Può un libro essere trasformato in un’opera d’arte visiva? Questo è il tema che attraversa gli ultimi decenni della pratica artistica di Guy Laramée (1957), insieme a permanenza, impermanenza e nostalgia. Per buona parte degli ultimi trent’anni, infatti, l’artista multidisciplinare ha lavorato come scrittore teatrale, regista, compositore di musica micro tonale, costruttore di strumenti musicali, cantante, scultore, pittore, scrittore ed etno-musicografo. Ha ricevuto più di 30 borse di studio per l’arte ed è stato insignito dal Consiglio del Canada del premio Joseph S. Stauffer per la composizione musicale.
L’immaginazione etnografica è una caratteristica importante nel suo lavoro artistico, come una spiccata attitudine a un pensiero innervato dal buddismo. Fra le sue opere vi sono due serie di paesaggi scolpiti con libri e architetture miniaturizzate, intitolate Biblios e La Grande Muraglia. In queste opere corpose enciclopedie e ponderosi volumi slittano in direzione di un valore d’uso estetico scultuale, rivelando montagne olimpiche, altopiani stratificati, e antichi templi del buddismo Zen; con i dorsi dei tomi che entrano nella fattura stessa dell’opera.
«Le culture nascono, diventano obsolete e vengono sostituite da nuove», dichiara l’artista presentando il suo suggestivo lavoro sulla pelle dei tomi. Libri al macero come per Hanta, il personaggio di Una solitudine troppo rumorosa, romanzo capolavoro dello scrittore ceco Bohumil Hrabal.
A Praga Hanta lavora da anni, e per necessità, a una pressa meccanica, trasformando libri destinati a diventare carta straccia in armoniosi parallelepipedi. Anche Hanta ricrea il meccanismo della trasmissione concettuale in maniera incessante, lo fa sotto forma di messaggi simbolici, salvando mondi dalla distruzione, sottraendo taluni volumi alla metafora della pressa, per custodirli nella sua stessa casa (dove rischiano di seppellirlo).
Con la scomparsa delle culture tradizionali, afferma lo stesso Laramèe, ma anche delle sapienze agricole e artigiane, alcune etnie sono state disperse e i loro saperi smantellati.
Schermi Lcd, punte di selce e fango
Quando Laramée era più giovane, si sentiva furente con le “ideologie del progresso”: voleva disinnescarle, dimostrando che, in fondo, siamo ancora primitivi, legati a un andamento culturale (e naturale) fatto di cicli. Ebbe così l’intuizione che come specie, la nostra, non si era evoluta più di tanto. Egli vide che la nostra fede nel progresso derivava dalla passione per il contenuto della coscienza. L`artista mise in opera questo ritorno al passato “ritagliando” paesaggi dai libri e dipingendo vedute romantiche ispirate a un’idea ottocentesca di Sublime e di “sfocatura” percettiva, protesa alla manifestazione della coscienza nello spettatore. Forse, quel che serve ricordare, parafrasando Bill Viola, è che se l’artista del 2012 usa uno schermo Lcd ad alta definizione è perché questa è la tecnologia che il tempo gli offre. Ma se il produttore di forme al centro del nostro discorso fosse vissuto un migliaio di anni fa avrebbe usato le punte di selce, il sangue, il fango o i succhi delle piante sopra una parete di roccia. L’immagine è imperitura; è l’eterno Dna culturale dell’umanità, dice Viola. L’arte vuole la prassi, laddove il pensiero di sistema segue, autorizza o registra una ciclica stagnazione.
«Montagne, tornano a significare ciò che realmente sono: montagne. Se vengono erose un poco più profondamente diventano colline. Poi si appiattiscono e diventano campi in cui apparentemente non succede nulla», dice l’artista. Mucchi di enciclopedie obsolete addivengono a una condizione di referenza scultorea; tornano dipresso all’oggettualità, la quale non ha bisogno di dire nulla di più della forma, in cui ben volentieri si è lasciata contenere. Quindi, nonostante le apparenze, la cultura per Laramée è il concretarsi di questo fascino per il contenuto della coscienza e il risultato della nostra recente ossessione rivolta a modificare le forme alle quali abbiamo accesso.
Dice — a tale proposito — Paolo Fabbri, in un suo recente articolo intitolato L’Era Remix: «Di questa “modernità riflessiva” il tratto principale è la grande conversione numerica che trova nei media l’ambiente e l’organologia. Allora: nello spazio di una comunicazione invasiva e pervasiva, dove collocare il remix, l’attività collettiva in rete per la riappropriazione e rielaborazione della testualità digitale?».
Se ci si ritrova con meno e ci si perde con troppo
Il lavoro di Guy Lamarèe in 3D (un portato del mash-up, non come semplice montaggio ma come riutilizzo che crea una forma ex novo), così come nella pittura, nasce dalla stessa idea che la conoscenza ultima potrebbe benissimo essere un processo di “sottrazione” in vece dell’accumulo. L’arte contemporanea ha spesse volte soppiantato il “correlativo oggettivo” con il processo e il concetto, privilegiando la smaterializzazione e l’“idea” formale (anche come suggerimento) all’opera stessa. E l’artista si è dato come obbiettivo di esaminare non solo l’oggetto specifico della riflessione, ma la definizione precisa di ciò che pensiamo. Rovesciando, in qualche modo, il primato dell’Idea sulla Materia, pur mantenendo un corposo impianto concettuale, che però l’opera può fare a meno di dichiarare.
«Con meno uno trova, con troppo uno perde se stesso», ribadisce l’artista citando Lao-Tse, che scriveva questo già nel VI secolo a.C..
The Wreck of Hope: Tribute to Caspar Friedrich è un progetto recente (2008), un omaggio al pittore romantico del Diciannovesimo secolo: il tedesco Caspar David Friedrich. Si tratta di una riproduzione 3D di un’opera celebre del pittore, all’interno di quel tipo di barile che viene utilizzato come misura standard per determinare il costo medio del petrolio. La pittura di Friedrich è stata letta, in questo caso, come un’allegoria; cioè a dire un tropo su come la vendetta della natura si esplichi colpendo l’avidità dell’uomo.
Apparentemente, Friedrich usò le molte storie di tragici fallimenti di attraversamento dell’Artico – da ciò il nome Wreck of Hope per il dipinto di Friedrich – come monito per l’uomo, il quale deve coniugare il suo desiderio di progresso in accordo con un motivo ben più vasto nell’ordine naturale.
Una nube di inconsapevolezza
Oggi, è proprio il petrolio una delle cause precipue della distruzione degli ecosistemi. Lo scopo dell’opera, dice l’autore, va oltre la ri-appropriazione del motivo originario del dipinto friedricciano. Il lavoro vuole scavare all’interno di un paradosso, nel tentativo di stabilire un legame tra il Movimento romantico del Diciannovesimo secolo, il Postmodernismo e il Movimento ecologista.
Infatti, tutte e tre le “culture” condividono alcune caratteristiche distinguibili: i Romantici e i Postmodernisti celebrano il potere creativo dell’individuo, i Romantici e il Verdi hanno una coscienza altra della natura.
Dopo trent’anni di pratica, l’unica cosa che ancora Laramée vuole che la sua arte faccia è il determinarsi di un approccio visuale di assenza dell’Io. L’artista ha sistematizzato una parte del suo modus operandi chiamandolo Principio Gerhard Richter. «Gerhard Richter, pittore romantico del XX e XXI secolo scoprì un principio che ho chiamato Il Principio di Richter», scrive Laramèe. Tale principio stabilisce che la sfocatura restituisce lo spettatore a se stesso. Nella sfocatura, si avrebbe anche la possibilità di vedere noi stessi, nel momento in cui produciamo l’opera d’arte. Ma in realtà Richter ha riattualizzato un approccio molto più antico. Nel XIII secolo, infatti, un contemplativo, anonimo fino a ora, scrisse il classico Nube di inconsapevolezza, menziona Laramèe, che stabilisce più o meno lo stesso postulato, ma da un punto di vista diverso: «Per accedere al reale, si ha da sospendere L’”io” e per farlo bisogna passare attraverso uno stato dove uno non sa più nulla».
Dal 5 al 29 aprile, Guy Laramèe (1957) sarà in mostra a Montreal, alla Galerie d’art d’Outremont.