Ho cominciato a leggere Shakespeare poco dopo i vent’anni. Ne avevo bisogno? Si potrebbe dire di si, se l’ho fatto. Ricordo che l’immersione, la concentrazione, che le sue pagine richiedevano, mi portavano lontano dal mondo.
Questo, forse, mi curava dalla paura di affrontarlo il mondo, lui che cominciava a girarmi intorno come un avvoltoio impaziente. Mi alleviava da quella sensazione che, magari inconsciamente, mi sussurrava di non illudermi, mi diceva che realizzare i miei sogni non sarebbe stato facile, così come presuntuosamente e ingenuamente fingevo di credere.
Ricordo che mi identificavo in Amleto, Riccardo III o Macbeth e mi pareva di vivere come loro, di essere, come loro, un eroe capace, con il dubbio e la disperazione, di portare nella vita un po’ di coraggio, un po’ di verità. Il meraviglioso e autentico romanticismo della giovinezza!
Insomma Shakespeare mi ha aiutato, non tanto a pensare o ad immaginare ma, credo, a poter vivere.
E ora?
In questo inverno del nostro affanno, in cui sembra che tutto si dissolva appena solo si muove, cos’è che può curarci, mi chiedo?
Cos’è che può ridarci un senso di consistenza, che può levarci dal sospetto, diventato ben altra cosa dal dubbio? Cos’è che può rilassarci e restituire noi stessi… a noi?
Non so perché ma ripenso a Shakespeare. Sarà forse quell’imprinting che si è insinuato in me nel tempo della mia gioventù ribelle. Un ricordo dunque, struggente, o un pensiero delirante e poco concreto. Chissà!
Ma veniamo al dunque. Poiché avevo annunciato che il prossimo articolo avrebbe avuto come compagno di viaggio il sociologo Onofrio Romano e che insieme avremmo affrontato la grande bellezza e… noi, e poiché egli mi ha chiesto del tempo per elaborare, e poiché qualche “pubblico” commento, da me forse maldestramente invocato, è arrivato, vorrei allora provare a sviluppare intanto alcune mie riflessioni e proporre anche delle domande, sperando che esse possano stimolare sia Onofrio che altri desiderosi di partecipare a questo tentativo di condividere una riflessione.
Il tentativo di riflettere non tanto sul vuoto della nostra epoca o del film in questione, di cui si parla molto in questi giorni, ma sulla nostra condizione di parvenù dell’esistenza, di parvenù… al contrario. Mi spiego: mi sembra che di noi si possa parlare come di persone che non riescono ad adeguarsi alle cambiate condizioni sopraggiunte e che restano a sognare lo “sbraco” (le feste che “vive” e di cui parla il protagonista del film di Sorrentino) e il potere di crearlo o distruggerlo questo sbraco (la pulsione di cui parla il film di Sorrentino), attraverso la nostra vitalità, benefica o malefica non importa. Insomma persone che non riescono ad accettare veramente (per accorgerci ci siamo, credo, ormai accorti) che le feste sono diventate così noiose e prive di piacere, che la nostra pulsione langue, che il nostro potere ci ha ormai logorato e che ora vaghiamo non tanto nella grande bellezza o nel grande niente, ma in una palude dove non riusciamo più forse neanche a specchiarci, a riguardar l’ombra nostra nel sole, ricercando le variazioni della nostra deformità*.
Certo ieri, a Porta a Porta, i grafici indicavano che si spende molto meno per mangiare. Eppure i ristoranti, come qualcuno diceva, continuano a restare sempre pieni. Come scrive Romano, in un suo articolo su Il ponte che consiglio di leggere (dal titolo Come ‘non’ si cambia. Per un governo Grillo-Berlusconi a guida Mengoni), oggi gli abitanti della Vecchia Europa, soprattutto quelli del Mediterraneo (sarà, paradossalmente, per il suo orizzonte che, smesso di incantare ed invogliare, ora, invece, inibisce, seda, come fosse diventato quello di un lago?), “rimangono disperatamente aggrappati al buon vecchio mondo fatto di welfare (senza disciplina e comando) e di orgia consumista”. Senza voler spiccare il volo verso nuovi mondi (con l’impegno, la follia o il metodo) o verso quel nulla che da sempre cura le paure e i blocchi meglio di qualsiasi altra cosa o di chiunque altro.
Ma ritorniamo alla grande bellezza. Ripensando al film di Sorrentino, l’immagine-situazione più inutile, più finta, mi è sembrata quella in cui Servillo-Gambardella cammina all’alba da solo dentro Roma che si sveglia. Premesso che ciò che si vede appare così improbabile, nonostante una sua effettiva probabilità, ovvero a causa della sua probabilità (se non c’è sorpresa… la visione non conosce ricerca), ciò a cui non si può credere è lo sguardo del nostro uomo.
Prima di tutto vorrei dire perché sento improbabili quelle visioni.
Non c’è nulla di meno eterno come il paesaggio. Esso cambia non solo a seconda di chi lo vede ma soprattutto a seconda di ciò che gli è accanto, di ciò che resta fuori della sua inquadratura.
La presunta eternità dei luoghi (palazzi, giardini, portici, statue etc), la presunta eternità di Roma, non consiste nella sua scena ma semmai nella sua assenza di azione o… di abbandono. Nell’abbandono, infatti, l’oggetto prende il sopravvento e guarda il soggetto. Se Roma, la scena, ci guardasse, noi diventeremmo magari eterni e per questo ci ricorderemmo di esistere, di dover fluttuare.
Ma affinché la scena ci osservi, affinché l’abbandono possa generarsi, noi dobbiamo lavorare, mancare… nell’ascolto. Camminare veramente. E questo non è affatto scontato.
Ora la scena, Roma, può essere uno specchio di questa mancanza (del lavoro) ma le “cose” non solo vivono e respirano, piuttosto si difendono e resistono alle azioni, come alla mancanza di azioni. L’eterno non esiste se non come gesto di resistenza, forse.
Roma oggi si è sporcata, si sta sporcando sempre più. Non è una città deserta, una città dove fare il bagno o una corsa di notte per morire nel desiderio e nella bellezza, una città dove incontrare giraffe e cigni, ma una città violenta. Violenta perché violenta è la sua mancanza. Mancanza non solo, o non tanto, di azione (di cambiamento) ma di ascolto.
E qui veniamo all’altra parte della questione: l’uomo. Non si può credere allo sguardo di Servillo-Gambardella, semplicemente perché esso… non c’è. Non è uno sguardo di… ascolto.
Il film assume ma non indaga, a mio parere, e non lo fa non solo come lo ha fatto un tempo, almeno in alcuni casi, il cinema neorealista italiano (che era sempre troppo “spettacolare” per essere veramente un atto di ricerca, un atto “documentario”) ma nel senso che viaggia nell’esterno e nell’interno di una Roma-Gambardella, seguendo immagini così stereotipate che nonostante l’innegabile intensità di una forma narrativa “errante”, non possono produrre alcuna “sorpresa” e dunque alcuna crisi. Possono solo continuare a illudere un pubblico ingenuo e interessato, che tuttavia dimenticherà presto quelle immagini perché non ne sarà stato guardato.
Può certo piacere agli stranieri, dato il suo essere un (altro) prodotto tipico: dopo l’incredibile e spettacolare camorra-gomorra (di Saviano-Garrone), dopo la Sicilia epica e magica di Tornatore, dopo il ritorno dei miserabili dei fratelli Taviani (i miserabili al potere sono un altro prodotto dell’immaginario Europeo), ecco un altro omaggio alle aspettative del pubblico straniero!
Tutti dicono fuori dall’Italia “che declino, che declino…”, pur restando comunque sempre affascinati da questo paese.. e allora facciamoglielo vedere questo declino, accontentiamo la loro idea e morbosità. Facciamogli vedere il bunga bunga e verranno a vederci e resteranno impressionati dalla nostra intelligente capacità di dissolverci, di aderire al nostro destino di eterni, dalla nostra invidiabile capacità di farci del male e di essere insieme dei leoni.
Ma si può aderire ad un bisogno altrui, sfruttarlo magari, e restarne immuni… se si vuole o se si è liberi. Da se stessi.
Forse, però, per liberarsi da se stessi bisogna stimarsi.
E per stimarsi bisogna prendere posizioni, camminare, lavorare.
Del camminare, del lavorare si è detto. Si tratta di uscire fuori. Di andare in esterno, tanto per citare un lessico cinematografico. Andarci veramente, così come la nouvelle vague un tempo diceva (a se stessa) di fare (seguendo Rossellini), uscendo dagli studi di posa (allora) e dalla “posa” (oggi).
Del prendere posizioni però bisogna dire.
A mio parere la questione fondamentale è l’autostima. L’autostima degli artisti, degli scrittori, degli intellettuali, soprattutto.
Se Garrone comincia Reality prendendo posizione, il film è interessante. Quando poi egli atterra nella realtà il prologo, così allusivo e “finto” (perfino didascalico) ma forte, evapora letteralmente e resta una camera che vorrebbe seguire un uomo, ma dimostra una grande impasse. Perché due sono le cose: o lo si segue veramente, l’uomo, senza altri “sostegni” se non il proprio impegno, la propria sensibilità e capacità di reagire, oppure si decide di “usare” questo uomo per dire qualcosa che si pensa, che si sente, si immagina. Muovendolo come un burattino.
Non è che una via di mezzo non sia possibile o che non sia interessante. Anzi! I miei film cercano molto questa via di mezzo e dunque, mi accorgo, di non essere stato chiaro o corretto.
Quello che voglio dire è che il problema non è se scegliere di seguire la realtà esterna o quella interna. Il problema è avere coraggio, prendere una posizione interna che deriva dal contatto profondo con il proprio interno. Con la propria voglia di felicità e il proprio dolore. Tanto per schematizzare.
E una posizione esterna che non finga di “pedinare”, di spiare, ma che tenti di osservare con intensità ed equilibrio, coniugando distacco ed empatia, assenza e presenza. Attraverso un continuo movimento.
La grande bellezza nasce dal disincanto e da un’amarezza malinconica che Servillo e Sorrentino definiscono tutta napoletana. Dunque, che sentono provenire da un ambiente antropologico e “unico” come quello napoletano. Forse. Ma se questo disincanto e questa amarezza malinconica venissero da un altro ambiente? Venissero fuori dalla progressiva deresponsabilizzazione della classe culturale italiana, dalla profonda nostalgia dell’intellettuale italiano di sinistra che “sente” il passato essere stato migliore del presente ma che tuttavia non ha il coraggio di dirselo e aderisce ai diktat del mondo contemporaneo, soprattutto ai suoi (spaventosi) sintomi apocalittici, come li definiva Kantor, per rimuovere quella nostalgia, per sentirsi adeguato alla realtà?
Ed allora eccolo piegarsi all’Onnipotente Consumo, all’Onnipotente Comunicazione, all’Onnipotente Tecnologia?
La questione è complessa, piena di sfumature.
Molti di questi intellettuali di sinistra oggi scelgono il ritorno alla natura, alla madre terra o sacralizzano ed enfatizzano le periferie, le campagne etc.
Ma, forse, non è proprio questa, la prova della patologia della sinistra italiana che non riesce ad uscire dall’ideologia, dalla nostalgia o dalla negazione del dolore, dalla protezione del disincanto?
Che non riesce a trovare un modus operandi interno, capace di oscillare creativamente e di “imporsi” sulla realtà, invece di subirla e costruire poi continue maniere di esorcizzarne il potere.
O, più semplicemente, non è il disincanto di Sorrentino-Servillo figlio della loro furbizia, con cui celano la vanitosa appartenenza ad una casta che, come e peggio di quella politica, si autoconserva attraverso un sistema di “lontananza”, una forma di distacco tanto “intelligente” quanto sterile, che è certo lontano dall’ inquietudine di Fellini e company ma che, pure, ne rappresenta la discendenza?
Mi accorgo di essermi addentrato in questioni che avrebbero bisogno di molte tonalità. Mi fermo.
Lascio lo spazio alla vostre riflessioni. Aggiungo solo questo: giorni fa ero all’Università dove Onofrio Romano insegna e parlando con i suoi studenti, dopo la proiezione di un mio film, ho detto che oggi bisogna ricostruire il privato e non tanto il pubblico.
Che siamo concentrati sul cambiamento della classe politica o sul cambiamento, al limite, delle condizioni della nostra vita sociale, ma stiamo dimenticando di mettere il focus sulla nostra intimità.
Mentre lo dicevo, ho sentito che era ingenuo… dirlo. Che il privato e il pubblico sono indissolubilmente legati.
Ma rifarsi una domanda semplice e inutile forse può essere utile.
Dove dobbiamo dirigere maggiormente le nostre forze?
Come possiamo ricredere in noi, a tal punto da cambiare le cose fuori di noi, se nessuno sembra credere nelle nostre intenzioni?
Dobbiamo assecondare le sabbie mobili sperando che l’immobilità ci salvi o provare qualche gesto e vedere ancora cosa accade?
O la vita è resistenza? Bisogna solo accettare questa sua “condizione” e tutto sarà più leggero?
Forse la grande bellezza sta dovunque. Nella grande stanchezza come nel tentativo di resistere.
Ma può essere condivisa questa percezione, questo riconoscimento?
L’arte, come la politica, come la religione, sono diventate inutili ormai? Secoli di civiltà ci hanno insegnato finalmente che solo la tecnologia ci libererà da noi stessi, modificando la nostra concentrazione, il nostro corpo, la nostra capacità di comunicare?
Oppure quel mammut congelato tornerà a insegnarci la grande bellezza del ghiaccio che mia figlia piccolina oggi ha preso in mano provando a metterselo sulle mani, sulla testa, sugli occhi per poi esclamare tra se e se: “com’è strano… il ghiaccio?”
* dal Riccardo III di Shakespeare