Beppe Grillo, alla fine, è “uscito dal blog”: trascinato fuori dai risultati delle elezioni europee del 25 maggio, il comico, assieme a Casaleggio e a buona parte della pattuglia a cinque stelle, si è trovato faccia a faccia con un Paese che ha preferito affidarsi al Pd targato Renzi, piuttosto che alle sue invettive.
Un vero e proprio schiaffo arrivato da una realtà ben diversa da quella dei blog e dei social network frequentati e, spesso, monopolizzati dai grillini, dove si contano i “like” invece dei voti reali e dove, durante la campagna elettorale, i militanti pentastellati hanno maturato la sicurezza di una vittoria possibile che, alla fine, si è tramutata in una Caporetto. Se un Pd al 40% nessuno osava neanche sognarlo fino a domenica notte, la vittoria del partito di Renzi a questa tornata elettorale non è mai stata, realmente, in discussione: tutti i sondaggi, fino ad alcuni giorni prima del voto, davano il Pd stabilmente in vantaggio sui 5 Stelle ma, ad un certo punto, il mantra del “vinciamo noi” ripetuto ovunque da Grillo e dai suoi con la complicità di alcuni sondaggisti “disinvolti”, hanno fatto maturare la convinzione che il sorpasso non solo potesse avvenire, ma che fosse, ormai, imminente. Il giudizio delle urne ha però richiamato tutti alla realtà consegnando una situazione ben diversa da quella immaginata da molti: se il Pd ha raggiunto il 40% dei consensi dei votanti, il Movimento 5S si è fermato attorno al 20%. Si tratta comunque di una mole considerevole di voti (5.792.865) che ne fanno il secondo partito del panorama nazionale, ben al di sopra degli alleati di governo del Pd e, soprattutto, del partito dell’ex premier Berlusconi.
Un parziale declino
Il risultato raggiunto non rappresenta, in termini assoluti, una sconfitta ma lo diventa nel momento in cui si richiama alla mente la campagna elettorale di Grillo, tutta tesa a “seppellire” Renzi e il suo Pd fino a “cancellarli” dalla scena politica italiana. Pretesa surreale per un movimento nato dal basso e approdato alla sua prima legislatura in Parlamento con molti punti interrogativi sui programmi, sulla strategia e anche sulle regole da darsi per far “funzionare” al meglio i gruppi parlamentari. I punti percentuali, persi per strada dal Movimento sono all’incirca 5, corrispondenti, più o meno, a 3 milioni di voti evaporati rispetto alle precedenti elezioni politiche del 2013. In quell’occasione, Grillo e compagni, riuscirono ad affermarsi come primo partito, in termini di voti assoluti, alla Camera dei Deputati, totalizzando 8.691.406 (25,56%) contro i 8.646.034 (25,43%) del Pd. Dove sono finiti questi tre milioni di voti persi in poco più di un anno di legislatura e, soprattutto, perché hanno lasciato i lidi a 5 stelle? Una parte delle persone che hanno deciso di non votare più per Grillo e compagni è rimasta a casa e un’altra, consistente, ha deciso di scegliere Renzi ,mentre, coloro che avevano votato 5 Stelle alle politiche, in mancanza di una forza “a sinistra del Pd”, hanno preferito la lista Tsipras.
Un crinale a 5 stelle
L’ultima tornata elettorale rappresenta quindi un punto di arrivo per il movimento di Grillo: dopo aver raggiunto il picco alle elezioni politiche del 2013 oggi perde quasi 3 milioni di voti, 2 dei quali in favore di quel Pd che doveva seppellire. È chiaro che qualcosa da cambiare c’è, al di là del Maalox e dei pensionati, al di là delle liste di proscrizione e dei processi da Stalinismo 3.0. Al netto del buon lavoro svolto in Parlamento da molti Deputati e Senatori a 5 stelle, la sensazione di “inutilità” della pattuglia pentastellata si è progressivamente accentuata nel corso della legislatura. Se, all’indomani del voto alle elezioni del 2013, il rifiuto del Movimento nei confronti delle aperture di Bersani prima e di Letta poi, era sostenuto da buona parte della base grillina, con Renzi le cose sono cambiate. Nonostante Grillo volesse evitare il confronto con il giovane premier in pectore, il 19 febbraio è costretto, dal voto online dei suoi militanti, a presentarsi alla Camera per il confronto streaming con Renzi. In quell’occasione si vede, plasticamente, che qualcosa è cambiato perché gli argomenti contro il potere vecchio e marcio non trovano appiglio nei confronti di un neopresidente che, fino a quel momento, non ha mai messo piede in un’aula parlamentare. Grillo cerca di evitare di far parlare Renzi e poi chiude, bruscamente, il confronto. È quello, probabilmente, il momento in cui inizia il parziale declino del Movimento di Grillo che, una volta entrato in Parlamento è apparso, a tratti e al di là del merito delle singole questioni, addirittura come una forza conservatrice a dispetto di un governo finalmente dinamico nello sforzo riformatore. La volontà di non voler scendere a compromessi, di non “sporcarsi le mani” con gli altri partiti presenti in Parlamento, ha dato l’impressione di una forza politica disinteressata al cambiamento e orientata, più che altro, alla distruzione totale del sistema. Il sistema della democrazia rappresentativa parlamentare può e deve essere riformato e aperto alle istanze della società civile ma non può essere abbattuto. Almeno non dall’interno. Non è possibile entrare in Parlamento e poi pretendere di azzerare il sistema perché sarebbe un controsenso: sarebbe come accettare l’invito a giocare una partita di calcetto e poi pretendere che si trasformi in una partita di basket.
Ritorno al futuro
Infatti al di là delle strategie di comunicazione di Grillo e Casaleggio, su cui molto si è scritto, il problema è stato piuttosto alla radice del Movimento stesso: in un periodo di crisi non solo economica, la rabbia può rappresentare un ottimo carburante politico ma, una volta aggiunto il consenso, non è più sufficiente ad andare avanti. È emerso con chiarezza durante gli interventi di Grillo sui palchi di mezz’Italia e in tv: al di là della solita foga antisistema il comico non è riuscito con chiarezza a delineare un’alternativa su nessuna questione concreta, a partire dalla legge elettorale fino alla questione della moneta unica. La comunicazione di Grillo è rimasta la stessa, dalla nascita del Movimento nel 2009 ad oggi, ma nel frattempo è cambiato il mondo attorno e alla fine sono emerse tutte le contraddizioni insite nel Movimento fin dalle sue origini. Il Movimento 5 Stelle ha avuto sicuramente il merito di accelerare il processo di cambiamento nel Pd, prima ancora che nella società italiana. Senza l’avanzata di Grillo, Renzi e i suoi non avrebbero mai potuto scalare il Partito Democratico e forse Berlusconi siederebbe ancora in Parlamento. Il voto delle europee 2014 ha contribuito ad imporre una svolta non solo in Europa, con l’avanzare del fronte antieuro , ma anche in Italia: con l’affermazione netta del Pd di Renzi si può dire conclusa quella crisi istituzionale iniziata nel 2011 e anche Napolitano può tirare un sospiro di sollievo. Certo ora bisognerà fare le riforme e non sarà cosa facile ma è chiaro che ormai siamo nella Terza Repubblica caratterizzata da un inedito, e fino ad ora, migliore bipolarismo. Il nuovo Pd è riuscito a raggiungere il fine che era inscritto nel Partito fin dalla sua nascita ovvero quello di essere una forza a vocazione maggioritaria capace di superare gli steccati delle vecchie aree socialista e democristiana. All’indomani del voto proprio la vecchia democrazia cristiana viene evocata da molti come termine di paragone per il Pd renziano del 40% tuttavia difficilmente la Storia ripete se stessa e come direbbe Eraclito “noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo”. Insomma: Panta Rei.