E’ nei giorni del gufo che si fabbricano le spade e gli specchi magici.Animale dei solstizi e genio delle fucine, uccello della folgore, il rapace era anche il magico doppio simbolico di Ch’in Shih Huang-ti, il gran fondatore dell’impero, generato, secondo la leggenda, da un lampo su una montagna sacra sacra al gufo, all’Uccello Giallo…
Il naso di Cheng era prominente e i suoi occhi, piccoli e acutissimi erano molto vicini tra loro. La sua voce ricordava il verso dello sciacallo. Appena tredicenne era salito sul trono di Ch’in e, dopo ventisei anni di brillanti conquiste (era il 221 a.C.), poteva dichiarare che l’intera Cina era pacificata e chiedere ai suoi ministri di trovargli un titolo proporzionato ai suoi meriti. Fu proposto quello di Supremo Augusto; ma egli decise che si sarebbe chiamato Shih Huang-ti, cioè Primo Augusto Sovrano o Primo Imperatore. Alla storia, però, è passato come Ch’in Shih Huang-ti, con l’aggiunta del nome del suo paese d’origine.
L’imperastore scelse come numero della sua dinastia il sei e regnò in virtù dell’Elemento Acqua. Fu così determinato per le vesti e per le bandiere il colore corrispondente a quel numero e a quell’Elemento: il nero. I berretti ufficiali ebbero la misura di sei pollici, così come le tavolette dei contratti; sei piedi corrisposero a un passo e il traino dei carri fu stabilito nel numero di sei cavalli. L’Acqua e il Nero corrispondevano al Nord e al principio di Severità, e così tutto si doveva decidere secondo Legge e Giustizia e non secondo Bontà o Benevolenza. Il tempo passato, la storia precedente dovevano essere cancellati: gli Annali di bambù e gli archivi delle scienze furono distrutti; le belle frasi dei poeti e la logica degli intellettuali salirono al cielo sotto forma di fumo. Quando i dotti protestarono contro la soppresione del passato, l’imperatore li fece “cadere nella fossa”, e tappò loro la bocca lapidandoli: sulle ossa frettolosmente sepolte nacquero i meloni…
Lu, un mago di cui il sovrano si serviva per attirare a sé i Geni, gli aveva consigliato di vivere in un luogo ignorato dai sudditi, perché niente di impuro potesse macchiarlo. Si muoveva in un palazzo che era una rappresentazione dell’Universo, un microcosmo che gli rendeva possibile caricarsi di energia celeste e vi aveva fatto costruire un passaggio aereo a imitazione del ponte che, attraverso la Via Lattea, unisce la costellazione di T’ien-chi (la sommità del Cielo, dimora dell’Unità suprema) e quella di Ying-chih (il tempio celeste delle Purificazioni). Ma Ch’in Huang-ti si preoccupava anche dei “demoni” Unni e delle minacce dei popoli del Settentrione; l’impero doveva durare per sempre e, quindi, essere difeso. E così fece costruire la grande trincea che, poi, diventò muraglia. Nelle montagnose regioni desertiche furono spediti a migliaia soldati, prigionieri, delinquenti, dignitari corrotti, dotti che non avevano bruciato i libri proibiti, intellettuali indesiderati. Cittadelle e torri di vedetta sorsero sulle alture, i fortilizi si moltiplicarono nelle valli. Il vento invernale martoriava senza tregua l’esercito di operai e la torrida aria estiva riempiva di polvere occhi e orecchie. E ai piedi della Grande Muraglia nascevano poemi appassionati, malinconici canti, lettere piene di nostalgia…
Improvvisi vennero i funesti presagi. Su una pietra del cielo, un meteorite, si trovò questa iscrizione: “Alla morte di Ch’in Shih Huang-ti l’impero verrà diviso”. E un Genio delle acque venne a restituire all’imperatore l’anello di giada che egli aveva gettato nello Yang-tze per propiziarsi il fiume. Il sovrano seppe così che doveva morire entro l’anno. Ma egli desiderava essere immortale, desiderava diventare un “Uomo vero, capace di entrare nell’acqua senza bagnarsi, entrare nel fuoco senza bruciarsi, salire sopra le nubi e i vapori, eterno Come il Cielo e la Terra”.
Una moltitudine di maghi intraprese febbrilmente la ricerca dell’elisir dell’immortalità. E quando l’imperatore seppe che i Geni coltivavano la pianta della vita nelle isole P’eng Lai vi spedì tremila giovinetti e fanciulle per rintracciarla. Si diceva che in quelle isole (da identificare, forse, con il Giappone) tutti gli animali fossero bianchi come la neve, e tutti i palazzi e le porte delle città d’oro e d’argento. Ma un grande pesce chiao aveva impedito lo sbarco sulle Isole Fortunate: sarebbe stato necessario ucciderlo a colpi di freccia, ma nessuno possedeva simile potere. Ch’in Shih Huang-ti sognò allora di combattere con un cane marino dalla testa d’uomo; prese dunque un arco e dall’alto del Luogo Santo di Chih-fu, in cui si sacrificava ai Padroni dello Yang e del Sole, attese l’arrivo del grande pesce. Questo alfine giunse; l’imperatore tirò e l’uccise. Ma cadde malato e, quasi subito, morì. “Non può esser morto”, sussurrarono gli eunuchi e i ministri di palazzo. E l’imperatore senza vita fu portato in lettiga attraverso il paese e continuò a concedere udienze dietro le cortine, senza dare risposta. Ma la salma cominciò ad emettere uno sgradevole odore e barili di pesce salato furono posti presso la portantina imperiale per coprire col loro effluvio quello del cadavere. Alla fine, però, i pesci non bastarono più e l’imperatore dovette essere sepolto.
La sua ultima dimora fu sotto la Collina dei Cavalli Neri, in una tomba che era stata scavata da settecentomila condannati che avevano subìto la pena della castrazione. I pavimenti erano di bronzo e il sepolcro rigurgitava di opere d’arte, ori, gioielli; sul soffitto erano raffigurati tutti i Segni del Cielo e delle macchine fecero colare sul fondo quintali di mercurio a raffigurare il Fiume Azzurro e il Fiume Giallo. Fiaccole inestinguibili illuminavano l’ipogeo in cui furono anche disposte balestre automatiche perhé gli eventuali profanatori venissero trafitti sul posto. Le donne di palazzo che non avevano dato figli all’imperatore furono sepolte vive con lui; e quando gli operai che conoscevano tutti i segreti della tomba si accinsero a tornare alla luce del giorno, ua saracinesca indistruttibile cadde di colpo e li chiuse nel sepolcro per l’eternità.