoro è affidata la funzione fondante.
Ne deriva di necessaria conseguenza che non è costituzionalmente corretto porre sullo stesso piano il diritto al lavoro con altro diritto, come ad esempio quello alla salute.
Il pensiero corre subito all’ILVA e alle molteplici situazioni simili, ove questa odiosa alternativa crea fortissime tensioni.
Può piacere o meno ma la Costituzione dà espressa preminenza al diritto al lavoro. Per cui risulta, appunto, costituzionalmente illegittimo sacrificare posti di lavoro per la tutela della salute. Ciò non toglie ovviamente che il diritto alla salute vada tutelato. Anzi!
A quest’ultimo riguardo, i lettori più attenti si saranno certamente chiesti dov’era la magistratura quando l’inquinamento è cominciato, è proseguito, è durato per anni e anni fino ad incarnarsi in disastro ambientale. Perché non è intervenuta per tempo e con la massima severità comminando rigorose sanzioni detentive e pecuniarie a carico di amministratori pubblici e privati man mano che gli illeciti si andavano perpetrando? Ancor oggi è questa la strada principale, finché la salute non verrà tutelata pienamente, come il lavoro, ma non a suo discapito.
Né vale sostenere che in questi casi, non di diritto alla salute si tratta ma del diritto basilare alla vita. L’osservazione è corretta ma va riflettuto che, come uccide l’inquinamento, allo stesso modo uccide la mancanza di risorse economiche, per mantenere sé e la propria famiglia, che consegue alla perdita del lavoro.
Ma uscendo dai drammatici casi attuali, si può fare un’ulteriore riflessione: cioè sostenere, credo a buona ragione, che la Costituzione, nel suo primo articolo, faccia riferimento ad entrambi i lembi del fenomeno lavorativo: ovvero non solo a coloro i quali il lavoro lo svolgono, i lavoratori, ma anche a quanti il lavoro lo offrono, gli imprenditori. Entrambi sono chiamati a preservare le fondamenta della repubblica e della democrazia, ognuno per la propria parte.
Ciò significa che lo Stato deve tutelare il lavoratore e deve, allo stesso tempo, tutelare l’impresa.
Però non è, e non può essere, una tutela fine a se stessa, ma, appunto, tesa alla loro funzione “fondante”, quella di mantenere e creare posti di lavoro.
Così il lavoratore non può essere tutelato comunque, ma solo finché correli il proprio impegno, la propria disponibilità alla “sacralità” di quanto sta facendo, ove è tenuto a riversare il meglio delle proprie energie intellettuali e fisiche.
Allo stesso modo, anzi di più, molto di più, l’impresa non può essere tutelata quando è tesa unicamente al profitto personale venendo meno allo scopo profondo che la Costituzione le affida.
Ciò non vuol dire che l’imprenditore non debba veder ricompensato il rischio che assume, le risorse che impegna, la creatività innovativa e geniale, lo stress che l’intrapresa economica comporta, con il raggiungimento, nel rispetto della legge, anche della ricchezza e non solo del benessere. Vuol dire che tutto questo non può essere fine a se stesso ma deve trovare limite e causa nella produzione di posti di lavoro dei quali, il benessere e anche la ricchezza personale potranno solo essere l’effetto.
Non può accadere che la prosperità dell’imprenditore derivi da una contrazione dei posti di lavoro, talché egli si arricchisca grazie a salari non più corrisposti o compressi.
Per altro l’art 41 della Costituzione stessa, quando, al terzo comma, dispone che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, sembra proprio voler confermare quanto sopra.
Sia consentita un’ultima riflessione: se il lavoro è fondamento della repubblica e della democrazia, non può essere vanificato da condizioni di svolgimento precarie o umilianti né con un compenso insufficiente a consentire la normale esplicazione degli aneliti umani.
Come l’imprenditore ha diritto ad ottenere dall’offerta di lavoro anche la ricchezza, così il lavoratore ha diritto ad ottenere dalla prestazione di lavoro almeno la dignità.