Università italiane sempre più blindate per l’accesso degli studenti che spesso emigrano all’estero per bypassare i test d’ammissione. Fiorisce intorno agli atenei il business delle preparazioni. Intanto diminuiscono i medici e aumentano drasticamente i posti liberi.
È da più di dieci anni che l’accesso alle facoltà di Architettura e dell’area sanitaria è regolato da un decreto ministeriale che annualmente decide il numero di immatricolati ammessi e i quesiti del test d’ammissione nazionale. Quasi tutti gli altri atenei prevedono almeno un test d’ingresso, obbligatorio e a pagamento, e una graduatoria in cui è veramente difficile non riuscire ad rientrare.
La pratica dei corsi di laurea a numero “chiuso” nasconde dietro il principio di meritocrazia e del rapporto studente-professore, la contraddittoria necessità da parte degli atenei di controllare la qualità degli iscritti, per ottenere la quota premiale dei finanziamenti statali, e di ammetterne il più possibile, essendo le tasse universitarie indispensabili per far quadrare i bilanci del Rettorato. Intanto, sono in costante calo i diplomati che decidono di proseguire gli studi, mentre, viceversa, aumentano gli studenti italiani nelle università pubbliche e private dell’area europea.
È proprio dal confronto con gli standard europei che la legge sull’accesso limitato riesce a passare al vaglio della Corte Costituzionale. L’UE infatti ha stabilito un alto livello di preparazione per i corsi di laurea in Architettura e tutto il campo sanitario, che l’Italia ha deciso di garantire tramite l’istituzione del numero chiuso. La legge era già in discussione dalla fine degli anni Ottanta; una riforma fortemente voluta dalle università italiane al collasso, che è stata al centro di vivissime polemiche, in quanto vista come una limitazione inaccettabile al diritto allo studio. Rispetto alle indicazioni europee, infatti, non fu limitato solo l’accesso a quelle particolari facoltà (più Scienze della formazione primaria) e alle relative scuole di specializzazione. Il ministero da allora ha delegato ai singoli atenei la scelta sul se istituire o meno il test d’ammissione a corsi di laurea per i quali si preveda “l’utilizzazione di laboratori ad alta specializzazione, di sistemi informatici e tecnologici o comunque di posti studio personalizzati o l’obbligo di tirocinio come parte integrante del percorso formativo” (come ad esempio i corsi di giornalismo). Potenzialmente, la riforma tiene conto dunque di una ben più ampia gamma d’indirizzi formativi. Ad oggi solo l’ateneo di Catania ha provato a blindare tutte le sue dodici facoltà (Agraria, Economia, Giurisprudenza, Ingegneria, Lettere e Filosofia, Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, Scienze politiche, Lingue e Letterature straniere, Medicina, Odontoiatria), spinta dai numeri proibitivi di iscritti annui: in 12.263 si sono infatti registrati ai test d’ammissione di settembre scorso, contendendosi un totale di 9.270 posti. La preparazione al test incide non poco sul bilancio familiare dei candidati: sono completamente a carico degli studenti libri e corsi di preparazione disposti dalle stesse università pubbliche (dai 30 ai 120 euro) o da istituti privati (da 800 a 4.000 euro). Il test d’accesso poi costa 30-50 euro, una condizione che ha spinto molte facoltà non vincolate dal decreto ad istituire un numero sempre più “aperto” mano a mano che si avvicinano le scadenze per l’immatricolazione, oppure test d’ingresso non selettivi ma obbligatori, “finalizzati alla verifica di saperi minimi”, che indirizzano gli studenti a corsi di recupero.
Il test d’ammissione ministeriale prevede quesiti a risposta multipla che spaziano dalla cultura storico-letteraria a quella scientifico-matematica ed accolgono una serie di domande più attinenti al corso di interesse; di questi, i singoli atenei ne scelgono circa ottanta da proporre agli studenti. Secondo i dati diffusi dalle università con riferimento al 2009, soltanto un candidato su nove è riuscito a superare il test d’accesso ai corsi di Medicina e Chirurgia, mentre per Odontoiatria appena uno su ventinove. Ma ogni anno il Codacons raccoglie migliaia di adesioni per opporre ricorso ai Tar di tutta Italia, per errori presenti nelle domande o, peggio ancora, per gravi violazioni dell’anonimato e segretezza delle prove. Lo scandalo peggiore finora è stato quello che ha coinvolto nel 2007 gli atenei di Messina, Bari e Chieti (sette le persone indagate per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla truffa ai danni dello Stato più una cinquantina di studenti). Essendo state rimosse dal conteggio finale due domande (perché sbagliate), il massimo ottenibile dal test per Medicina e Chirurgia si attestava sui 78 punti; su oltre 42 mila candidati, soltanto 18 riportarono un punteggio superiore o uguale a 70 punti ed erano tutti o quasi dislocati tra i suddetti atenei. Addirittura Messina si attestò su di una media del 71, staccando di ben dieci punti la Federico II di Napoli e la Bicocca di Milano. Risultati poco credibili.
La sede, poi, fa la differenza. Il tetto massimo per le immatricolazioni è stabilito ogni anno, tramite un decreto ministeriale che ne indica anche la distribuzione tra le quaranta università che accolgono facoltà dell’area sanitaria, stabilita in base al numero dei posti letto dei Policlinici: un iscritto al primo anno di Medicina ogni tre posti letto. Un criterio che volutamente non tiene conto della popolazione universitaria: i grandi policlinici hanno incentivato il sostegno alle piccole sedi per poter dislocare parte dei docenti su queste (sono oltre 12.000, tra ricercatori, professori associati e ordinari). Questo però provoca un’eccessiva parcellizzazione dei corsi: per esempio, i 789 posti per Odontoiatria sono dislocati in ben 36 sedi e di queste, dodici hanno meno 20 iscritti.
Se a livello generale si registra una riduzione del 4,4% di iscrizioni all’università (pure a fronte di un aumento dei diplomati), dal 2001 al 2009 il numero dei partecipanti ai test d’ammissione invece è aumentato esponenzialmente (addirittura +97% per Medicina e Chirurgia). Si sono adeguati quindi anche i posti a disposizione: rispetto al 2009, 50 in meno per Veterinaria, 620 per Architettura. Non diminuiscono invece quelli per Scienze infermieristiche e Medicina e Chirurgia ( anzi ci sono rispettivamente ben 1.427 e 750 posti in più). I laureati nell’area sanitaria infatti sono in allarmante calo: dal 2010, secondo una proiezione del Ministero della Salute, non è più assicurato il ricambio tra medici pensionabili e neo assunti, un divario che produrrà tra il 2012 e il 2018 una carenza complessiva di 40.000 medici. In un dossier del 2007 redatto dall’Asl Emilia-Romagna era emerso un dato indicativo: il 23,2% degli studenti intervistati e frequentanti il I anno di Scienze Infermieristiche aveva espresso la decisione di interrompere gli studi, con motivazioni che andavano dal troppo impegno (32,2%), problematiche relazionali (20,2%) o economiche (11,3%) fino alla disillusione circa il futuro lavorativo (10,6%). Un trend nazionale: secondo le statistiche Ocse del 2008 uno studente italiano su 5 ha abbandonato l’università al primo anno. Sostanzialmente, su 100 immatricolati, solo 53 arrivano a discutere la tesi e di questi ben il 60% è fuori corso. I singoli atenei stabiliscono un numero minimo di crediti necessari per passare all’anno successivo (tenendo conto che una tesi di laurea triennale richiede una quota totale di 180 crediti), al di sotto del quale è obbligatorio “ripetere” l’anno accademico; ma non esiste un limite di tempo alla validità degli esami sostenuti. Avere troppi studenti fuori corso significa esporsi, però, ad una riduzione dei fondi ministeriali: un numero eccessivo di studenti “poco produttivi” determina pesanti decurtazioni della quota premiale, assegnata in base alla qualità della ricerca dell’Ateneo. I finanziamenti sono distribuiti anche in base al numero di studenti iscritti, su cui la quota di fuori corso incide poco; si tratta di un parametro che piuttosto renderà rischioso qualunque aumento delle tasse universitarie,ormai una scelta obbligata per molti atenei. Gli altri, per coprire i tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario applicati dall’ultima finanziaria, hanno puntato sulla redistribuzione delle fasce di reddito o sul ridimensionamento delle borse di studio, e sulla lotta all’evasione: uno studente su 5, infatti, dichiara un reddito familiare inferiore a quello effettivo (il sistema si basa sull’autocertificazione), fino ai casi limite come quello registrato presso la Federico II di Napoli, dove il 64% degli iscritti risultava versare in difficoltà economica, percentuale che ha attirato l’attenzione e i controlli della Guardia di Finanza. Sicuramente, andrà operato uno snellimento delle spese a bilancio. Un’università come quella di Catania (60.000 studenti e 12 facoltà) spende all’anno 145.000 euro per “giardinaggio e pulizia aree esterne”, 1.100.000 euro per la vigilanza, 17.500 euro per l’inaugurazione dell’anno accademico, 3.000.000 di euro di energia elettrica, 1.414.092,90 euro per “borse, premi ed interventi a favore degli studenti”. Alla voce “entrate contributive”, ottenute grazie alle tasse, ai contributi per il rilascio della pergamena di laurea e affini, risulta un totale di 18.582.539 euro: i finanziamenti statali sono insomma fondamentali per rinnovare e pagare i vari contratti lavorativi, cui le università destinano circa 6 miliardi all’anno complessivamente. Per questo, il Senato Accademico dell’Università di Catania e dell’Università di Palermo, dove più della metà degli iscritti è fuori corso, ha imposto alle nuove matricole un tempo massimo di sei anni per una laurea triennale, concedendo a tutti gli altri tempo fino a marzo 2014 per sanare la propria condizione.
Nel resto d’Europa, circa il 69% degli immatricolati riesce a laurearsi tra i 22 e 24 anni, nonostante i programmi delle lauree siano in media più vasti e completi di quelli italiani. Superato lo scoglio della laurea, ci si affaccia nel (piccolo) mondo del lavoro: il tasso generale UE di disoccupazione giovanile è al 9,6% (dati Eurostat) ma sono molti preoccupanti i casi come la Spagna, che registra un tasso del 40%. In Italia ci aggiriamo intorno al 30%; per quanto riguarda più specificatamente i dottori, ad un anno dalla laurea triennale il 43% ha un impiego, tasso che sale al 55% per chi ha conseguito una laurea magistrale (XIII Rapporto Almalaurea 2011). Perché il lavoro in realtà si trova; ma è a tempo determinato e sottopagato. La “generazione 1000 euro” deve accontentarsi spesso di 800 euro mensili; nessuna sorpresa, perciò, se il 69% degli italiani tra i 18 e 34 anni vive ancora con i propri genitori, soprattutto quando emergono dati simili in tutta la zona europea: secondo una proiezione dell’Istituto tedesco per la Ricerca economica, ben 60.000 laureati tedeschi vivono sulla soglia della povertà.
In tutto ciò, sono sempre più numerosi gli studenti che si rivolgono a università straniere private per aggirare il test d’ammissione alle facoltà sanitarie, sfruttando il principio della libera circolazione di professionisti e studenti, che garantisce il riconoscimento del titolo di studio conseguito all’interno della Comunità Europea. Mete privilegiate di quello che provocatoriamente è stato chiamato da Gianfranco Prada, presidente dell’Associazione nazionale dentisti italiani, il “turismo delle lauree”, sono Romania, Ungheria e Spagna. Molti sono figli di professionisti, destinati a tornare in Italia e rilevare lo studio medico di famiglia.
Per l’anno accademico 2010/2011, sono circa mille gli studenti italiani iscritti al corso di Medicina o di Odontoiatria del Tito Maiorescu (Bucarest), più quelli presenti negli atenei di Oradea e Arad, per un totale di 5000 italiani solo in Romania (non si hanno però cifre ufficiali). La retta annuale é di 3000 euro per sei anni, permanenza agevolata da un costo della vita molto basso. Nel 2007 in cinquanta studiavano Odontoiatria presso l’Uax di Madrid, nel 2010 invece sono arrivate ben 200 nuove matricole. Contando anche gli iscritti all’Uem, i laureandi italiani sono in tutto mille; d’altro canto, il costo dei corsi si aggira intorno ai 16 mila euro l’anno.
In ogni caso, la prospettiva di una formazione o di una carriera migliore stimola la partenza di 65 mila giovani italiani tra i 20 e i 32 anni all’anno (Confimprese). Ben 70% di loro sono laureati, in fuga o dalla carenza di meritocrazia o da un mondo del lavoro chiuso, un dato di fatto che emerge ad esempio dal settore imprenditoriale: solo l’1,5% degli under 35 è riuscito, nonostante la nuova legislazione per le cooperative giovanili, ad attivare un’attività d’impresa; oppure dai livelli occupazionali delle donne tra i 25 e i 54 anni: è attivo il 63,9% delle lavoratrici italiane contro una media europea del 75,8%, penultime in classifica prima del 56,6% registrato a Malta.