In gergo la chiamano la melma. Sono i rifiuti, “la monnezza” gestita dal mercato dei traffici illegali. Solo una piccola parte viene intercettata dall’attività di investigazione delle forze dell’ordine. Nel 2011, secondo il dossier Ecomafia 2012 di Legambiente, sono state sequestrate 346mila tonnellate una quantità pari a quanta ne potrebbero trasportare 13.848 tir che messi in fila formerebbero una colonna di oltre 188 km.
Ma sono tantissime le tonnellate di rifiuti, soprattutto quelli pericolosi, che svaniscono nel nulla. Di cui non si sa niente. Secondo Legambiente, che ha confrontato i dati Ispra relativi ai rifiuti prodotti in Italia e li ha messi a confronto con quelli relativi ai rifiuti gestiti: l’anno scorso sarebbero sparite nel nulla 14,5 milioni di tonnellate di spazzatura.
I meccanismi sono più o meno sempre gli stessi: vengono emesse fatture per operazioni inesistenti relative al recupero e allo smaltimento di rifiuti. Con la manipolazione della documentazione, è possibile, declassificare i rifiuti da pericolosi a non pericolosi e avviarli a procedure di recupero semplificate e quindi meno costose. La differenza tra l’ammontare della spesa “ufficiale”, e il reale costo dell’operazione rappresenta il guadagno per i trafficanti. Un bottino costruito avvelenando l’Italia che nel 2011, secondo una stima prudenziale, è stato di più di 3 miliardi di euro.
Un mercato che fa molta gola alle organizzazioni mafiose al punto che nel 2011 i reati ambientali accertati sono stati in totale quasi 34mila. Una media di quattro all’ora.
Il club mafioso dei 41
A spartirsi la torta del traffico illecito di rifiuti sono 41 clan mafiosi, sparsi in tutt’Italia. I nomi, più o meno noti, emergono dagli atti delle inchieste attualmente in corso: gli Annacondia di Bari, i Belforte o i Crimaldi della provincia di Caserta, il clan Birra-Iacopino di Ercolano, i Condello o i Libri di Reggio Calabria, i Corleonesi o i Monrealesi di Palermo, i Di Falco nell’agrigentino, gli Emmanuello di Gela, i Galasso nel Salernitano, i Gaeta a Foggia, i Gallace in provincia di Roma, la cosca Gentile-Africano nel cosentino, i Gullace a Ponente Ligure, i Marfella o il clan Moccia-Maione di Napoli, i Pulvirenti di Catania.
Da rifiuti speciali a materie prime
“L’80% dei rifiuti prodotti in Italia – spiega Antonio Pergolizzi, uno dei curatori del dossier di Legambiente – sono rifiuti speciali. Questo significa che andrebbero smaltiti utilizzando particolari accorgimenti per non inquinare l’ambiente. A questo proposito, la legge regola tutto il processo del trasporto e del trattamento dei rifiuti, rendendolo tracciabile. Di fatto, però, si tratta di una tracciabilità solo cartolare perché i documenti che accompagnano i rifiuti possono facilmente essere manipolati con la compiacenza di un gestore o dello stesso trasportatore”. Basta cambiare un semplice codice per trasformare una partita di rifiuti pericolosi in comuni rifiuti urbani o anche in materie prime e destinarli ai luoghi di smaltimento comuni come le discariche o gli inceneritori oppure, addirittura, all’industria.
Agrumi al nichel
Su un sistema analogo si basava il traffico illecito di rifiuti pericolosi intercettato dalla procura di Vibo Valentia che nel luglio 2011, ha sequestrato di più di 135mila tonnellate di fanghi altamente inquinanti e pericolosi di derivazione industriale con grosse concentrazioni di nichel e vanadio. Provenivano dalle centrali termoelettriche di Brindisi, Priolo Gargallo in provincia di Siracusa e Termini Imerese a Palermo ma anziché venire smaltiti secondo quanto previsto dalle norme, sono stati seppelliti in un terreno, di oltre 100mila mq, destinato a coltivazioni di agrumi che si trovava a San Calogero, nel vibonese. Il proprietario di questo campo già nel 2009 era stato arrestato per falsa attestazione di recupero rifiuti.
Se nel 2011 il numero delle inchieste per traffico organizzato di rifiuti è diminuito (17 contro 29 nel 2010), è però aumentato il numero delle società coinvolte (52 contro le 24 del 2010). Secondo i dati diffusi da Legambiente, le inchieste chiuse nel corso dell’anno sono state 17 e sono state condotte da 13 procure. Hanno portato a 147 ordinanze di custodia cautelare, 228 persone denunciate. Il mercato ha coinvolto 14 regioni e 5 stati esteri, meglio conosciuti come stati spazzatura. Nei soli primi mesi del 2012 le inchieste sono state 5, 21 gli arresti, 177 le denunce e ben 10 i sequestri.
Le navi dei veleni
Sono indagini complesse, che mettono insieme più competenze e più uffici e che richiedono tempo e forte impiego di risorse. Per questo il mercato del pattume e dei veleni è interessante per le organizzazioni mafiose: accanto ai lauti guadagni, c’è anche il bassissimo rischio di essere intercettati proprio per la complessità delle operazioni investigative.
Il contraltare ai servizi ambientali low-cost, offerti dalle ditte controllate dai clan mafiosi, sono crateri tossici poi ricoperti e cementificati sui quali poi, magari sono sorti quartieri residenziali, parchi pubblici o centri commerciali. Oppure sono navi di veleni svuotate in mare aperto come nel caso dei rifiuti radioattivi smaltiti al largo delle coste calabresi. Secondo alcune informazioni diffuse dall’Aisi, l’agenzia di informazione e sicurezza interna, sin dal 1992 il Sisde avrebbe notizia dello smaltimento di rifiuti radioattivi (provenienti da tutt’Italia e anche da paesi esteri), da parte della ‘ndrangheta, al largo delle coste calabresi. In 20 anni, per lo meno fino ad oggi, questi documenti non hanno avuto alcun esito giudiziario e ciò nonostante l’ultima audizione del presidente dell’Aisi, Giorgio Piccirillo, svolta nel luglio del 2001.
Intrighi internazionali
L’identikit del trafficante illecito di rifiuti è cambiato nel tempo: il mafioso di terza generazione è un giovane acculturato, in possesso di un titolo di studio superiore, capace di parlare più lingue straniere e dalla faccia pulita. È un imprenditore capace di intrattenere relazioni a più livelli e, come recita il dossier di Legambiente: “di mettere in piedi un sistema di vasi comunicanti con cui sposta carichi di pattume da un punto ad un altro, facendo figurar e trattamenti fittizi e falsificando sistematicamente le carte con il cosiddetto giro-bolla ossia la falsificazione dei documenti che accompagnano i rifiuti”.
Con i nuovi mafiosi, il mercato dei rifiuti diventa sempre più internazionale. Nel 2011 le dogane hanno sequestrato 7.400 tonnellate di rifiuti destinati ai mercati esteri, soprattutto la Cina, uno dei principali paesi-spazzatura, che riciclano, cioè, rifiuti pericolosi e, dopo un sommario trattamento li reimmettono sul mercato come prodotti pronti destinati al consumo.
“È il caso – continua ad esempio Pergolizzi – delle vernici al piombo che in Cina vengono impiegate, ad esempio, coloranti per vestiti o per giocattoli destinati ai bambini che poi verranno venduti in tutto il mondo. In Africa, invece, finiscono i resti delle auto rottamate, soprattutto rottami ferrosi, mentre in India si rottamano soprattutto rifiuti elettronici”.
I rifiuti partono per l’estero dai nostri porti principali: Taranto, Venezia, Genova, La Spezia, Ravenna, Gioia Tauro, Napoli, Livorno, Catania, Ancona e Civitavecchia: Dal 2001 al 30 aprile 2012, le inchieste riguardanti l’esportazione illegale di rifiuti sono state 32, 170 le persone arrestate, 525 quelle denunciate, 130 le società coinvolte situate in 23 paesi: 10 europei, 5 asiatici e 7 africani. Oltre la Cina anche la Germania, ad esempio, la Russia o il Senegal. Emblematica in tal senso l’operazione Gold Plastic del 7 dicembre 2011 condotta dalla Dda di Lecce con i finanzieri e l’agenzia delle dogane. L’inchiesta ha portato alla luce un traffico di pattume di 2.600 tonnellate di rifiuti speciali provenienti da tutt’Italia e destinati al Sud-est asiatico che avrebbero prodotto un fatturato di circa 6 milioni di euro.
In allegato
I Clan, la mappa completa pubblicata nel Dossier Ecomafie 2012, per gentile concessione di Legambiente
I Clan Legambiente Dossier Ecomafie 2012