Non posso, alla fine, dimenticare quello che è il mio “ruolo” di fondo, come direbbe mia figlia psicologa, e cioè di uomo di Legge, magistrato prima, poi avvocato, nonché giudice tributario.
In tale veste mi sento di fare una breve analisi della situazione giudiziaria e di diritto sostanziale in Italia, senza altra pretesa, se non quella di offrire spunti di riflessione a chi, in vari ambiti, debba occuparsi di queste problematiche:
Lasciamo stare la collocazione che viene data all’Italia nel contesto internazionale, dall’esterno, con riferimento all’affidabilità dell’Amministrazione della Giustizia, come è notorio, catastrofica, e concentriamoci, invece, sul punto della situazione; su osservazioni e indicazioni che possiamo elaborare dall’interno, da utenti, diciamo così, dell’Istituzione Giustizia, sotto il profilo civile, penale, amministrativo, tributario.
E’ assolutamente fuori della Grazia di Dio, non trovo espressione più calzante, quel che accade in Italia con riferimento ai TEMPI della Giustizia.
Biblici, ma qui non è della Bibbia che si tratta, non posso definirli altrimenti.
La durata media di un processo civile o penale (tratto un per un altro, assorbendo anche il discorso dei diversi gradi di giurisdizione e delle diverse competenze per materia e per valore, per intenderci) non è inferiore, con valutazione per difetto, a 7/8 anni, laddove una Giustizia “normale” (non particolarmente efficiente), dovrebbe avere il suo corso, mediamente, in 3/4 anni (diciamo 1 anno fase preliminare e primo grado – 1 anno ½ secondo grado – altrettanto più o meno il terzo grado, da ritenersi necessario solo in casi eccezionali).
La Giustizia Amministrativa ha diramazioni e intrecci tali da determinare una infinita serie di motivi di rinvio per cui, se si vuole, potrebbe, paradossalmente, non vedere mai fine, tranne sporadici casi di immediatezza e accelerazione, che costituiscono una anomalia, un’ingiustizia, per l’improvviso procedere al contrario, nell’ingiustizia del normale letargo.
La Giustizia tributaria, una volta emblema dell’andazzo, dopo le recenti riforme legislative di diritto sostanziale e processuale, è notevolmente migliorata (anche se in Commissione Tributaria Centrale, organo giudiziario soppresso; in vita fino ad esaurimento dell’arretrato, capita che si celebrino ancora cause risalenti agli anni’70), ma ciò non è stato propriamente indolore. Con gli automatismi, i concordati e accorgimenti vari, è vero che il più delle volte non si arriva affatto in Commissione, ma c’è anche meno risposta alla domanda di Giustizia, sia sul versante del singolo contribuente il cui buon diritto a volte soccombe alle esigenze di superamento delle situazioni apoditticamente inquadrate come “irrilevanti”, ai costi spesso superiori al “quantum” contestato, ecc. sia sul versante generale, dove situazioni, in genere di grosso rilievo, vengono risolte mediante scorciatoie, abbattimenti drastici ma “sicuri” nell’ammontare, superficializzazioni di quelle verifiche che, viceversa, porterebbero la pratica a sperdersi nei meandri del tempo. E’ un po’ come il discorso dei livelli di inquinamento nell’aria e nell’acqua. Vuoi risolvere in un sol colpo, l’intasamento di procedure da seguire, da parte di tutti i Comuni che si trovano lievemente al di sopra del tasso consentito? Alzi di quel po’ che basta il tasso di inquinamento tollerato ed ecco che, come con un colpo di bacchetta magica, tutto diventa regolare… fino al prossimo intasamento… e così via.
Sono i tempi moderni, fatti così. Non è che siano un gran che, il concetto di giustizia sociale ne soffre parecchio. Ma ora, qui, ci stiamo occupando dei tempi della Giustizia istituzionale che, come dicevo, sono tempi antichi, se non antichissimi.
La situazione descritta, come è intuitivo, comporta una continua tendenza ad aggravarsi intrinsecamente, come un serpente che si mangia la coda.
Tanto per fare qualche esempio, se il processo civile fosse più rapido, ci sarebbero meno processi civili perché chi mira a ritardare i tempi non ci proverebbe nemmeno; i costi non varrebbero la candela. Ci sarebbero anche meno processi penali, perché molte questioni che ora sfociano nel penale proprio per la loro lentezza a risolversi in ambito civilistico, troverebbero, viceversa, proprio qui la loro definizione.
Se il processo penale fosse più rapido ci sarebbero meno processi penali se non altro perché, divenendo assolutamente chimerico aspirare alla prescrizione, ci si rivolgerebbe a riti alternativi, e così via, fino a costituire maggiore remora alla violazione della legge penale.
Tutto questo comporterebbe l’innesco di una spirale virtuosa che, in tempi brevi, potrebbe sì portare il livello di efficienza della Giustizia Italiana, nello standard europeo.
Ci sarebbe molto da dire anche sulla QUALITA’ della Giustizia (sono sotto gli occhi di tutti i casi eclatanti irrisolti o risolti con risultati che lasciano aperti tutti i dubbi valutativi inerenti; oppure risolti in modo assolutamente inadeguato rispetto alla loro gravità ecc.); in questa sede non è possibile altro che proporre un assaggio di inconsistenza e inaffidabilità (che trova riflesso anche nell’esemplificazione fatta) con riferimento all’anomalia tipica del nostro Ordinamento, per cui una delle parti in causa nei procedimenti penali e nei procedimenti civili o di volontaria giurisdizione che richiedono la partecipazione del Pubblico Ministero, e cioè proprio quest’ultimo, la c.d. Pubblica Accusa, non è equidistante, rispetto alla controparte privata, nei confronti dell’Organo Giudicante, come sarebbe assolutamente indispensabile in un Paese democratico e moderno, ma è appartenente allo stesso Ordine professionale, stesso concorso, stessa vita associativa ed elettorale attiva e passiva interna.
Non occorrono molte parole per sottolineare l’abnormità di una simile situazione. Basti solo porre mente con coscienza ed onestà intellettuale, a quel che normalmente accade, nella forma e nella sostanza, quando un P.M. (per motivi che potranno essere i più sacrosanti e moralistici di questo Mondo, ma nulla hanno a che vedere con una corretta Amministrazione della Giustizia, anzi spesso la stravolgono sulla falsariga del criterio assolutamente individuale, caratteriale, culturale o subculturale, del “fine” che giustifica “i mezzi”) va a parlare riservatamente con un Giudice, nel corso di un procedimento in via di trattazione davanti ai suddetti, e quel che accade, invece, quando è, al contrario, un difensore dell’imputato o di un’altra parte privata a chiedere di parlare riservatamente col Giudice.
Qualità, quindi, patrimonio indispensabile. Come negare che una Giustizia dotata di buone qualità è irrinunciabile in uno Stato di Diritto, in quanto promuove gli onesti e i cittadini di buona volontà e penalizza i disonesti e trafficoni adusi ad aggirarla?
Alla luce di tutto quanto sopra espresso, non vi è dubbio che occorrono riforme radicali e di fondo della materia legale nel suo complesso (a parte la necessaria normativa per le liberalizzazioni, il lavoro, la legge elettorale e così via; insomma tutto quello che riguarda più aderentemente un riassetto strutturale dello Stato e un rinnovamento sociale nel Paese, che qui non viene preso in trattazione).
Parlo qui delle leggi regolatrici della vita dei cittadini. Esse, per come sono redatte e proposte non hanno meno peso delle leggi più direttamente attinenti all’Amministrazione della Giustizia, sull’efficienza e affidabilità di quest’ultima.
Va da sé che una legge chiara è di più facile interpretazione da parte dell’Organo Pubblico che deve applicarla e di più facile intelligibilità da parte del cittadino che deve ad essa attenersi.
Riforme di tale portata richiedono un grande impegno e respiro lungo, non è possibile, né richiedibile, che esse vengano attuate in tempi brevi, né che si sostanzino in interventi legislativi a pioggia, sulle materie più disparate, in una accozzaglia da abito con le toppe (come, più o meno, si è sempre fatto in Italia), ma piuttosto che si realizzino in modo organico e con la visione d’insieme di un guardaroba ben fornito, con l’occhio alle necessità e agli accostamenti.
Si può solo auspicare, al riguardo, che siano il più possibile ridotti i tempi di elaborazione e cambiamento del sistema ordinamentale in atto, ormai obsoleto, gravoso e deleterio per i cittadini che chiedono Giustizia.
D’altronde, non va sottaciuto che su alcune questioni singole, urgenti, ormai incancrenite per l’incuria dei vari “legislatori” che si sono succeduti, andrebbero dettate immediate regole.
Parlo di dare ossigeno a chi si trova in stato di asfissia.
Non posso, in questa sede, che proporre all’attenzione qualche esempio.
Prendiamo uno di carattere sostanziale e uno di carattere processuale, con l’aggiunta di un rapidissimo accenno al diritto di famiglia, tanto per non farci mancare niente:
Il fiore all’occhiello tocca senz’altro alla sciagurata abrogazione del reato di falso in bilancio.
Questo è un reato molto grave in tutti i Paesi industriali, dove può dare luogo anche a class action (segnatamente negli USA, come mi viene confermato da amici americani), sia per motivi specifici, diciamo: le leggi della produzione e del mercato richiedono chiarezza: il contraente deve potersi fidare della consistenza patrimoniale e della correttezza contabile del soggetto con cui ha a che fare; altrettanto dicasi del consumatore che deve ben sapere che cosa compra e da chi. Così cresce la fiducia, quindi l’economia e il livello occupazionale. Sia per motivi generali.
Se si possono impunemente alterare i conti in una società, diventa questo un canale di riciclaggio di denaro sporco di grande utilità, tanto da diffondersi a macchia d’olio, venendosi così a sottrarre con più facilità evasori e criminali alle leggi dirette a proteggere e promuovere il benessere, la libera circolazione dei beni e delle idee nella società civile; inoltre, tale situazione, invita a violare la legge anche coloro che tendenzialmente non erano disposti a farlo, per emulazione di chi ne ha tratto vantaggio e per allettamento dei vantaggi economici illeciti, di gran lunga più consistenti di quelli leciti.
L’annullamento del falso in bilancio nella legislazione italiana, allontana il nostro Paese dalla comunità industriale e lo avvicina alla comunità tribale, dove al posto del falso in bilancio, c’è il meno bacchettone bunga-bunga.
Sotto il profilo processuale, vorrei sollevare una questione che ha del tecnicistico, ma che ritengo, prendendo spunto dall’esperienza, condizioni il funzionamento della Giustizia, in modo particolarmente incisivo:
Devo necessariamente trattare l’argomento in pillole:
Come è ben noto, chi risulta perdente in una controversia civile, è soggetto ad attività esecutiva, che si svolge nei seguenti termini: precetto (invito a pagare, dando un breve termine), pignoramento (trascorsi 10 giorni infruttuosi dalla notifica del precetto). La stessa procedura è applicata ad un imputato di un procedimento penale, condannato in via definitiva, per quanto riguarda il risarcimento dei danni alla parte civile costituita.
Il Legislatore ha sempre tenuto unificate le due procedure, uniformandosi, probabilmente, a principi appartenenti a tempi ormai andati, quando una persona considerata normalmente “per bene”, una volta incappata nelle maglie della Giustizia Penale (lasciamo perdere i criminali per scelta di vita, per i quali ben diversi erano e sono i parametri) era, in linea di massima, presa da sconforto, vergogna, bisogno di riparare, di riconquistare la credibilità sociale. Oggi che, in linea di massima, accade esattamente il contrario, è, giunto, a parere del sottoscritto, il momento di schiodarsi da tale uniformità e cambiare, parzialmente, le regole.
A parte una revisione più ampia ed organica (per il che, poi, anche con buona volontà, i tempi finiscono con l’essere sempre estremamente lunghi), sarebbe sufficiente, provvisoriamente, l’introduzione di poche regole semplicemente e agevolmente attuabili.
Mi spiego: chi risulta soccombente in un procedimento civile, giustamente fruisce di 10 giorni di tempo per ottemperare, dopo di che scatta il pignoramento, perché è pur sempre assistito da una presunzione di buona fede, per cui c’è da credere che non sottrarrà i suoi beni all’esecuzione giudiziaria in quanto intenzionato a non perdere terreno, o perderne meno possibile, nei confronti del contesto etico, lavorativo, impiegatizio, imprenditoriale, pubblico, privato e quant’altro in cui è inserito. Inoltre, in casi particolari di pericolo per gli interessi di chi agisce, DA DIMOSTRARSI da parte di quest’ultimo (il che spesso è più complicato di quanto si pensi), si può ottenere l’azzeramento, per così dire, del termine di 10 giorni di cui sopra, con contestuale notifica del precetto e pignoramento, o con pignoramento preventivo dei beni, secondo quella che sarà considerata la migliore soluzione per evitare che il debitore-soccombente nella causa civile, possa disfarsi dei suoi beni, chiudere conti correnti, ecc.
Ora, a me pare, che risulti palese la differenza con chi, in un procedimento penale, è stato definitivamente condannato oltre che sotto il profilo penale, anche al risarcimento del danno civile.
Costui non ha, palesemente, alcuna intenzione di risarcire la parte civile, altrimenti l’avrebbe fatto prima, usufruendo di una attenuante e, in ogni caso, di una consistente riduzione della pena. Inoltre, ritornando a quanto sopra accennato circa le caratteristiche dei tempi moderni in raffronto ai “tempi ormai andati”, è assolutamente pronto a disfarsi di beni, danaro, occupazioni (con un occhio alla convenienza, ovviamente, ma questo è un altro discorso), o nascondere tutto quanto per sottrarsi agli obblighi civilistici derivanti dalla condanna penale; infine, se qui di presunzione deve parlarsi, visto che siamo in ambito penale, trattasi di presunzione di mala fede che, automaticamente, incide sulla necessità di non lasciare a chi si trova in queste condizioni 10 giorni di tempo per corrispondere il dovuto, utilizzabili da lui ben diversamente che non nel senso imposto dalla sentenza (o doversi dare da fare, caso per caso, il più delle volte infruttuosamente, per evitare che quel tempo venga utilizzato nel modo paventato, così da frustrare le aspettative di chi deve ricevere il risarcimento).
Parlando chiaro, in tutta sincerità, quante probabilità ci sono che un condannato per maltrattamenti verso il coniuge o la famiglia, accetti passivamente di vedersi pignorare i soldi depositati su un conto corrente, e non si attivi, una volta ricevuto il precetto, per far sparire tutto? Vero è che potrebbe farlo anche prima, ma non c’è motivo per facilitargli il percorso. Altrettanto dicasi per un c.d. “cittadino insospettabile” condannato per stupro o per pedofilia, e altri analoghi casi.
Quale potrebbe essere, allora, il rimedio provvisorio e immediato? Le poche regole semplicemente e agevolmente attuabili, alle quali accennavo?
Un intervento legislativo del tutto snello, col quale si potrebbe considerare, nel caso di condanna civile conseguente a sentenza penale irrevocabile, una presunzione assoluta di inaffidabilità dell’esecutato (l’esistenza alla radice del periculum in mora e del fumus boni iuris, per dirlo agli addetti ai lavori). In pratica, nel momento in cui l’avente diritto invia il precetto ad un condannato con sentenza passata in giudicato, che né prima, né durante il processo, né immeditamente dopo, ha sentito l’impulso di adempiere ai suoi obblighi, può, potestativamente scegliere di notificarlo contestualmente al pignoramento dei beni o profitti su cui intende rivalersi; ferma restando ogni più ampia possibilità per il debitore di liberarsi pagando o facendo offerta reale di beni in pagamento.
Una simile modifica non sarebbe affatto sconvolgente, non turberebbe gli equilibri del sistema e renderebbe giustizia a tanti cittadini riconosciuti meritevoli, nel momento dell’accertamento dei fatti da cui hanno ricevuto danni, e lasciati, viceversa, nel più assoluto abbandono al momento di trarre le fila della ragione ottenuta.
Per quanto riguarda l’accenno preannunziato al diritto di famiglia, lasciamo da parte (al di là di qualsiasi presa di posizione morale, religiosa o filosofica che non rileva in questa trattazione) tutta la problematica, pur di fondamentale importanza, circa la disciplina della famiglia di fatto, delle possibilità di mettere su una famiglia tra persone omosessuali, anche con attenzione all’istituto dell’adozione, atteso il riordino sistematico, e quindi elaborato e di fondo, che, indubbiamente, la materia richiede, non dimenticando i necessari aggiornamenti, per quanto riguarda il divorzio (tre anni di distanza obbligatori dalla separazione, per fare un esempio, oggi come oggi appaiono certamente eccessivi).
Mi limito qui a ricordare un disegno di legge che il Governo Prodi stava rapidamente portando avanti e che, con il passaggio al Governo Berlusconi si è inspiegabilmente bloccato.
Mi riferisco al superamento dell’automatismo maschilista per cui i figli assumono ex lege il cognome del padre.
Basterebbe una semplice leggina che, in tutta armonia, desse libertà di scelta ai coniugi in proposito, come è in quasi tutto il Mondo Occidentale e, certamente, nei Paesi più avanzati. Questo, ancora una volta, avvicinerebbe di più l’Italia all’Europa, e placherebbe rancori, gelosie, rivalse all’interno delle famiglie, senza nessun consistente rivoluzionamento dell’assetto generale.
C’è anzi da chiedersi perché non abbia completato l’iter il Governo Berlusconi (anziché proporre, tra l’altro, in alternativa, umilianti pateracchi, quali una supplica al Prefetto e facezie simili).
Spero proprio non sia l’esigenza di ingraziarsi, elettoralmente la piramide clericale arroccata sul controllo delle famiglie, con a capo il “paterfamilias” più facile da condizionare e indurre a far valere l’autorità sugli altri membri.
Se così fosse, e se a tutto questo non si ponesse, in ogni caso, rimedio in tempi ragionevolmente rapidi, proporrei, allora, coerentemente di rivedere l’insegnamento scolastico introducendo il concetto della piattezza della Terra e del movimento del Sole intorno ad essa. Interessante innovazione che il ministro Gelmini avrebbe, a breve scadenza, con tutta probabilità, adottato.