Poiché la bellezza è grande e qualcuno si è permesso di dire che essa salverà il mondo, continuiamo a parlare anche oggi di lei. Di questa vecchia signora che qualcuno chiama anche la felicità.
Nei numeri precedenti, partendo dal film di Sorrentino, ho cercato di stimolare una riflessione sul ruolo degli intellettuali nel nostro paese. E, cercando di collocare la riflessione dentro una prospettiva concreta, ho chiesto a me stesso e ad altri (l’invito ai lettori a commentare, in qualsiasi modo, è sempre aperto), di provare ad indicare dei rimedi oltre che fare delle analisi sulla condizione della cultura italiana.
Oggi il mercato del vento (titolo di questa rubrica) si ferma a raccogliere la testimonianza-contributo di un giovane regista pugliese: Francesco Dongiovanni.
Francesco, originario di Gioia del Colle, piccolo e intenso paese della provincia barese, insegna Letteratura italiana e Storia nella scuola superiore. Con il suo lavoro di regista affronta tematiche riguardanti il mito, l’etnografia e il suo cinema può, dunque, definirsi antropologico. Ho visto Densamente spopolata è la felicità, suo penultimo lavoro, e l’ho trovato poetico. Anche per questo gli ho chiesto di portare il suo contributo: trovare degli autori oggi interessanti, a mio parere, è raro. La rivoluzione digitale ha permesso a tanti di potersi esprimere con il linguaggio audiovisivo ma la qualità di questa espressione è molto spesso bassa, imprigionata in un conformismo e in una banalità sia tematica che formale. O meglio è molto bassa la capacità di correlare le due cose, di usare la forma (quale essa sia) in un modo che sia funzionale al contenuto, ovvero permettendo al contenuto di trovare un forma che lo “superi”… rispettandolo.
Allora Francesco, pensando che sarebbe interessante se agli esami di maturità si parlasse di questo, ti chiedo: parlaci della bellezza… o della felicità.
Intervengo in questa discussione molto interessante da te avviata nelle ultime settimane a partire dall’ultimo film di Paolo Sorrentino, facendo violenza ad una personale tendenza, ormai pluriennale e radicata, a non cimentarmi con le parole (tanta è invece la tensione verso una comunicazione di tipo visivo), sperando di dare un qualche apporto alle riflessioni poste in campo. E lo faccio non certo per il manifestarsi di un’improvvisa verve critica che non ho mai avuto, né per un particolare interesse nei confronti del film di Sorrentino che, come dirò, mi è apparso un film mediocre e non riuscito (come, aggiungo, quasi tutta la sua filmografia). Ciò che mi stimola a scrivere è il cercare una possibile risposta all’annosa questione del ‘Che fare?’, a proposito del rapporto tra intellettuali, artisti e società, questione che tu stai, appunto, esortando ad affrontare.
Ma intanto, La grande bellezza. Sorrentino realizza un’opera in cui il grottesco della narrazione si fonde perfettamente con il barocco dello stile e delle forme: una messe di tecnicismi usati in maniera esasperata e vorticosa (movimenti di macchina sempre imprevedibili tanto da rendere prevedibilissimo l’imprevedibile, dolly e carrelli ovunque, ralenti e zoom fino allo sfinimento, luci sempre pazzescamente bellissime, fino alla new entry stilistica della creazione digitale di giraffe e uccelli!) sostiene una storia fragilissima – quella dello scrittore in crisi che si muove nel vuoto decadente di una società borghese allo sbando (storia nemmeno originale, vista la smaccata derivazione felliniana) – il cui tratto più evidente è l’ingenuità, la prevedibilità, la banalità del suo autore. Il film di Sorrentino ha il grande limite di essere un film che si realizza nel vuoto e sul vuoto ma che, non avendo il coraggio di assumerlo su di sé quel vuoto (nietzschianamente, mi verrebbe da dire, o attraverso il Flaubert citato nel film che vuole scrivere un romanzo sul nulla), finge o peggio si convince di essere un ‘pieno’. E questo pieno altro non è se non il moralismo di fondo che pervade tutto il film, unito ad una (presunta) autorialità che il regista sente di incarnare. Lo sguardo di Sorrentino è per un verso costantemente giudicante rispetto all’apparato umano che brulica nella pellicola e per altro verso è sempre compiaciuto di sé, del suo essere altro (e anche alto, o dall’alto, come in molte riprese), del suo essere differente, superiore, non invischiato. Ma dove si situa questo punto di vista, su che cosa si poggia la sua alterità, da quali certezze muove? Bisognerà forse cercarla, questa pars construens da cui muove lo sguardo giudicante del regista, nella fuga verso il passato del protagonista del film, alla ricerca di quell’amore puro che ha conosciuto in giovinezza? O nella santa incartapecorita che mangia solo radici “perché le radici sono importanti” (testuale)? O nello stormo di gru digitali sul terrazzo di Jep a simboleggiare la forza e la bellezza rigeneratrice della natura? Se di questo si tratta, siamo nell’ambito della citazione banale, della trovata narrativa, del didascalico senz’anima (vedere, in opposizione, cosa riesce a fare Terrence Malick con i suoi dinosauri digitali in The tree of life). Se vedo bene, nella mediocrità del film di Sorrentino, sembra cristallizzarsi il fallimento non solo di tanto cinema italiano, ma anche di molto altro.
E qui, credo, veniamo al ‘Che fare?’. La questione che traspare nel film circa il rapporto tra gli intellettuali, gli artisti e la società è questione aperta e sempre di difficile analisi. Ma appare oggi, in un paese in profonda crisi (culturale prima che economica), una questione dirimente. Il tema è troppo vasto e complesso perché se ne possa in questa sede fare un’analisi ampia e approfondita, né mi ritengo all’altezza di tale compito; mi limiterò quindi soltanto a segnalare alcune suggestioni e a tracciare qualche linea di riflessione. Una prima considerazione la voglio dedicare a quello che a me appare uno dei principali problemi relativi alla questione del ruolo degli intellettuali e degli artisti nel contesto culturale, sociale e politico italiano: mi sembra di leggere una generale carenza di analisi da parte dell’Intellighenzia (si può ancora usare questa parola senza apparire troppo retrò?) dei fenomeni interni alla nostra società che, come corollario, produce una grande difficoltà nella elaborazione di teorie e pratiche da applicare nella vita reale del paese. Per dirla brutalmente o banalmente, all’Italia manca un Pasolini (oltreché Pasolini), manca la lucidità di un testo come Scritti corsari, manca cioè l’audacia dell’analisi e la forza prospettica di una visione (a noi, purtroppo, tocca Saviano). Ho fatto solo un esempio (tra i più esaltanti) del nostro immediato passato, ma non sarà casuale, a mio avviso, se i pochi momenti di lucidità, forza espressiva e temerarietà giungono, in tanti ambiti espressivi, più da figure cresciute in altre epoche, che non dalle nuove leve. Guardiamo il cinema italiano, ad esempio l’ultimo lavoro di Bertolucci, Io e te: c’è più visionarietà e capacità di immaginare un mondo intero in un film girato tutto in un sottoscala di Roma da un uomo anziano, immobilizzato dalla malattia su una sedia a rotelle, che nel pirotecnico girovagare del dandy Gambardella-Sorrentino per le strade e i palazzi della città eterna. E ancora il cinema di Olmi, di Bellocchio o, per fare un giro fuori dall’Italia, di Eastwood, Cronenberg, Resnais, Godard, De Oliveira. Sembra, almeno a me, che a fronte di una contemporaneità difficile da interpretare, liquida, stordita dal postmoderno, la strada vada ripresa a partire dalla – proviamo a chiamarla così? – tradizione. Il tema del rapporto modernità-tradizione credo sia centrale e da indagare in profondità e sono certo che porterebbe alla luce questioni fondamentali, a partire dalle quali provare a costruire un percorso di indagine e analisi.
Se mettessimo degli uomini su una strada antica, senza dare loro gli strumenti che la tecnologia, oggi, gli offre per orientarsi e comunicare, cosa accadrebbe? Ritroverebbero le loro risorse, la memoria che hanno custodita nel corpo, le “leggi” che li legano a se stessi e all’ambiente, oppure resterebbero immobilizzati, schiacciati da questo stordimento di cui parli?
E questo ritorno indietro, potrebbe anche essere un ritorno al futuro, potrebbe rappresentare una spinta a superare l’empasse della modernità e a costruire un mondo più leggero perché meno vincolante?
Mi spiego: io credo che ciò che tu chiami tradizione altro non è che il corpo. Il corpo che stiamo perdendo. Se lo tatuiamo è perché non ci vogliamo rinunciare al corpo, vogliamo farlo vivere, vogliamo ricordarcene, pur ridimensionandolo solo ad una vetrina, ad una superficie. Il corpo, che sembra vincolarci, è uno strumento non solo di condanna, tanto per citare sottilmente e ironicamente Kafka, ma di liberazione: attraverso di lui possiamo viaggiare nel tempo e nello spazio, possiamo comunicare in maniera molto più sofisticata che con un cellulare o un computer. Il corpo è una rete e se lo perderemo, perderemo la possibilità di collegare il presente con il passato e il futuro. Oggi si parla di perdita della memoria, ma io focalizzerei la questione di più sulla perdita del corpo.
Se gli artisti vogliono essere degli intellettuali che riescono a leggere la realtà e a proporre una scrittura corsara devono essere prima di tutto dei corpi vitali. Carmelo Bene proponeva di fare di sé dei capolavori. Forse per questo chiamava se stesso, ironicamente, C.B., come una macchina in grado di performare, di essere “strumento”. Artaud parlava degli artisti come di atleti del cuore. Kramer vagava con la macchina da presa in mano per tutta l’America. Pasolini amava camminare e toccare i corpi. Anche con il cinema. Non è un caso che una volta disse: “il cinema è una questione di sole”. Ma, come ho già scritto, nella mia conversazione con Onofrio Romano e in altri momenti di questa rubrica, penso che la cultura italiana (di sinistra), sia pervasa da una nostalgia, che diventa conservatorismo. Che blocca l’energia vitale. Che dimentica l’infinita possibilità del corpo. Quanto al moralismo, credo che la questione sia un po’ paradossale: se Sorrentino è moralista è perché non prende posizioni ma si astrae, si alza, come tu hai giustamente sottolineato, senza assumere, senza caricarsi alcun peso. O meglio, il suo film è pervaso da una nostalgia senza oggetto. Senza la nostalgia del corpo. E non è neanche una nostalgia della nostalgia. O una nostalgia del futuro. È certamente uno specchio del nulla contemporaneo ma il cui potere catartico è inficiato da quel compiacimento formale, che hai evidenziato. E che fa scambiare la sua opera per quella di un artista creativo e geniale. La grande bellezza è una pubblicità del mondo attuale, come se lo dovessimo vendere agli extraterrestri. Non a caso il trailer-spot che lo anticipava in tv era molto forte, molto di più del suo essere un film. Ma certo, questa nostra epoca, resterà come l’epoca della pubblicità.
Quanto ai vari Bertolucci, Bellocchio etc che citi, credo che, se essi sono, come scrivi, più legati all’immaginazione e dunque, intrinsecamente, all’utopia è perché hanno più memoria, più “abitudine” a viaggiare nel corpo. Essendo figli di un secolo diverso. Ma la loro visionarietà è, a mio parere, abbastanza logora, anche perché il loro ruolo non è né quello dei saggi, dei vecchi maestri custodi di una tradizione, di un’attitudine (come nell’arte orientale) né quello dei grilli parlanti che rinunciano all’affabulazione a favore di un’arte più didascalica e pedagogica come, forse, alla fine della sua opera ha cercato di fare Rossellini o, in un modo diverso Petri. Né osano dimenticare lo “spettacolo” facendo riavvolgere il nastro e consegnando ai nuovi, agli eredi, un’atmosfera bianca, una tabula rasa, un ricominciamento. Come, alla fine del Novecento, hanno fatto Francis Bacon, Beckett e Kantor, costruendo degli imballaggi, degli urli di ghiaccio. Essi, invece, continuano solo a produrre e a tenere la scena, narcisisticamente, in questo ispirando i Sorrentino e i tanti giovani che si credono registi, solo perché esistono.
Ma la tua generazione non riesce ad uccidere questi inutili maestri perché non li ha avuti, non li ha interiorizzati. E vaga in una popolata ed ebete felicità o in una spopolata terra di pastori dove rifugiarsi per smettere di cercarla. Parlami del tuo territorio, di come lo vedi e lo vorresti, dunque…
Si, volevo toccare la questione relativa alle pratiche di impegno culturale, attraverso cui fare riferimento al mio territorio, la Puglia, e alla mia esperienza diretta. In questo quadro così complesso, destrutturato e difficile da definire, la Puglia degli ultimi quasi dieci anni ha avuto un posto significativo in Italia, o almeno nel Mezzogiorno, in quanto laboratorio di nuove modalità di sostegno alla cultura. Anche qui, non si vuole certo fare un’indagine esaustiva del fenomeno ma provare a ragionare su alcuni aspetti. La prima questione è: ha funzionato? Sta funzionando? Ora, per rispondere a questa domanda bisogna intendersi sui criteri di valutazione e sugli obiettivi da raggiungere; e chiaramente, criteri e obiettivi variano al variare di chi effettua la valutazione. Provo a fare una sintesi: su alcuni fronti la Puglia ha fatto dei grandi passi in avanti e penso principalmente ad alcuni settori che gravitano intorno alla cultura, dal turismo allo spettacolo, e certamente ha avuto il merito di porre la questione della cultura come di qualcosa con cui si può, anzi si deve ‘mangiare’ (per riprendere la famosa frase di quel ministro lì). Ma è sufficiente? Credo di no. E credo soprattutto che si debba ancora individuare la strada che un territorio, una Regione deve intraprendere rispetto ad un progetto culturale complessivo; mi sembra, infatti, che in questi anni si sia lavorato molto ma senza una traccia chiara, un percorso definito, un’idea di che cosa siamo stati e di che cosa vorremo essere in futuro (la carenza di analisi e progettazione di cui parlavo prima). L’altra nota dolente riguarda certamente il tema della meritocrazia e delle pari opportunità ancora da realizzarsi, a fronte di un sistema, in particolare nel settore culturale, schiacciato ancora da logiche baronali, di appartenenza (anche politica), di sudditanza, di interesse specifico e particolare. Se non si smuove questo macigno nessuna crescita reale si verificherà mai.
Chiudo con un’ultima considerazione relativa al settore cinematografico e con una nota positiva. In questi anni mi sono imbattuto in tante realtà locali fervide, organizzate, preparate, mosse da una passione fortissima per il cinema. Penso a tanti registi, soprattutto giovani, che decidono di restare in Puglia e di lavorare in un territorio ancora periferico (e un altro grande tema di indagine dovrebbe essere la migrazione culturale italiana, e del sud in particolare); penso ai tanti studiosi e critici che spesso lavorano fuori dalle istituzioni (vedi Università); penso ai festival e alle rassegne che si realizzano con poche risorse e tanta abnegazione. Molte di queste realtà crescono nelle periferie, lontane dal baricentro politico e istituzionale della Regione e forse anche questo non è un caso. Se le politiche culturali sapessero guardare con più attenzione a queste risorse, ci si renderebbe conto della ricchezza e del calore che cova sotto la cenere. Alla politica, alle istituzioni toccherebbe smuovere questa cenere.
Si certo, ma tutti questi festival piccoli e abbandonati girano totalmente a vuoto. Comunque le tue parole inaugurano un’analisi sullo stato delle cose pugliese necessaria e che può essere importante, come scrivi, anche per tutto il paese. Dunque comincia un viaggio che, aldilà di qualsiasi retorica meridionalista, cercherà di riflettere un paesaggio, sempre che il paesaggio si lasci catturare dalle parole e da ciò che trasmettono. A presto….