Se ci attenessimo alla copertina di Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018) verrebbe da pensare ad un romanzo di splendore, dove Anita Ekberg è la regina del cinema italiano, felliniano, immortalata dentro la mitica Fontana di Trevi.
E invece è affondata in una fase di transizione, di decadimento, quella che ci descrive Alessandro Moscè (poeta e narratore che come pochi sente il senso di caducità), raccontata soprattutto nello smarrimento dentro una casa di riposo, alle prese con dolori fisici e con una depressione incurabile. Una vita sommessa dopo che la giunonica attrice aveva incantato perfino un Premio Nobel, Salvatore Quasimodo, che la incontrò nel 1962 e che la ritenne, senza alcun pudore, una “Venere di Botticelli”, una “cortigiana nel novelliere e la “donna dalle mandorle di cristallo”, riferendosi alla luminosità magnetica dei suoi occhi. Moscè reiventa il personaggio, o meglio lo ritrae in una disarmante sorpresa: nel disinganno della vecchiaia e sull’orlo dell’abisso.
Certo, i ricordi alimentano il romanzo, ma è l’asse terreno di un’esistenzialità molto riflettuta e aspra la spinta dinamica di questo libro, come l’elemento surrealista che potrebbe, nel sogno, fermare il tempo, ridonare miracolosamente la giovinezza. Moscè non racconta solo Anita Ekberg, perché affida ai suoi deuteragonisti una parte insostituibile. Specie ad un prete di campagna che in una grottesca seduta spiritica (molto felliniana) interroga l’aldilà come fosse la voce della luna; un vecchio musicista sente le voci provenire dallo scantinato della casa di riposo; una prostituta venuta a mancare leggeva i tarocchi e sembra ancora attraversare i corridoi della casa infondendo un’egolatria generale non tenuta a bada e che contagia gran parte degli anziani.
Alessandro Moscè (A LATO, NELLA FOTO DI GIO’ MARTORANA) si è documentato su Anita Ekberg, e in effetti sappiamo che gli ultimi anni della sua vita furono trascorsi proprio in una struttura per anziani a Rocca di Papa, nei pressi di Roma. Ma ciò che gli interessa di più è l’elemento perturbante, derealizzato del sogno, fino alla morte che coincide con una rinnovata realtà molto simile alla precedente. Il viaggio di Anita Ekberg è dantesco e felliniano, seppure condotto in un recinto, in uno spazio angusto. Il sincretismo delle parole è una coazione a ristabilire sentimenti contrastanti, il malessere e il desiderio come sovraimpressioni di piani temporali, sospesi tra ieri e oggi.
E se Moscè guarda in alto, le sue stalagmiti verbali fanno uscire dalla noia quotidiana la svedese che incontra perfino i lemuri, nella reificazione della sua età. La tramatura di Alessandro Moscè si mantiene in un icastico tono, ma quando Anita scrive di suo pugno impressioni e stati d’animo in un quaderno, ecco che la malinconia e la tenerezza prendono decisamente il sopravvento. Se l’esecrazione della vecchiaia si evidenzia in più punti del romanzo, d’altra parte l’onda magnetica di ciò che è stato induce la ex diva a non dimenticare il passato: la madre, Federico Fellini, Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Gianni Agnelli, Dino Risi, quasi che la loro visione costituisca l’ambrosia per non abbandonarsi all’ultimo respiro.