Si è fatto un gran parlare dell’opportunità di aprire la stagione della Scala con un’opera di Wagner, in un bicentenario che accomuna due giganti come Wagner e Verdi. Ma come – si è detto – perché omaggiare, anziché Verdi, un compositore tedesco? Uno che viene dal paese di Hitler e della Merkel? Eppure, a dispetto di diatribe così provinciali, il doppio anniversario pare giovare più a Wagner che a Verdi. Si sta dimostrando un’occasione unica, per il pubblico italiano, di riscoprire opere che negli ultimi tempi, nel nostro paese, latitavano. E sta svelando una nuova generazione di direttori wagneriani.
Il Lohengrin scaligero ha fatto discutere per la regia di Claus Guth, ma tutto il resto ha riscosso solo consensi. Il teatro era sempre pieno, così come lo è stato in queste ultime settimane per L’Olandese volante, spettacolo coprodotto dalla Scala coi teatri di Zurigo e di Oslo, diretto da Hartmut Haenchen e affidato alla regia di Andreas Homoki. E la nuova Tetralogia di Barenboim e Guy Cassiers, che verrà presentata nello stesso teatro tra giugno e luglio, è uno degli appuntamenti più attesi di tutta la stagione. Grande successo hanno ottenuto anche il Tristano di Pual Curran presentato alla Fenice di Venezia a inizio stagione, e affidato alla bacchetta di Myung-Whun Chung, il Ring palermitano firmato da Graham Vick e diretto dal giovane finlandese Pietari Inkinen (nato nel 1980), con Rheingold e Walküre già messi in scena, Siegfried e Gotterdämmerung pronti per l’autunno. Dove il budget non permetteva di osare, si è optato per edizioni ridotte o in forma di concerto, come a Reggio Emilia, dove Léo Warynski ha diretto una versione della Tetralogia riscritta per orchestra da camera da Jonathan Dove.
Il terzo atto del Parsifal e le attese romane
Più modesta, anche meno fantasiosa, la soluzione individuata dal Teatro Regio di Parma che presenterà solo il terzo atto di Parsifal, e senza allestimento scenico, ma affidandolo alla bacchetta di un direttore in grande ascesa, lo sloveno Juraj Valčuha (classe 1976). E a Roma? In attesa di vedere il Rienzi al Teatro dell’Opera, con la regia di Hugo de Ana e la direzione musicale di Stefan Soltesz, ha intanto aperto le danze wagneriane l’Accademia di Santa Cecilia che ha ospitato un magnifico Rheingold. Lo dirigeva Kirill Petrenko, direttore russo nato a Omsk nel 1972 che quest’estate dirigerà a Bayreuth l’intero Ring e che la prossima stagione assumerà il ruolo di Generalmusikdirektor alla Bayerische Staatsoper di Monaco, come successore di Kent Nagano. In questa produzione, l’assenza dell’apparato scenico e teatrale non toglieva nulla al fascino e alla forza drammatica dell’opera. Anzi le ha garantito una resa orchestrale di altissimo livello, che difficilmente può assicurare l’orchestra di un teatro d’opera (lo aveva capito molto bene Giuseppe Sinopoli, che quando veniva a Roma dirigeva Wagner sempre in forma di concerto, proprio con l’Orchestra di Santa Cecilia). Ed ha anche contribuito a catturare il pubblico romano, che ha dimostrato una concertazione pari a quella “religiosa” del pubblico di Bayreuth. Con il suo approccio fresco, dinamico, Petrenko scavava analiticamente nella partitura wagneriana, staccava tempi rapidi, disegnava plasticamente ogni Leitmotiv, ma anche ampie arcate cariche di tensione. Metteva in risalto tutto il potenziale timbrico dell’orchestra romana, sottolineando, ad esempio nella discesa di Wotan e Loge nel Nibelheim, le sonorità “grasse”, gli intrecci cromatici, gli effetti grotteschi, l’assordante e spettacolare martellare delle incudini disposte in fila su un lungo tavolo. Wolfgang Koch era un Wotan autorevole, solido nell’emissione, ma espressivo, ricco di sfumature, anche ammiccante e allusivo.
Il colonialista olandese
Una bella voce sensuale e molto carattere sfoggiava anche Ulrike Helzel nei panni di Fricka. Ben amalgamate le voci delle figlie del Reno (Talia Or, Dagmar Peckova, Hermine Haselböck), teatralissimi i giganteschi Fasolt e Fafner (Roman Astakhof e Dirk Aleschus), così come il gesticolante Mime di Kurt Azesberger. Meno dotati vocalmente l’Alberich di Andreas Scheibner, il Loge di Peter Galliard, e Andrea Bönig nei panni di Erda, che invece di emergere dalle profondità della terra appariva nella balconata dietro l’orchestra. Da sempre Wagner si presta a rivisitazioni registiche di tipo concettuale, in chiave psicanalitica, a trasposizioni storiche. È quanto ha tentato anche Andreas Homoki nel suo Fliegende Holländer alla Scala, che sembrava voler eliminare ogni risvolto leggendario, fantastico e psicologico dalla vicenda dell’Olandese maledetto, che vaga per i mari alla ricerca della donna che gli darà la redenzione. Il regista ha spostato la storia nella seconda metà dell’Ottocento, ai tempi del colonialismo. La costa norvegese, le navi, il villaggio dei marinai, la casa di Daland scomparivano. Wolfgang Gussmann (scenografo e costumista) li trasformava in un unico grande spazio, il sontuoso ufficio di una compagnia marittima, con telefoni, macchine da scrivere, telegrafi, cartigli, grandi quadri di marine, una grande mappa dell’Africa colonizzata. Un ufficio popolato da impiegati, eleganti e iperattivi, che prendevano il posto dai marinai, delle ragazze e delle filatrici.
Il ricco armatore in pelliccia
L’idea era intrigante, ma il risultato era debole e statico, nonostante il vacuo ruotare della grande boiserie ottagonale al centro della scena, il continuo affollarsi degli impiegati in scena, che avevano anche la funzione di fare da schermo alle apparizioni e agli improvvisi dileguamenti dell’olandese. L’opera soffriva per le molte forzature di questa trasposizione, che lasciavano numerosi elementi irrisolti, e per la mancanza dell’elemento fantastico, e della conseguente spettacolarità, nonostante gli sforzi del regista nell’animare i quadri, che diventavano video di tempeste, nell’incendiare la mappa dell’Africa, nel creare scompiglio in ufficio per l’apparizione di un selvaggio seminudo, armato di lancia, simbolo della rivolta contro l’occupazione dei paesi europei. Mancava soprattutto la contrapposizione, centrale nell’idea drammatica e musicale di Wagner, tra il mondo reale e quello soprannaturale, tra la vita dei marinai da un lato e quella dei fantasmi dall’altro, anche se tutti i personaggi apparivano ben caratterizzati: Daland (l’ottimo Ain Anger), padre di Senta, diventava l’amministratore della compagnia, borghese e capitalista; l’Olandese (un vigoroso Bryn Terfel, imponente scenicamente, tecnicamente impeccabile, con un canto appassionato e tragico, anche se non riusciva a cogliere molte sfumature espressive e a sprigionare l’aura misteriosa propria del suo personaggio) diventava un ricco armatore in pelliccia; Senta (Anja Kampe, cantante wagneriana di razza, ma non sempre omogenea timbricamente) invece di gettarsi in mare alla fine dell’opera, si uccideva sparandosi un colpo col fucile strappato dalle mani del devoto e sfortunato Erik (Klaus Florian Vogt, tenore dal bel fraseggio, e dai tratti belcantistici) l’unico personaggio che faceva il mestiere assegnatogli da Wagner, il cacciatore. La direzione di Hartmut Haenchen era molto dinamica, piena di impeto, ritmicamente serrata, con contrasti sempre marcati e tempi spediti. Ma non andava proprio per il sottile.