Nel mondo dell’opera, il teatro di regia, l’idea di uno spettacolo come un tutto organico, con significati e coordinate temporali solo parzialmente legati al libretto, è una realtà assai diffusa. Ma lo è nell’Europa continentale, soprattutto in Germania, dove ha da tempo orientato e stimolato gli interessi del pubblico, mentre stenta ad affermarsi in Italia, dove si amano regie anche sofisticate, ma sempre legate alla tradizione. Il caso ha voluto però che nel Circuito Lirico Lombardo sia andato in scena un allestimento dei Capuleti e i Montecchi di Bellini firmato da un giovane regista inglese, Sam Brown, vincitore nel 2011 del Premio europeo di regia operistica (EOP – Europäischen Opernregie-Preis): un concorso che chiedeva ai candidati (under 35) proprio di reinterpretare titoli classici del repertorio operistico, raccontando quelle vicende sotto una luce nuova, più legata alla contemporaneità. Tra gli 84 progetti presentati (tutti sull’opera di Bellini, posta come prova d’obbligo), da team provenienti da paesi diversi, ne sono stati selezionati quattro per la fase finale che si è svolta nel quadro del London European Opera Forum. E la giuria (presieduta da Bernd Loebe, Intendant dell’Opera di Francoforte e da Marc Adam, Intendant dello Stadttheater di Berna) ha dato il primo premio alla coppia (regista-scenografo) Sam Brown e Annemarie Woods (inglesi), il secondo a Simone Pintor e Gregorio Zurla (italiani) il terzo a Joel Ivany e Camelia Koo (canadesi). Oltre a un premio di 30.000 euro, i giovani artisti inglesi hanno avuto la possibilità di mettere in scena il loro spettacolo al Teatro Grande di Brescia, al Teatro Ponchielli di Cremona, al Teatro Sociale di Como, al Teatro dell’Opera Giocosa di Savona. Ultima tappa è stata nella sontuosa cornice Teatro Fraschini di Pavia, e l’effetto è stato ancora shock per il pubblico. Sam Brown ha infatti trasportato la storia di Romeo e Giulietta dalla Verona del XIII secolo a una comunità rom d’inizio Novecento: «I Capuleti e i Montecchi è un’opera che parla di lealtà, famiglia, amore e lutto – dice il regista – Protagonista una donna che vive da sola in un mondo di uomini, in un’epoca e in un luogo in cui le donne sono oggetti posseduti e venduti, senza diritti ed opinioni; un mondo in cui le donne passano dal padre al marito quasi come in una transazione finanziaria, nel cui scambio l’amore è assente. L’opera si fonda sulla lotta cruenta tra due clan in conflitto: l’amore di Giulietta e Romeo avrebbe potuto essere l’occasione di porre fine a quel conflitto, riunendo le due famiglie, ma questa opportunità svanisce quando Romeo uccide in duello il figlio di Capellio, accecato dall’odio per i Montecchi. Nel nostro spettacolo, abbiamo ricreato, a partire dai riferimenti fotografici i di August Sander, Joakim Eskildsen e Cia Rinne, il mondo gypsy della Romania inizio ‘900, in cui le famiglie rom sono profondamente leali verso il proprio gruppo e fieramente aggressivi verso gli avversari. Lo spazio centrale è una sala costruita provvisoriamente dagli zingari per le celebrazioni religiose e i loro incontri. È uno spazio maschile, un mondo rurale di uomini in viaggio, spinti da piacere, lealtà, coraggio e onore. Il sipario si apre su una festa di addio al celibato, rude e chiassosa, in una notte caotica, con le unghie sporche e gli stivali da lavoro infangati. Non ci sono donne: solo Giulietta vagabonda, ignorata dagli uomini (ad eccezione di Lorenzo) che decidono per lei. L’enorme tavolo che riempie la sala è ora il banchetto festivo, poi il letto di Giulietta, infine la sua tomba. Come in una tragedia greca, gli eventi precipitano nell’arco di un giorno, dall’alba all’alba». La violenza di questo mondo rozzo e primitivo, si percepiva già nella scena creata da Brown per la Sinfonia iniziale, una sorta di pantomima, un festino dei Capuleti che si ubriacavano in una caotica tavolata sulla quale pendeva, cruento presagio, la carcassa sanguinante di un cervo, mentre svolazzavano qua e là banconote, e mentre Tebaldo (in bretelle, camicia aperta e catenone al collo) violentava una ragazza e poi la sgozzava senza pietà. Mentre le signore in sala inorridivano, la vicenda si sondava con una sua ferrea logica intorno a questo nucleo di prepotenza e di sopraffazione, tra coltellate e rasoiate fino alla inaspettata uccisione di Capellio, padre di Giulietta, da parte di Tebaldo e di Lorenzo, come una finale resa dei conti all’interno del clan («Uccisi!… da chi?…» «Da te, spietato!»). Non c’erano quindi eleganti spadaccini in calzamaglia e calzoni a sbuffo, ma tipacci. Anche Romeo era una specie di filibustiere che entrava in scena con coppola, mani in tasca, atteggiamento di sfida, da bullo di periferia, che si fingeva ambasciatore di pace, che non mostrava delicati sentimenti ma gesti tracotanti e stizzosi, che legava Giulietta per portarsela via, tentava di farla sua con la forza, non aveva scrupoli ad usarla come scudo, puntandole il coltello alla gola, quando si trova circondato dai nemici. Annemarie Woods, che curava scene e costumi, ha disegnato una grande sala dalla struttura malcerta, come una specie di capannone con carta da parati, un tetto di assi semidistrutto, un grande dipinto nuziale sul fondale, che nel secondo atto si apriva mostrando un cielo sulfureo. Al centro l’enorme tavola sulla quale camminavano tutti i personaggi, e che poi diventava il letto sul quale si coricava Giulietta (e la tovaglia il suo lenzuolo), poi un altare sormontato da ghirlande di fiori e destinato alle sue nozze, e infine un’ara destinata al suo sacrificio, che sembrava materializzare i versi del suo primo recitativo («Eccomi in lieta vesta… Eccomi adorna… Come vittima all’ara. Oh! Almen potessi qual vittima cader dall’ara al piede!»). Insomma ce n’erano di belle idee registiche in questo spettacolo cupo, nel quale le linee liriche e il levigato belcanto belliniano acquistavano anche, per contrasto, una luce molto particolare. I difetti erano semmai talvolta nella realizzazione pratica, da imputare ovviamente all’inesperienza del regista: nei continui intasamenti in scena, nei movimenti un po’ caotici delle masse corali, nella rissa del finale primo, un po’ grottesca, fatta di sberle, spintoni e bastonate. Molto si basava sulle luci (di Giuseppe di Iorio), giochi di ombre, effetti di luci radenti, di fiaccole e di candele. Ma anche qui talvolta le cose non funzionavano a dovere, i cambi di luce apparivano qualche volta casuali e alcuni personaggi finivano in un cono d’ombra. Tutti giovani anche gli interpreti a partire da Christian Capocaccia, direttore italiano d’origine, statunitense d’adozione, che sul podio dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali ha offerto una lettura controllata, senza molte effusioni, che faticava a talvolta a trovare la sincronia ritmica e gli equilibri dinamici tra la fossa e il palcoscenico. Ma il talento c’è. Promettenti anche i cantanti scelti tra i finalisti del concorso As.Li.Co., soprattutto il mezzosoprano Florentina Soare che interpretava un Romeo strafottente, molto ben caratterizzato, con un’eccellente tecnica vocale e un timbro ambrato, pastoso, molto interessante. La sua voce si intrecciava molto bene con quella soave, delicata, piena di sfumature, anche se un po’ piccola, di Damiana Mizzi nei panni di Giulietta. Bene anche il Cappelio di Alessandro Spina, e il Tebaldo di Fabrizio Paesano, che affrontava con grande sicurezza l’ingrata parte tenorile, con un colore vocale non proprio di prima qualità ma adatto al personaggio.

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