La scena si apre con tutti intorno a un immenso cratere a guardare un mondo che non c’è più. Chi esulta, chi ha il magone, chi ha paura, chi rimpiange già. Improvvisamente tutto è invecchiato. Comprese le nostre paure e le nostre fissazioni collettive: c’era una volta un mondo che non ci piaceva, e ora non c’è più, mentre il papa vola via sulle teste dei papa boys e dei fan club di suore e si invoca il re dei giullari alla guida dello Stato.
Così, l’indomani dello tsunami Grillo si è passati dallo sbigottimento alle analisi. E più che Grillo e M5S che rappresenta il voto di milioni di italiani, con il quale dobbiamo necessariamente fare i conti, spaventano proprio le reazioni dei media e della politica che oscilla da un’autocritica mal posta “se ci fosse stato Renzi” (come se non contassero i voti espressi dalle primarie che dicevano: “vogliamo rimanere a sinistra”), a un disperato tentativo di recuperare un mondo di connivenze – politica e informazione – che sono sprofondati. E per sempre.
Come le altre, anche queste ultime, sono state campagne elettorali incentrate sulla parola cambiamento. E “cambiare” (oppure “facciamo le grandi riforme”, ovvero lo smantellamento progressivo dello stato sociale e l’impoverimento del ceto medio, spacciato per “modernità”) è stato il verbo declinato negli anni per garantire l’immobilità amplificando il sentimento di frustrazione che ha determinato la vittoria travolgente di Grillo. Filo conduttore degli slogan di destra e di sinistra, con “cambiare” si è tessuta la fitta trama della società attuale: “urge un cambio di passo”, “dobbiamo cambiare”, “ i cittadini ci chiedono di cambiare”, “cambiamo l’Italia”, “dobbiamo cambiare questo paese”.
E sulla proiezione immaginifica di un cambiamento – con l’impegno implicito a non farlo mai arrivare – si sono succedute nei lustri, privilegi e carriere politiche. Non si sono mai prese decisioni. Si è aspettato che gli eventi dettassero e mutassero i nostri destini. Questo, inserito all’interno di un immenso show televisivo in cui gli elettori sono stati tramutati in spettatori. Una malattia democratica che nella banalizzazione del linguaggio si è tradotta con l’odiosa formula: “ il teatrino della politica”, e con la guerra allo spazio in tv. Una modalità condannata dagli stessi interpreti protagonisti, diventati personaggi della Commedia dell’Arte, e sempre nell’ambito delle liturgie che consentivano la sopravvivenza degli stessi: politici e giornalisti.
Di pari passo alla declinazione del “cambiamento” ci sono sempre stati due grandi “oggetti di conversazione”, con cura mai tramutati in soggetti politici: le donne e i giovani. Cioè la vera modernità di un paese. Su questi temi si sono sviluppate proteste nelle forme più sofisticate. Il tutto, consentendo ad altri di fare carriere e beninteso all’interno dei meccanismi che consentivano l’esclusione di donne e di giovani. Quanti sfiancanti calcoli e richieste “di quote rosa” senza le quali non si “cambia”? Quante volte abbiamo visto giovani alla Michael Martone che, dai loro posti di potere, facevano pernacchie ai coetanei?
Come ha giustamente ricordato Lorella Zanardo: bisogna allora smettere di chiedere il permesso. Ed è esattamente quello che è accaduto. E’ il parlamento più giovane e con più donne della nostra storia. “Senza chiedere il permesso” può implicare sfondare delle porte. Sporcare in casa d’altri per riprendersi la proprietà, sedersi scomposti sulla sedia che era del monarca. Insultandolo anche un po’.
L ‘anno scorso, in un’intervista al Corriere della Sera, il tedesco Peer Steinbrück, social democratico candidato cancelliere contro Merkel, che ha criticato il voto degli italiani (“sono inorridito dalla vittoria di due clown”), diceva :
“non voglio commentare la politica interna italiana. Ho grande considerazione di come Monti tenti di risolvere le difficoltà dell’Italia. Riguardo alle elezioni, spero molto che la professionalità di questo governo sia rappresentata anche in un governo successivo.”
Nella stessa intervista, poiché M5S veniva paragonato al partito tedesco dei Pirati, Steinbrück rispose:
«Bisogna dire autocriticamente che il movimento di Grillo in Italia come qui i Pirati sono un segno della perdita di fiducia nei partiti consolidati. Nel momento in cui la critica ai partiti si trasforma in una sorta di disprezzo, io mi insospettisco».
Potrebbe essere un dirigente del Pd cinque giorni prima delle elezioni in un qualsiasi talk show.
E’ vero che nell’esprimere i leader noi italiani siamo molto creativi (mai noiosamente feroci e ripetitivi come i clown tedeschi) ma è proprio nelle differenza tra i due clown che vanno cercate le spiegazioni.
Uno è il prodotto del marketing e della relativa pornografia comunicativa, l’altro è il giullare che rovescia il tavolo e che capovolge il potere. Ha usato il teatro di strada e la sua forza sovversiva, senza mai arginarla, al contrario, servendosene per ingigantirla. E il web c’è, ma come per le Primavere Arabe, viene dopo la strada.
Così le parolacce che sono dentro il repertorio dei giullari, infastidiscono perché siamo saturi di volgarità, ma non sono il dito medio di Daniela Santanché, non sono le cortigiane di Berlusconi e il loro bisogno di comprarsi scarpe da mille euro. Non sono “ la festa della cacca” con la consigliera della regione Lazio seduta sul water, in una delle tanti festini a spese dei cittadini.
Si esce dal marketing della politica. Per sempre. Si esce da una formula controllata e controllabile e si entra in un altro mondo. Nel panico di questi giorni (chiamato spesso “senso della responsabilità”) si stanno già riproponendo gli schemi di prima: “l’antigrillismo” e la sua demonizzazione, esattamente come si è fatto con l’ “antiberlusconismo”.
Questa attuale rivoluzione sta accadendo senza che in Italia si sia ancora capito il funzionamento di internet.