Il teatro d’opera è un genere antico. Ma nei teatri di mezza Europa, quelli più progressisti, quelli meno legati all’idea che si tratti di un genere destinato a una conservazione “museale” delle belle tradizioni, si dimostra capace di intercettare temi di grande attualità.
E questo avviene di solito attraverso tre canali principali: la riscoperta di opere rare o dimenticate; la rilettura registica di opere del grande repertorio; la commissione di opere nuove. In questo senso il teatro di Lione si è sempre dimostrato all’avanguardia. Da molti anni segue questo percorso di rinnovamento, che ha prodotto tra l’altro un interessante incremento e svecchiamento del pubblico, grazie anche ad alcune rassegne a tema, ideate dal direttore artistico Serge Dorny. Quest’anno il festival, intitolato Justice-Injustice legava insieme i Fidelio di Beethoven, il Fidelio, due opere brevi del primo Novecento, Erwartung (attesa) di Schönberg e Il Prigioniero di Dallapiccola, e una novità assoluta, Claude del compositore francese Thierry Escaich. Questo festival ha veicolato una riflessione sui problemi della giustizia nel mondo, attirando l’attenzione dei media e del mondo politico, stimolando anche una serie di incontri e dibattiti sulle class actions, sulle cause comuni, sulle azioni umanitarie internazionali, sulla risoluzione dei conflitti armati, sulla possibilità di ripensare il concetto di sanzione penale, indispensabile in uno stato di diritto, svincolandola però dalla carcerazione. E ha mobilitato anche i cittadini, con opposte idee sulle questioni della giustizia: dai volantinaggi sull’uso della tortura nel mondo, o sulle discriminazioni giudiziarie nello stato di Israele, ai 250 manifestati che hanno atteso all’uscita del Teatro dell’opera il ministro della giustizia Christiane Taubira (che ha recentemente suscitato violente polemiche per le misure adottate contro il sovraffollamento delle careceri francesi), per protestare contro il suo disegno di legge sulle nozze gay, scandendo slogan come «Casse-toi Taubira», «nous sommes tous des enfants d’hétéros».
Scomodi oppositori
Proprio il titolo più “classico” della rassegna, il Fidelio, si è rivelato in realtà l’operazione più spericolata, per la regia è affidata a un enfant terrible come Gary Hill, alla sua prima esperienza operistica. Certo, la storia di Leonore che si traveste da uomo per salvare l’amato Florestan, prigioniero politico detenuto nelle prigioni del crudele governatore Don Pizarro, è un tema senza tempo sul dramma delle condanne ingiuste e del desiderio della libertà (rifletteva Serge Dorny: «L’idea centrale è il potere assoluto dell’amore di fronte all’arbitrarietà, ma si tratta anche della libertà, della prigionia, dell’eliminazione pura e semplice degli oppositori. Oggi Fidelio ci ricorda Guantanamo o il Gulag»), ma lo spettacolo diretto da Hill andava molto oltre: trasportava l’opera di Beethoven in una navicella spaziale vagante nello spazio intergalattico. Il videoartista americano (nato in California nel 1951), attivo già negli anni Settanta coi nuovi media elettronici, seguace di Bill Viola, vincitore del Leone d’oro di scultura alla Biennale di Venezia nel 1995, ha affrontato l’opera di Beethoven con uno spirito naif, senza preoccuparsi troppo del libretto, né della partitura, né degli aspetti filologici dell’allestimento. Ha semplicemente ascoltato la musica, che non conosceva, e l’ha usata come spunto per delle impressioni visuali, anzi ibridando letteralmente la vicenda di Leonore e Florestan con una storia di fantascienza, il poema Aniara dello scrittore svedese Harry Martinson. Un poema (già trasformato in un’opera nel 1959, dal compositore svedese Karl-Birger Blomdahl, su un libretto di Erik Lindegren: un’opera seriale e elettronica, messa in scena per la prima volta all’Opera di Stoccolma nel 1959) che non aveva niente a che fare col Fidelio, ma che Hill ha letto come una sorta di lotta esistenziale per la sopravvivenza, all’interno di una navicella fuori orbita, in uno spazio chiuso come quello di una prigione: «Il nostro Fidelio si svolge a bordo di una navicella spaziale condannata a vagare nel vuoto intersiderale dopo avere subìto dei danni che l’hanno fatta uscire dall’orbita dell’astro nella quale girava. L’unica prospettiva è quindi una morte fatale, che è poi il destino di tutti noi imbarcati sulla navetta spaziale Terra. Trasferito nel mondo temporalmente e spazialmente infinito di Aniara, l’eroismo sacrificale e il trionfo dell’amore e della libertà di Fidelio si colorano di una gioia e di una tristezza inedite e insondabili. Alla fine, tutti muoiono ma l’opera si conclude con la visione del ciclo interminabile della nascita e della morte». Gary Hill ha concepito questo spettacolo, che sarà ripreso questa estate al festival di Edimburgo, come «un’installazione multimediale in un ambiente semiscenico». Ma infinite, come prevedibile, sono state le critiche e le contestazioni per l’incongruenza di questa strana commistione letteraria, per gli innesti di testi nei recitativi parlati che miravano a rendere credibile l’assurda trasposizione spazio-temporale, per le fastidiose interpolazioni pseudo-filosofiche e fantascientifiche affidate a un’attrice all’inizio di ogni atto. Né aiutava la qualità modesta del cast, con l’emissione malcerta di Michaela Kaune (Leonore), gli acuti metallici e non sempre intonati di Karen Vourc’h (Marzelline), la voce un po’ ingolata di Nikolai Schukoff (Florestan), i fiati corti di Pavlo Hunka (Pizarro). Ma era uno spettacolo di grande impatto visivo, dominato dal bianco e nero e da seducenti immagini digitali: elaborati giochi di spirali luminose, costellazioni ondeggianti, le figure tridimensionali che ricordavano i mobiles di Calder, gli spazi che sembravano progettati da Peter Eisenmann, i grandi volti digitalizzati, i giochi di lettere danzanti che componevano parole sullo schermo, i cristalli bianchi che salivano verso l’alto nella scena finale. Nella parte video Hill giocava in maniera molto interessante anche su una folla digitale di carcerati, cui dava voce un coro che si materializzava sulla scena solo episodicamente. Tutto fluttuava su questa base spaziale (anche la musica, sotto la bacchetta di Kazushi Ono, appariva stranamente elastica, flessuosa, anche troppo, quasi disarticolata): i personaggi si muovevano su segway (i celebri monopattini elettrici e giroscopici inventati da Dean Kamen) descrivendo elaborati percorsi sulla scena; Florestan veniva calato sulla scena con delle funi, come un’astronauta sospeso a mezz’aria; nei momenti più siderali, si creavano inattesi, strani cortocircuiti nella percezione, ad esempio nel quartetto vocale accompagnato da immagini di pianeti. I costumi di Paulina Wallenberg-Olsson sembravano tratti da cartoni animati o fumetti di fantascienza, come quello ridicolo, da orsacchiotto, che indossava Leonore, o l’abito di cristalli di Marzelline, o l’enorme armatura metallica che faceva sembrare Pizarro un enorme samurai galattico, seguito da un’armata digitale, o le tute a righe bianche e nere (ma non parallele) indossate dai carcerati che parevano mummie.
La scena del crimine
Il carcere che rinchiudeva il prigioniero di Dallapiccola (opera in un atto, con prologo, composta nel 1949 su libretto dello stesso compositore tratto da Villiers de l’isle-Adam) era invece uno spazio circolare, nero, claustrofobico, creato da Alex Ollé della Fura dels Baus. Una specie di spazio psicanalitico, come l’interno di una testa, formato da una pedana che ruotava su se stessa, e sulla quale si moltiplicavano, come in un incubo, porte aperte e figure inquietanti, nel percorso che il prigioniero, in mutande e calzini rossi, compiva dalle profondità oscure della sua cella verso l’aria e la luce. Uno spazio carico di angoscia che corrispondeva benissimo alla modernissima drammaturgia ideata da Dallapiccola, imperniata sulla crudele sevizia inflitta al prigioniero dal Grande Inquisitore, che gli instilla la speranza della liberazione la notte prima della condanna al rogo. La stessa piattaforma girevole serviva anche a dare forma alle ossessioni della donna protagonista di Erwartung (il monodramma in un atto composto da Schönberg nel 1924 su libretto di Marie Pappenheim), opera accoppiata al Prigioniero nella stessa serata. Anche in questo caso la scena, dominata da proiezioni multiple di fitte boscaglie, funghi giganteschi, oggetti e frammenti di interni che evocavano i pensieri della protagonista, rappresentava più che un bosco reale (nel quale vagava la donna alla ricerca del suo amato, trovato poi cadavere) i meandri psichici della protagonista e la sua gelosia omicida. Anche la corsa di lei in senso contrario rispetto alla rotazione della pedana dava l’impressione di una grande vertigine, e rendeva perfettamente le inquietanti atmosfere che avvolgono l’opera: «Abbiamo scelto di lavorare partendo da una piattaforma girevole per rappresentare l’ossessione di ogni personaggio – dice Ollé -. Erwartung è la storia di una donna in preda ad uno shock terribile quando arriva sulla scena del crimine del suo amante, che forse è stata lei ad uccidere (ed è quello che penso). Il Prigioniero è la storia di un uomo imprigionato in una cella dell’Inquisizione senza un motivo apparente. Sono due opere brevi per la durata, ma grandi per quanto riguarda l’angoscia della condizione umana, il terrore e le lotte interiori con le quali funziona la mente umana. Riunite in una sola serata, le due opere possono illuminarsi come due lune nel cielo notturno. Sono opere cicliche, meccaniche, sul funzionamento della mente umana e la sua comprensione del mondo. I personaggi evolvono come i criceti in una gabbia. Erwartung è soprattutto un’opera sensoriale e Il Prigioniero un’opera simbolica. Abbiamo scelto quindi di utilizzare il video per Erwartung, per rappresentare le allucinazioni di questa donna. Le scene, invece, saranno identiche. Mi sono ispirato alla tecnica di montaggio di Eisenstein e alle immagini al rallentatore oppure ai film surrealisti, per presentare le condizioni particolari di questa donna. Il Prigioniero è invece più un’opera sulla tortura della speranza. Un’opera tipicamente kafkaiana, che parla di un uomo condannato a morte senza sapere perché. In entrambi i casi, si tratta di opere che rappresentano un sistema di alienazione mentale. E’ inoltre un tema che può interessare il pubblico di oggi: siamo sempre presi in un sistema mentale che elaboriamo partendo dalle nostre paure più recondite. L’uomo ricade sempre nelle proprie trappole. Sono due opere complementari da questo punto di vista. Abbiamo scelto quindi di trasformare il palcoscenico in una specie di scatola cranica dove si svolgono tutti i processi mentali». Magnifica in questo caso la direzione di Kazushi Ono, precisissima, ma capace di cogliere le pieghe più drammatiche delle due partiture, i recessi più oscuri, con un suono tagliente e un raffinato gioco di piani dinamici e di fluttuazioni temporali, di mettere in risalto sia le violente accensioni sonore, sia le atmosfere più sospese e rarefatte. Eccellenti anche i due protagonisti: il baritono estone Lauri Vasar era un prigioniero espressivo, inquieto, capace di passare dalla rassegnazione all’esaltazione con una voce duttilissima; il soprano polacco Magdalena Anna Hofmann, nei panni della donna di Erwartung, ha offerto una grande prova sia sul piano vocale che della recitazione, rendendo con grande spessore drammatico le ossessioni mentali del suo personaggio.
A proposito di diritti civili
Rubare per mangiare, per sopravvivere alla miseria. Può considerarsi un reato? Può portare a una condanna, a una parabola tragica e alla morte? Erano questi gli interrogativi che si poneva Victor Hugo nel suo romanzo breve Claude Gueux. La storia di un uomo che ruba il pane spinto dalla miseria, viene incarcerato a nelle terribili prigioni di Clairvaux dove si lega d’amicizia fraterna col suo compagno di cella Albin. Alla fine uccide il direttore della prigione che lo aveva separato dall’amico e viene mandato alla ghigliottina. Storia ideale per il festival lionese, trasformata in un’opera dal compositore Thierry Escaich e da Robert Badinter, in veste di librettista. Appassionato lettore di Hugo, Badinter è stato guardasigilli all’epoca di Mitterrand (dal 1981 al 1986) e autore della legge che ha abolito la pena di morte, ma ha presentato e difeso davanti al parlamento anche altri importanti testi legislativi, come quello per la soppressione della Corte di sicurezza e dei tribunali militari, ha presieduto la commissione incaricata di scrivere il nuovo codice penale, in sostituzione del codice napoleonico, ha preso diverse misure per rendere più umana la vita nelle prigioni, è stato uno degli ispiratori del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, ha contribuito alla creazione della Corte internazionale dell’Aja, è stato membro della Commissione internazionale contro la pena di morte fondata nel 2010 su iniziativa del governo spagnolo. Per scrivere il suo libretto, Badinter ha fatto una approfondita ricerca sulle fonti letterarie, trovando notizie sul vero Claude Gueux, ha esplicitato il tema del legame omosessuale tra i due compagni di cella (e non a caso ha fatto subito notizia la visita di Christiane Taubira, che difende i diritti civili dei gay), ha accentuato la dimensione sociale e politica del racconto di Hugo, facendo di Claude una vittima offerta in sacrificio a un sistema carcerario disumano, ha introdotto nuovi personaggi (come l’imprenditore che incarna il cinismo del capitalismo): «Hugo ha scritto Claude Gueux ispirandosi al resoconto giudiziario di un giornale del 1830. Ha inventato un personaggio partendo da un fatto di cronaca, ma il suo eroe annuncia già Jean Valjean (Claude Gueux è stato scritto circa 20 anni prima dei Miserabili). Claude Gueux è un operaio licenziato e per nutrire la moglie e la figlia, ruba una pagnotta di pane. Sarà arrestato e condannato alla prigione, nel carcere di Clairvaux. Diventerà amico di un compagno di detenzione, ma il direttore di Clairvaux li separerà. Claude Gueux non sopporta la situazione e decide di uccidere il direttore. Sarà giudicato e giustiziato. Questa è la storia. Ma non potevo accontentarmi di questo, ho voluto cercare nell‘archivio del dipartimento dell‘Aube, a Troyes. Ho ritrovato i fascicoli di Claude Gueux, e mi sono reso conto che non corrispondevano affatto a quello che aveva scritto Victor Hugo! Si tratta piuttosto di una storia alla Jean Genet. Probabilmente Claude Gueux era omosessuale e per questo il direttore, vittima dell‘omofobia dell‘epoca, decide di separare i due giovani detenuti. La mentalità dell’epoca non consentiva a Victor Hugo di trattare questo argomento, ma rileggendo i verbali del processo è evidente che tra Claude Gueux e il giovane che si chiama Albin, c‘era una relazione di tipo omosessuale. È quindi una storia d‘amore molto violenta tra due detenuti, in un luogo orribile, con un direttore crudele. La prigione di Clairvaux è come un personaggio onnipresente e silenzioso dell’opera. È impossibile capire la storia se non s’immagina il contesto e tutto ciò che di terribile accadeva a Clairvaux, una prigione utilizzata fino al 1970. Non si può capire questo evento se non si tiene conto della solitudine e della disperazione dei detenuti. Ho visitato Clairvaux e posso dirvi che è un posto terribile. Claude Gueux è il simbolo delle vittime dell’epoca, delle vittime della crudeltà giudiziaria e penitenziaria. Mi sono allontanato dalla versione di Hugo per creare un Claude Gueux diverso dalla realtà e da quello di Hugo, ho voluto farne uno di quegli uomini di cui ho visto sovente il terribile percorso, un ribelle che non accetta l’ingiustizia sociale, un ribelle come gli eroi di Camus». Il risultato è stato un libretto denso di significati ma scorrevole, articolato in sedici brevi scene inquadrate da un prologo e da un epilogo, sul quale Escaich ha composto la sua partitura in un serrato confronto con lo scrittore: «Badinter ed io abbiamo cercato di rispettare il racconto nel modo più diretto possibile. Abbiamo scelto uno svolgimento cronologico per mostrare il carattere implacabile della conclusione di questa storia in tutta l’opera. Ho voluto sottolineare il lato quasi rituale della lotta tra Claude e il direttore della prigione. Quello che mi interessava nell’architettura dell’opera era di organizzare i loro incontri come un crescendo ineluttabile […]». Escaich ha dimostrato il suo grande mestiere, scrivendo una musica molto semplice, né innovativa né aspra, ma teatralmente efficace, che rivelava anche la sua lunga pratica con la musica per il cinema. Una musica fatta progressioni, crescendo, ostinati, con squarci lirici, pulsazioni ritmiche (che ricordavano le macchine alle quali erano costretti a lavorare i detenuti), un uso massiccio dell’arpa (per i momenti più teneri) e dell’organo e delle percussioni (per quelli più drammatici), con una sapiente orchestrazione che creava un’atmosfera diversa per ogni scena. Fondamentale l’apporto dei due cori, quello dei detenuti sulla scena e un coro che cantava sul fondo del palcoscenico, punteggiando le parti solistiche come una voce della coscienza. Meno interessante la scrittura vocale, modellata come un grande declamato, molto attento alla comprensibilità del testo. L’opera era diretta con grande energia e intelligenza musicale da Jérémie Rhorer, cresciuto come assistente di Marc Minkowski e di William Christie. Jean-Sébastien Bou, baritono leggero nel ruolo eponimo, sfoggiava una voce fresca, un’ottimo stile, cogliendo benissimo la natura tormentata del personaggio; più modesta la prova del controtenore Rodrigo Ferreiro, nei panni di Albin; mentre Jean-Philippe Lafont caratterizzava al meglio lo spietato direttore di prigione. La regia di Olivier Py descriveva la vicenda di Claude come una sorta di via crucis, sfruttando l’ingegnosa scenografia di Pierre-André Weitz, che faceva ruotare in continuazione interi edifici mostrando ogni angolo del penitenziario, e ogni nefandezza che vi si compiva, compreso una violenza di gruppo ai danni di Albin. Un mondo oscuro, illuminato solo dai neon, dominato dalla sopraffazione, dai gesti meccanici dei detenuti che mimavano il lavoro forzato. L’opera si concludeva con la ghigliottina al centro della scena, come un totem, e Claude seduto su un lato con lo sguardo perso nel vuoto e una pagnotta in mano, in attesa del supplizio: un momento quasi catartico, accompagnato da una pioggia surreale di paillettes e una giovane ballerina che danzava intorno alla ghigliottina.
Furto di salsiccia
Anche il furto di una salsiccia può generare una parabola tragica. E dimostrare ancora quanto nel teatro d’opera possano incrociarsi stimoli musicali, letterari, ma anche politici, e spunti, agrodolci e grotteschi, di riflessione sulla condizione umana. L’opera Cachafaz di Oscar Strasnoy affrontava ancora i rapporti con la giustizia e con le forze dell’ordine, visti dall’ottica di un gruppo di “miserabili”, di emarginati: un microcosmo umano dei bassifondi di Montevideo negli anni Venti. Questa «tragédie barbare» ha per protagonisti il trans Raulito e il suo amante e protettore Cachafaz, che vivono in un conventillo, vecchia abitazione collettiva per gli immigrati, mal tollerati dagli altri inquilini. Trucidano un poliziotto, che voleva arrestare Cachafaz per aver rubato una salsiccia, e non sapendo come liberarsi del cadavere, decidono di farne carne per insaccati. La soluzione cannibalesca li riappacifica con i vicini, che banchettano con quella salumeria, e li spingono a uccidere sistematicamente i poliziotti, dando vita a un fiorente commercio di carni e salumi. Almeno fino a che non interviene la polizia in forze accerchiando l’edificio e uccidendo Cachafaz, che muore danzando un ultimo tango insieme a Raulito. L’originale pièce teatrale è del geniale Copi, nome d’arte di Raúl Damonte Botana (Buenos Aires 1939 – Parigi 1987), scrittore di origini italiane (il padre, anarchico, era direttore di un giornale e deputato anti-peronista), drammaturgo, fumettista (le sue opere erano tradotte anche da Linus in Italia, dove era noto quanto in Francia), illustratore (su Hara-Kiri, Charlie-Hebdo al Nouvel Observateur) attore (in molte sue opere teatrali recitava come protagonista en travesti), militante omosessuale, morto di Aids nel 1987 (poco prima di morire scrisse Una visita inopportuna, con un malato di Aids come protagonista che riceveva la visita della Morte). Il testo di Copi mostra una struttura poetica sofisticata (giocata anche sui contrasti tra la metrica classica e quella del tango), insieme a un lessico ispido, crudo, pieno di metafore e doppi sensi (come la salsiccia), con duetti d’amore che esibiscono senza tabù gli attributi sessuali dei due amanti (come nel distico amoroso di Raulito rivolto all’amante «tu mi hai infilato il tuo mandrino, che mi ha scombussolato l’intestino»). Ma è un testo anti-erotico, mai volgare, che non stimola la pruderie o la risata grassa, si eleva semmai a puro lirismo e vera tragedia. Non a caso Benjamin Lazar (regista dell’opera) lo aveva subito visto «come un libretto ideale, dove un certo numero di temi e di personaggi richiamano l’opera verista di Puccini», e aveva cercato un compositore che potesse cimentarsi nel trasformarlo in un’opera, un compositore che fosse anche abbastanza pratico di forme e stili argentini. La scelta è caduta su Oscar Starsnoy e si è rivelata quanto mai azzeccata, e il compositore argentino (nato a Buenos Aires nel 1970 e cresciuto musicalmente tra la Francia e la Germania) ha dimostrato il suo spiccato senso del teatro, creando una musica insieme eloquente e sentimentale, tenera e grottesca, nello spirito dell’opèra-comique, piena di ritmo e di humour, sempre affilata, proprio come i versi di Copi. Ha evitato il facile folklorismo legato al tango e ha creato una partitura eclettica e provocatoria, nella quale si intrecciano stili diversi, complessi ritmi tropicali, strutture dalla milonga, dalla payada (arte della poesia improvvisata in Argentina e in Uruguay), dal sainete (componimento drammatico derivato dal teatro popolare spagnolo). Ha inserito anche alcune citazioni da Mozart (l’aria del catalogo intonata da Raulito e dalle donne del conventillo come lista dei pezzi di carne ricavati dai poliziotti) e da Verdi (una parafrasi grottesca dell’ouverture della Forza del destino, inserita come intermezzo tra i due atti dell’opera). Ma è una partitura dall’architettura molto solida, che ruota intorno ad alcuni motivi ricorrenti, e che ottiene una grande varietà di atmosfere e umori sfruttando con abilità un organico di soli otto strumenti (compresi un organo Hammond, una batteria e una chitarra elettrica). L’opera è stata messa in scena da Benjamin Lazar al Théâtre 71 di Malakoff, vicino a Parigi (si tratta di una produzione del Théâtre de Cornouaille di Quimper del 2010, ripresa a Besançon, all’Opèra Comique di Parigi, a Bourges, a Saint-Etienne), affidata agli ottimi musicisti dell’Ensemble 2e2m, alla direzione precisa e leggera di Geoffroy Jourdain, al gruppo vocale Les Cris de Paris, che punteggiava come un coro greco i dialoghi e le arie dei due protagonisti, Lisandro Abadie (Cachafaz) e Marc Mauillon (Raulito). Due belle voci baritonali e due grandi interpreti che si ammiravano per le doti di attori, la buona tecnica vocale, la grande naturalezza nel declamato: Abadie, dalla tessitura più bassa, era un Cachafaz sicuro, virile, capace anche di cogliere i turbamenti e la grandezza tragica del suo personaggio; la parte di Raulito era invece da baritono leggero, spinta ai limiti acuti della tessitura, e Mauillon la affrontava con grazie leggerezza, con spirito estroverso, generoso e trascinante, pieno di slanci emotivi, rubando letteralmente la scena. La regia di Benjamin Lazar descriveva assai bene l’universo delirante, crudele, granguignolesco di quest’opera, coglieva l’atmosfera insieme feroce e gioiosa, amorale e commovente, di un dramma che ricorda molto da vicino il cinema di Almodovar. Ha creato uno spettacolo allo stesso tempo realistico e surreale, con una grande economia di mezzi, giocando molto sulla recitazione dei due protagonisti, sui movimenti sincronizzati, quasi coreografici del coro. Le scene di Adeline Caron ricreavano lo spazio del conventillo come un grande cortile circondato da una balconata, con il pavimento ricoperto di stracci, e la stanza dei due amanti ridotta a un materasso, una porta, una piccola statua della madonna alla quale Raulito rivolgeva le sue preghiere. I momenti “veristici” dell’azione erano anche delle iperboli teatrali, che ne stemperavano l’impatto drammatico, e ne evidenziavano gli aspetti ironici e grotteschi: ad esempio nella scena delle anime dei morti che apparivano in scena come degli zombie ricoperti di stracci, o nella scena dello squartamento del poliziotto (un manichino appeso a testa in giù), accompagnata da un odore di grigliata e da un barbecue in azione sul palcoscenico. Primo caso di momento olfattivo nella storia dell’opera.
Violenza sulle donne
Anche il tema della violenza sessuale sulla donna è stato affrontato nel mondo dell’opera. E il primo ad affrontarlo esplicitamente è stato Benjamin Britten in The Rape of Lucretia (lo stupro di Lucrezia), opera scritta nel 1946, subito dopo la fine della Guerra, e basata su libretto di Ronald Duncan dal dramma Le viol de Lucrèce di André Obey, ispirato da Tito Livio e da Shakespeare. Di Britten, compositore sempre molto sensibile ai temi dell’ingiustizia, della prepotenza delle istituzioni sugli individui, della difesa dei deboli, ricorre quest’anno il centenario della nascita, un po’ schiacciato dalle celebrazioni verdiane e wagneriane. Ma di lui si è ricordato il teatro di Reggio Emilia che ha ripreso una bellissima edizione del Rape of Lucrezia, firmata da Daniele Abbado che debuttò a Genova nel 1999 e nel 2000, ripresa poi a Firenze e quest’anno anche a Ravenna. L’opera riprende l’antico tema della scommessa sulla fedeltà delle donne, su cui si basa anche il Così fan tutte mozartiano: il principe Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, insieme a Giunio e a Collatino, discutono, già mezzo ubriachi, di una visita a sorpresa effettuata da alcuni nobili per controllare la fedeltà delle proprie mogli: solo Lucrezia, moglie di Collatino, si è dimostrata virtuosa. Schernito e accecato dalla gelosia, perché sua moglie è stata scoperta in compagnia di uno schiavo, Giunio sfida Tarquinio a mettere alla prova la virtù di Lucrezia. E l’arrogante principe parte a cavallo alla volta di Roma e violenta Lucrezia, che non reggendo alla vergogna e all’infamia, si toglie la vita. L’allestimento essenziale di Daniele Abbado calzava molto bene con l’essenzialità della partitura (partitura a basso costo creata in un periodo di difficoltà economiche, con pochi personaggi, due cori, impersonati da due soli cantanti, un soprano e un tenore, e un organico orchestrale affidato a solo 13 esecutori). Le scene di Gianni Carluccio (che firmava anche luci e costumi) si riducevano a un praticabile rialzato, come una balconata, che serviva da punto di osservazione per i due personaggi del coro, e a numerosi video che animavano lo spettacolo. Bellissime le immagini della cavalcata di Tarquinio, su sabbia e su acqua, descritta dal coro nell’Interludio; di grande effetto la scena della casa di Lucrezia accompagnata dal suono dell’arpa e da immagini di fili che si intrecciavano ovunque; di grande forza plastica, quasi rituale il momento dello stupro su un grande letto bianco al centro della scena, così come il suicidio di Lucrezia che si stringeva ad una fune calata dall’alto. Peccato solo per qualche eccesso nella pare del video, un mix, anche stilisticamente un po’ datato, di raffigurazioni di arte etrusca e immagini di guerra e scene dell’Olocausto, che volevano sottolineare il dramma della violenza e della sopraffazione. Mentre tutto poteva concentrarsi anche solo sul tema della supposta liceità della violenza, quando a perpetrarla sia un uomo di potere, poiché Tarquinio pensa che gli sia lecito possedere Lucrezia in grazia del suo potere. In un’intervista Daniela Abbado sottolinea anche un interessante aspetto psicologico del personaggio di Tarquinio: «Tarquinio non ha mai conosciuto la donna che andrà a stuprare, l’ha solamente conosciuta nel proprio immaginario carico di invidia e frustrazione […] Come in tanti personaggi shakesperiani infatti il desiderio è mosso da una forte carica di autodistruzione: dichiara infatti Tarquinio che attraverso tale nefanda azione egli sta ricercando la propria fine, come personaggio e come soggetto politico». Ottima la resa musicale dello spettacolo, grazie alla direzione attenta di Jonathan Web, che riusciva a estrarre sonorità anche sinfoniche dal piccolo organico, e al buon cast vocale. Lucrezia era Kirstin Chavez, mezzosoprano del New Mexico, cresciuta a Kuala Lumpur, cantante di grande carattere e presenza scenica, ma dall’emissione non proprio fluida. Meglio il Tarquinio di Jacques Imbrailo, vero specialista nei ruoli britteniani, così come il Collatinus di Joshua Bloom. Ottimamente caratterizzate le compagne di Lucrezia, Gabriella Sborgi nei panni della nutrice Bianca e Laura Catrani che dava voce a una svolazzante Lucia. Nel coro a due Susannah Glanville spiccava su un Gordon Gietz un po’ fiacco.