Con raccomandazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la Francia ha voluto cambiare con mot -dièse (“parola diesis”) hashtag, cioè la parola inglese che nomina l’argomento da twittare (il cui verbo è spesso sostituito con gazouiller, in francese, cinguettare) e che è preceduto dal segno “#”.

Da oggi pertanto, se la cittadinanza francese non è obbligata ad usare la parola mot-dièse, se ne esige però l’uso nei media, nei documenti e nella comunicazione ufficiale, come è stato il caso per ordinateur (computer), e souris (mouse) e molti altri.
Così il Journal Officiel della République ne dà definizione ufficiale:

mot-dièse, n.m. Definizione: serie significativa di caratteri senza spazio – che iniziano con il segno # (diesis) per segnalare un argomento – e che viene inserita dal redattore in un messaggio in modo da facilitarne l’individuazione. Note:1) Cliccando su di un mot-dièse, il lettore ha accesso all’insieme dei messaggi che lo contengono. 2)L’uso del mot-dièse è particolarmente diffuso nei social network che funzionano con micromessaggi 3) Plurale: mots-dièse. 3)Equivalente straniero: hashtag.

Il neologismo che fa discutere è stato redatto dalla Commission Spécialisée de Terminologie et de Néologie de l’Informatique et des Composants Electroniques una commissione di esperti che riscrivono il linguaggio dell’informatica nella lingua francese. Nata nel 1996 questa commissione fa parte del complesso apparato di esperti (compresa l’Académie française) che operano per applicare la legge Toubon sull’ uso e l’arricchimento della lingua francese, secondo il dettato della Costituzione (art.2).

La modifica di questa parola convenzionale del linguaggio internettiano è stato oggetto di ironie in tutto il web sia in Francia che altrove, Italia compresa. In realtà una simile resistenza linguistica   operata “dall’alto” racchiude molti più significati di quanto non appaia.

In questi giorni in cui è uscita la notizia la prima confusione è nata tra simboli, parole e quotidiani nazionali on line che hanno copiato male e tradotto peggio dai colleghi anglosassoni, lanciandosi poi in ironie su questo incomprensibile modo di comportarsi dei francesi.

Significati delle parole, confusione di simboli e copincolla tradotti male

La parola inglese Hashtag comprende hash e tag. L’ origine di hash è, incredibile a dirsi ora che viene rifiutata, proprio francese e significa “tritare, macinare, fare a pezzetti”. Tag invece è la parola chiave associata a una o più informazioni.

Precede l’hashtag il simbolo “#” che nel linguaggio dei simboli è in italiano cancelletto , in francese croisillon, in inglese number sign poiché appunto precede una numerazione e sarebbe il  “n° ”. Per esempio: # 4352 sta per number 4352 etc.

Tuttavia il simbolo # non deve confondersi col simbolo musicale del diesis (in italiano) dièse (in francese) sharp (in inglese) raffigurato negli spartiti con qualcosa di molto simile cioè ♯.

In entrambi i casi si hanno due coppie di linee parallele. La differenza fondamentale con il cancelletto che precede oggi l’ hashtag, è che le linee orizzontali sono delle rette parallele, mentre per quelle del diesis, precisamente per non confondersi col pentagramma, le linee orizzontali si raffigurano oblique, e da sinistra salgono verso destra ♯.

La Commissione francese nella sua aspirazione di affermazione linguistica ha perciò fatto una fatale confusione tra il simbolo musicale del diesis e il cancelletto, che in francese si dice croisillon e che ritroviamo sulle tastiere di telefoni e computer di tutto il mondo. Semmai si doveva cambiare hashtag con mot- croisillon, ovvero parola – cancelletto. Un simile slittamento di significante e significato è nato forse dalla similitudine dei simboli, e dall’usanza nel francese contemporaneo di mutuare parole dal linguaggio della musica. Soprattutto nel dibattito politico si usa spesso un bémol (cioè un bemolle) per dire che il concetto espresso si accetta, ma attenuato. Un modo educato per respingere le ragioni dell’interlocutore che da noi ha l’odioso corrispettivo di “abbassare i toni”. Per ultimo, anche nel linguaggio automatizzato dei telefoni la confusione è già avvenuta “tapez dièse” dice la voce automatica per dire “premi cancelletto”. Al quale corrisponde un suono assai poco armonico.

Molti quotidiani nazionali italiani che hanno copiato la notizia da quelli anglosassoni per irridere la decisione ufficiale francese, hanno ritradotto la traduzione inglese del francese dièse cioè sharp, che vogliono appunto dire diesis, ma che in inglese ha come primo significato tagliente. Per cui in Italia si leggono assurdità come “ la Francia ha imposto che hashtag si chiami da ora in poi ‘parola tagliente’ ”.

Cultura di Stato o arricchimento della lingua?

Le critiche più sensate mosse dalla rete sono quelle che si riferiscono alla convenzionalità del linguaggio di internet di matrice anglosassone, che mette in comune molte persone di tutte le nazionalità che riconoscono e condividono questo gergo. A ciò, almeno per quanto riguarda il nostro paese, si aggiunge la ripugnanza per il ventennio fascista in cui l’ italianizzazione coatta di parole e usanze aveva il suo corrispettivo politico nelle leggi razziali. Così oggi respingere “dall’alto” una parola straniera sembrerebbe la traduzione linguistica delle attuali tendenze di ripiegamento identitario delle nazioni europee. Molti hanno anche evocato il fatto che trattandosi di un neologismo, e hashtag è l’ennesimo neologismo informatico, la sua non accettazione sarebbe un aspetto del progressivo impoverimento della lingua.

Se tutte queste considerazioni sono da accogliere, va considerato però anche un altro aspetto: le lingue attuali, quella francese compresa, che escono più dai format televisivi, e dal vuoto linguaggio pubblicitario o calcistico, sono sempre meno ricche, sempre più deboli, composte di poche parole immediatamente riutilizzate dalla politica populista a formare un’unica eco deviante che è anche quella che nomina la visione del mondo. E quindi l’agire. Il francese colloquiale e quello scritto nella cattiva stampa, come anche nei talk tv di grande ascolto, è soffocato da intrusioni di anglicismi, esattamente come da noi. E questa intrusione è diventata una cartina di tornasole dell’ignoranza: meno si conoscono le lingue straniere, meno si è aperti alle altre culture, e meno ancora si conosce la propria lingua e più ci si affida a questo gergo marketing, che non è certo un’ apertura alla splendida e sontuosa lingua inglese, ma un misero gergo economico aziendale o al massimo informatico. Da noi, l’ondata di pessimo gusto in questo senso è stata offerta dal governo tecnico Monti. Come sempre il potere quando è opaco nasconde e pasticcia le sue azioni con le parole. Prima era il latinorum giuridico di Berlusconi alternato al linguaggio pubblicitario e a un italiano del commenda anni ’50, successivamente, le poche parole inglesi di Monti, che parla con un fortissimo accento italiano l’inglese scarno e monocorde delle burocrazie internazionali, sono servite a nascondere la ferocia del suo agire politico che ha colpito le classi più deboli, cioè quelle che non hanno capito la sua lingua, o che ne potevano rimanere intimiditi, tardando a rendersi conto dell’impatto che avrebbe avuto quel provvedimento nella sua vita quotidiana. E poiché questa è una modalità di comunicare arrogante e provinciale è anche per forza miope. Così non sono mancate le imprudenze come il famoso choosy della ministra Elsa Fornero a studenti che invece parlano le lingue, e di sicuro meglio di lei.

Per questo l’iniziativa francese che si basa sulla legge del 1994 voluta da Jacques Toubon (ministro della cultura, all’epoca Balladur) e che affonda le sue origini in ben altre fasi della storia, comprese quelle della Rivoluzione, avrebbe come ispirazione un fondamento profondamente   democratico: quello di rendere un modo di comunicare così universalmente utilizzato dalla politica, come i tweet, comprensibile a tutti. Dove tutti sono i cittadini e non i consumatori della tv. Comprese quindi le persone anziane, compresi quelli che non hanno internet e che per loro scelta non sanno servirsene, o non possono, ma che vedono rimbalzare sulla carta stampata simboli e parole che però condizioneranno la loro vita.   “Non c’è in Francia una cultura di Stato” precisò Toubon, temuto dalla sinistra, ma che si batté contro l’azzeramento della lingua francese con all’industria dell’intrattenimento “e mi sforzerò sempre di impedire che in nome dello Stato si tenti di imporre una certa cultura. Lo Stato è al servizio dei cittadini. La cultura che noi dobbiamo incoraggiare, promuovere e far rinascere è una cultura che fa dell’uomo un cittadino responsabile”.

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