Il nuovo governo guidato da Renzi si appresta a diventare realtà. Le difficoltà sono molte ed il gioco politico si sta dimostrando particolarmente complesso, essenzialmente perché tutti pretendono la loro fetta di torta.
Al di sopra dell’intera vicenda, pesa come un macigno lo scetticismo dei cittadini, peraltro ampiamente giustificato dalla formazione dall’ennesimo esecutivo di non eletti.
Il rischio più grande è dunque quello di perdere completamente la bussola del consenso, allontanando ancora di più, se possibile, gli italiani dalle proprie istituzioni. A Renzi spetta quindi l’arduo compito di riallacciare questo legame perduto, anche se con tutta probabilità i vincoli imposti dalla disperata situazione economica in cui versa il Paese guideranno le scelte del Premier, mettendone a repentaglio la popolarità. In quest’ottica, la poltrona da ministro dell’economia risulta essere quella più discussa ed anche quella più scomoda, poiché le possibilità di bruciarsi politicamente sono molto elevate.
La scelta è ricaduta su Pier Carlo Padoan, consulente della Banca Mondiale, della Bce e della Commissione Ue, vicesegretario generale dell’Ocse e attualmente alla guida dell’Istat.
Il teatrino degli ultimi giorni ha dimostrato che non esiste una scelta ottimale sulla personalità cui affidare il ministero, perché le vedute sono troppo differenti, spaccate tra chi avrebbe voluto un politico puro e chi auspicava una guida tecnica “illuminata”.
Il primo avrebbe avuto un vantaggio in termini di consensi, magari mostrando minor soggezione del secondo rispetto alle regole imposte da Bruxelles, anche se la linea odierna è certamente più leggera rispetto a quella affrontata dai governi precedenti, vista la pur debole ripresa dell’economia continentale.
In questo momento, tuttavia, l’opposizione “internazionale” non può che essere di facciata, poiché nella realtà l’esecutivo italiano, nemmeno legittimato dal voto, avrà ben poca voce in capitolo nelle sedi che contano: basti pensare che l’attuale ministro non partecipa al G20 in corso in Australia. D’altra parte, i non politici di professione hanno dalla loro una maggiore libertà di manovra, forti della loro indipendenza politica, che tuttavia negli ultimi anni ha portato ad accentrare le critiche proprio verso i non tesserati, dalla Fornero a Saccomanni.
Non che le critiche siano ingiustificate, visti i risultati in termini di prodotto interno, salari ed occupazione, ma occorre sottolineare che raramente si è vista tanta indignazione verso un qualunque politico professionista, eppure sono tanti ad aver ampiamente dimostrato la propria incapacità.
Per gli italiani sarebbe forse più utile comprendere cosa possa fare questo governo per recuperare, almeno in parte, il terreno perso in campo economico, concetto che coinvolge non solo il PIL ma anche e soprattutto il lavoro.
Come al solito, invece, il ragionamento politico si muove in senso contrario: il nome prima delle competenze. All’Italia servono, banalmente, due cose: riforme economiche, poche ma efficaci, ed un piano di rientro dal debito pubblico. Per il momento non è dato sapere cosa abbia in mente il futuro Premier, visto che non c`è stata alcuna campagna elettorale, ma qualcosa si dovrà pur fare.
Al primo posto sembra esserci il Job Act, ed in effetti una riforma delle regole in materia di lavoro sembra oltremodo necessaria. I contenuti, però, sono ancora tutti da discutere, poiché la vaga proposta di Renzi non ha accontentato sostanzialmente nessuno.
Il nuovo governo, in quest’ottica, dovrebbe avere il coraggio di non focalizzarsi solo su flessibilità ed articolo 18, perché le barriere in uscita rappresentano una parte irrisoria del problema. Ciò che occorre è una rivoluzione sistemica nelle tipologie di contratto, la fissazione di un salario minimo, fino ad arrivare ad un agganciamento del salario al titolo di studio posseduto.
Non si tratta di riforme comuniste, come qualcuno sostiene in malafede, poiché sistemi del tutto simili sono in vigore in paesi ben più liberali del nostro.
Un reddito più congruo e soprattutto più stabile può rilanciare i consumi e quindi la produzione, nonché il risparmio, che costituisce la linfa vitale per le banche. Per rendere possibile tutto questo occorre ridurre il carico fiscale per le imprese, rendendo finalmente concrete misure che vengono sbandierate da anni in ogni campagna elettorale, ma che non vedono mai la luce.
A parità di spesa, infatti, per un imprenditore è meglio pagare un po’ di più un dipendente piuttosto che versare l’equivalente nelle casse dello Stato.
La condizione fondamentale resta comunque la riduzione del debito, sena la quale un taglio fiscale è pressoché impossibile: in assenza di crescita del PIL, tuttavia, i soli tagli alla spesa non bastano per raggiungere l’obiettivo.
Sulla base di queste necessità, la decisione su quale sia la figura più idonea per affrontare le sfide che si prospettano, non molto distanti da quelle dei precedenti governi, appare ancora più pregnante.
La differenza tra “tecnico e “politico”, infatti, è netta solo sulla carta, poiché sarebbe auspicabile che ci si occupa di economia ne capisca qualcosa, che sia iscritto ad un partito o meno.
La disponibilità al compromesso, più tipica del politico, sarebbe stata certo un vantaggio in termini di consenso, ma siamo sicuri che sia in linea con la tanto decantata volontà di cambiamento?
Se i tecnici, infatti, sono accusati di essere asserviti alle scelte di Bruxelles e Francoforte, il politico tradizionale potrebbe essere altrettanto tentato di rinunciare alle misure forti per mantenere la maggioranza in parlamento.
La vicenda di Barca, frutto di un giornalismo quantomeno discutibile dal punto di visata deontologico, ha dimostrato in che acque naviga questo esecutivo, quali pressioni subisce, quali compromessi sia disposto ad accettare.
L’ex ministro ne è uscito brillantemente, esprimendo il proprio dissenso verso l’arrivismo politico e la totale assenza di contenuti nel processo decisionale. Eppure, Barca è una figura che sintetizza le due posizioni, un tecnico iscritto ad un partito, a differenza degli altri nomi venuti fuori in settimana.
Un ultimo appunto riguarda la sterile polemica sulla provenienza del ministro dell’economia, che rispecchia il comune sentire della pancia di questo Paese.
Sull’onda della discussione, i commenti della “gente”, termine con cui si usa definire la variegata massa di commentatori del web, riflettono uno scetticismo totale che travalica i contenuti e scade nel qualunquismo assoluto.
La rosa di nomi riportata dai media è stata criticata perché i candidati erano provenienti dall’OCSE, avevano lavorato alla BCE o in Commissione, insegnavano alla Bocconi, erano professori in Inghilterra: rappresentavano, in poche parole, la “casta”, un agglomerato di privilegiati che per definizione ha ottenuto una posizione in modo sospetto.
Il prestigio è quindi un punto a sfavore, per cui sembra che molti italiani preferiscano che dell’economia del Paese si occupi il loro vicino di casa, un qualunque neolaureato, un ragioniere, un disoccupato, perché in fondo non servono mica i titoli o l’esperienza per fare questo mestiere.
Sarebbe il caso, prima di giudicare, di chiedere ai diretti interessati cosa intendano fare per l’Italia, offrendo magari una critica, anche aspra, fondata sui contenuti e non sulla storia personale.
Ma questo non riempie i blog, sfortunatamente.