Una provocazione nata sul quotidiano Metro.Us in America ha riacceso il dibattito sulle atlete impegnate nelle Olimpiadi di Londra, la loro rappresentazione, e i messaggi veicolati dai media. Le giornaliste della free press americana hanno rilevato come il volley femminile si riducesse in un dettaglio stretto, spesso corredato da didascalie o da commenti da parte dei cronisti, sul fondoschiena delle atlete.
A questo hanno risposto pubblicando una serie di foto di atleti, impegnati nelle specialità più disparate, tutti raccontati col solo dettaglio del fondoschiena. L’impatto è notevole e tutto riporta a un’ insufficienza totale. Ma allora perché ripetere questa disparità di trattamento?
Nel caso del beach volley ad esempio, fino a marzo dello scorso anno la Federazione internazionale volley ball (FIVB) imponeva il costume da bagno, di una larghezza massima di 7 centimetri. Dall’inizio dell’anno, l’atteggiamento è cambiato. La federazione, considerando il bikini troppo provocante o in disaccordo con alcune tradizioni religiose, ha mutato la divisa: t-shirts e shorts se le atlete avessero voluto. In diversi commentarono quanto il provvedimento fosse inappropriato: avrebbe fatto calare gli ascolti e l’interesse per questo tipo di sport.
Fabienne Broucaret, in Francia, autrice del libro Le sport féminin: le sport, dernier bastion du sexisme? (edizione Michalon) ha sottolineato come il costume delle atlete di beach volley sia intrinsecamente connaturato alla disciplina, al punto che anche se le foto sono ampiamente commentate, nessuno si ricorda il nome delle atlete che catalizzano solo pubblico attratto dalla stessa ripetitività di immagini imposte dalla pubblicità.
Ma il beach volley femminile è solo un esempio che affonda le radici nel principio affermato dallo stesso Pierre de Coubertin che disse: “I Giochi Olimpici devono essere riservati agli uomini, le donne devono prima di tutto incoronare il vincitore”.
Smalto in passerella
Di nuovo allora ci si immette nei grandi temi che riguardano le donne e la rappresentazione.
In Italia, i quotidiani on line e quelli di sedicente contro informazione, come Giornalettismo.it, annunciano le performances sportive femminili con un “guarda qui”: “lo smalto migliore delle Olimpiadi”, “la nuotatrice più bella” e così via, fino alle considerazioni da scuola media come l’atleta di pallanuoto alla quale esce fuori un seno dal costume. Quale sarebbe l’interesse visto che l’ovvietà delle immagini che circolano in rete è di donne a sede nudo? Invece viene considerato come “il” dettaglio che lega l’atleta in questione a quella specialità. Si vuole mostrare una novità o una meraviglia ma si afferma una norma esattamente come fa il marketing. Su questa linea impositiva “talebana” di donne e sport è stato naturale che Federica Pellegrini invischiata (e forse anche deconcentrata) nel gorgo mediatico e pubblicitario venisse, dopo la sua sconfitta, coperta di insulti da parte degli stessi che ne hanno raccontato le qualità di bellezza e di sex appeal come se fossero assolutamente intrinseche alla sua riuscita sportiva.
Molto è cambiato del ruolo delle donne nella società e anche lo sport se n’è fatto specchio, tanto che la presenza delle atlete è stata elevatissima a Londra. Ma se da una parte si registra ancora molta difficoltà a “femminilizzare” alcuni sport, come il calcio e la box per esempio, dall’altra la concentrazione mediatica su dettagli femminili irrilevanti ricrea lo stesso corto circuito tra Occidente e Oriente. Il primo che si concentra sui corpi al di là dello sforzo della performance per favorire il marketing e le audience dei programmi tv, il secondo, che li copre per questioni di tradizione. Entrambi i casi sono estranei allo sport, sono normativi perché hanno un messaggio reiterato di “dover essere” e entrambi sono tributari dello sguardo maschile. Sicuramente privi della libertà e dei principi di uguaglianza di cui invece lo sport dovrebbe farsi portatore.
Gli sguardi altrove
Le femministe a dire il vero non hanno mai molto seguito l’argomento anche se la tendenza sta radicalmente cambiando in armonia con l’ attenzione crescente che si dà alla questione delle immagini e alla loro portata simbolica: se ci sono queste immagini, ci sono anche degli autori. C’è qualcuno che inquadra, e qualcuno che ritiene giusto quel tipo di racconto. Ma per cambiare lo sguardo, la questione, è ancora una volta di potere da esercitare reinventando nuove immagini e con essi diversi modelli narrativi. Alcuni magazine francesi come Express notano che la percentuale di giornaliste commentatrici a Londra sia veramente esigua rispetto a quella maschile. Il fenomeno quindi è fortemente sentito in diverse parti del mondo. Già nel 2009 il Washington Post puntava il dito sull’assenza di donne nel giornalismo sportivo mentre la sola eccezione sembrerebbero le ex campionesse riconvertite in croniste, come è il caso di Nadia Comaneci. Del resto, anche a capo delle federazioni olimpioniche internazionali non ci sono donne.