L’anno verdiano volge al termine. È stato festeggiato nei teatri e nei festival di tutto il mondo, spesso con allestimenti provocatori, sfiziose riletture delle sue opere, anche quelle meno note al grande pubblico. Dal controverso Otello di Nekrosius, messo in scena al Petruzzelli di Bari, alla Traviata diretta da Peter Konwitschny a Londra, al Don Carlo salisburghese di Peter Stein, al Rigoletto firmato da Robert Carsen a Aix, a quello di Michael Meyer messo in scena al Metropolitan e ambientato tra i locali notturni e i casinò di Las Vegas, al Nabucco di Tokyo, che Graham Vick ha fatto riviere tra le scale mobili di un centro commerciale. A Parma città verdiana per eccellenza, dove si dice che “si mangia pane e Verdi”, si è appena concluso il Festival che è invece rimasto saldamente ancorato alla tradizione.
Un Festival Verdi che è tuttavia riuscito a compiere un primo passo per uscire dallo stato comatoso in cui, complice la crisi, versava da qualche tempo. E questo grazie a una serie di concerti e di allestimenti di buon livello, con apprezzabili cast di cantanti giovani, e con un’idea meno provinciale della musica di Verdi, che ha attratto anche un pubblico internazionale, proveniente soprattutto dalla Germania, dai paesi nordici e dall’America. Ad aprire e chiudere il festival c’erano due orchestre ospiti: la Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly, ha eseguito alcune sinfonie operistiche tra le meno note di Verdi (da Oberto, Un giorno di regno, Jérusalem) e il Divertissement dai Vespri siciliani, una lettura calibratissima e piena di energia, capace di sottolineare le linee cantabili, di giocare efficacemente sui contrasti tra i leggeri arabeschi, gli assoli, e le esplosioni improvvise di tutta l’orchestra; nel concerto finale Daniele Gatti ha diretto la Messa da Requiem con quattro notevoli solisti (Fiorenza Cedolins, Veronica Simeoni, Francesco Meli, Michele Pertusi) e con l’Orchestre National de France, che ha sfoggiato il suo suono morbido e avvolgente, un ampio spettro dinamico, una qualità eccelsa delle prime parti, una forza plastica e scultorea nel Dies Irae.
Dal Simon Boccanegra ai Masnadieri
La prima opera è stata un Simon Boccanegra (nella foto in apertura) molto apprezzato per la prova del direttore Jader Bignamini, che ha evitato effetti fragorosi e ha concentrato la sua attenzione sul canto, sulla finezza timbrica degli insiemi, sulla sostanza dolente che pervade questa partitura («triste, perché deve essere triste» come diceva Verdi), differenziando le atmosfere nelle varie scene, tenendo sempre alta la tensione teatrale. Molto applauditi Roberto Frontali nel ruolo del protagonista, molto espressivo, nonostante qualche ruvidezza nel fraseggio, e Giacomo Prestia (Jacopo Fiesco), una vero basso, dai gravi pieni e sonori, dal canto appassionato. Meno convincente Carmela Remigio (Maria) per il timbro da soprano leggero, e senza grande spessore drammatico. La ripresa del vecchio allestimento di Hugo De Ana, avvolgeva l’opera in una dimensione cupa e sinistra, con una venatura fantastica, delicati fondali marini, che ricordavano un po’ Turner, lievi riflessi, sagome di navi, pareti mobili che disegnavano spazi maestosi, grandi bassorilievi, con costumi dal gusto rinascimentale e dei bei tableaux nelle scene di massa. Si è poi visto un nuovo allestimento dei Masnadieri, firmato da Leo Muscato, dal gusto gotico, le atmosfere oniriche, dove tutto appariva enigmatico e precario, a partire dalle assi sconnesse del pavimento, le vecchie casse piene di arnesi, i tendoni di tela grezza, gli alberi calati dall’alto, le luci (di Alessandro Verazzi) che filtravano attraverso le trame lavorate delle quinte, gli improvvisi lampi che abbagliavano gli incubi di Francesco. Muscato sembrava voler mettere a nudo la problematica psicologia dei protagonisti, insieme vittime e carnefici, e la condizione sociale dei masnadieri schilleriani, insieme eroi e malfattori. Carlo Moor aveva la voce rude e irruenta di Roberto Aronica, senza tante sfumature, ma molto intensa e piena di slanci lirici; la Amalia di Aurelia Florian (Amalia) compensava la voce non molto sonora con bei filati, un fraseggio espressivo e accenti drammatici; Damiano Salerno tratteggiava il carattere malvagio di Francesco con una voce copiosa e qualche eccesso; il giovane basso finlandese Mika Kares dava a Massimiliano la nobiltà d’accento di un padre sofferente, e l’impeto tremendo del fantasma che chiede giustizia. Il punto debole era la direzione di Francesco Ivan Ciampa, che mirava a creare una tinta omogenea, senza differenziare i colori tra le scene, senza sottolineare i contrasti, senza cogliere appieno la ricchezza della partitura. Decisamente meglio, per intelligenza musicale e capacità di seguire ogni minimo risvolto del canto, è parso Sebastiano Rolli alle prese con il Falstaff messo in scena nel piccolo, delizioso teatro di Busseto (foto a lato). Si trattava di un allestimento storico, creato nel 1913 per il primo centenario verdiano e già ripreso nel 2001. Scene semplici, basate su grandi arcate e giochi prospettici, capaci di suggerire grandi spazi (inesistenti nel minuscolo palcoscenico di quel teatro), piene di botti, ceste, panni stesi. Si respirava un’atmosfera di tempi lontani, accentuata dalla regia piuttosto didascalica di Renato Bruson, con molte ingenuità e molta mimica ad accompagnare ogni parola. Ma nel complesso lo spettacolo era gradevolissimo, grazie anche al cast giovanile, nel quale spiccavano Pietro Terranova (che si alternava proprio a Bruson, nel ruolo di Falstaff), Vincenzo Taormina, un Ford ricco di sfumature espressive, la Quickly di Francesca Ascioti, dalla voce imponente e dalla grande vis comica.
Moderno ma non troppo
Un altro modo di omaggiare Verdi 200 anni dopo la sua nascita è quello di trasportare i suoi nel mondo della modernità: un’operazione piuttosto difficile, e sempre rischiosa in Italia, dove il compositore di Busseto è visto come un’icona sacra e intoccabile. Ne è prova il geniale Ballo in Maschera firmato da Damiano Michieletto, che è andato in scena alla Scala tra polemiche roventi. Il regista veneziano, uscito dalla Scuola d’Arte Drammatica «Paolo Grassi» di Milano, ha scelto di ambientare l’opera nel contesto di una moderna campagna elettorale americana: «la scelta è giustificata anche dal fatto che Verdi stesso aveva cambiato l’ambientazione: nella prima versione la storia si svolgeva in Svezia, poi il compositore la trasportò a Boston per sfuggire alla censura». Il Ballo in maschera scaligero (diretto dal giovane Daniele Rustioni, con Marcelo Alvarez, Zeljko Lucic, Sondra Radvanovsky) evocava così la spettacolarizzazione della politica, e diventava una riflessione, molto attuale, sulle contraddizioni degli uomini di potere, sul conflitto tra la loro immagine pubblica e la sfera privata. Michieletto vedeva Riccardo come un leader che «si sporca le mani, amato, odiato e indebolito dai pettegolezzi sulla sua vita privata. Ha bisogno del consenso, del rapporto con la massa, ma nella vita personale è in crisi, e da qui nasce il lato tragico della vicenda […] Mi preme di più sottolineare l’ambiguità dei leader, che spesso hanno una doppia vita e magari di notte vanno coi trans per sfogare la pressione che sentono sulle loro spalle». Renato diventava il responsabile della sicurezza, un body guard con pistola, auricolare e occhiali neri; Oscar non era più il paggio, ma un’efficiente e dinamica press officier in tailleur, incaricata di curare l’immagine di Riccardo; Amelia, moglie di Renato e innamorata di Riccardo, si affidava a una santona (Ulrica) per scoprire il suo destino. La scenografia (di Paolo Fantin) rappresentava due uffici contigui dalle pareti di vetro, con scrivanie, monitor, proiettori, luci al neon: era la sede comitato elettorale, piena di gadget e sagome a grandezza naturale del candidato Riccardo, affollata di giornalisti, fotografi, troupe televisive. L’antro di Ulrica si trasformava in una struttura industriale, dove si raccoglievano gli adepti della santona, e vari handicappati in attesa di essere da lei guariti; il campo solitario del secondo atto diventava una squallida periferia popolata da prostitute; lo «splendidissimo» ballo in maschera finale un party elettorale, dominato dallo slogan «Riccardo incorrotta gloria».
Salisburgo e Milano, pubblico a confronto
Se a Milano i loggionisti hanno scatenato una rivolta contro questa regia di Michieletto, a Salisburgo il pubblico è andato in visibilio per il suo Falstaff. Primo regista italiano invitato al prestigioso festival austriaco dopo Strehler e Ronconi, Michieletto si è liberato in un colpo solo di tutti i cliché legati a Falstaff, anche di tutte le venature comiche e malinconiche che ne hanno dato le tradizionali letture registiche, spostando la vicenda nella Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi di Milano, progettata dall’architetto Camillo Boito (fratello di Arrigo), e finanziata dallo stesso Verdi pensando ai «vecchi artisti che non hanno avuto in vita la virtù del risparmio». Questa circostanza ha suggerito al regista di trasformare Falstaff in un vecchio cantante che ripercorre nel sogno la sua vita e le sue avventure: «Il protagonista vive nella condizione del ricordo, perché la sua realtà è quella della finitezza, dell’attesa della morte. E tutta la vicenda si svolge un po’ come un ricordo, un sogno, o uno scherzo: Falstaff in un attimo si vede passare davanti agli occhi tutta la vita». Dopo il grande successo di questo spettacolo (diretto da Zubin Mehta sul podio dei Wiener Philharmoniker, e affidato a un cast superlativo, formato da Ambrogio Maestri, Fiorenza Cedolins, Massimo Cavalletti, Eleonora Buratto, Elisabeth Kulman), l’anno prossimo Michieletto metterà in scena a Salisburgo La Cenerentola di Rossini. Intanto alla Scala hanno ripreso un suo allestimento della Scala di Seta (realizzato qualche anno fa al Festival Rossini di Pesaro) ben diretto da Christophe Rousset, ma deludente per la prova dell’Orchestra e dei cantanti dell’Accademia scaligera. La farsa comica di Rossini, piena di inganni e sotterfugi (che ruotano intorno alla giovane Giulia, che di giorno fa la fanciulla da marito e di notte fa salire in camera l’amato Dorvil con una scala di seta) era ambientata in uno spazio vuoto. C’era solo la pianta dell’appartamento disegnata sul palcoscenico (un po’ come nel film Dogville di Lars von Trier), qualche mobile moderno di arredamento, un grande specchio obliquo sul fondale che mostrava anche il piano inferiore della casa (e quindi le arrampicate attraverso la scala), e i movimenti di tutti personaggi visti dall’alto, offrendo allo spettatore «la visione completa e non censurata di quel che accade in ogni luogo. Muri, porte e finestre esisteranno solo per i cantanti».
L’eredità di Verdi e le opere nuove mai commissionate
Altra prova della maestria di Michieletto è stato l’incantevole allestimento del Così fan tutte mozartiano (nella foto), ripreso con grande successo quest’autunno al teatro lirico di Cagliari (con Christopher Franklin sul podio). L’opera si apriva non più sulla “bottega di caffè” di una Napoli settecentesca, ma sulla reception di un lussuoso hotel d’epoca moderna (la scenografia, sempre del fido Paolo Fantin, era costruita su un palcoscenico rotante, che mostrava di volta in volta la hall, il bar, il pianerottolo, la camera con bagno, le eleganti lounges popolate da ammiccanti signorine). Un albergo per coppie di scambisti, dove Don Alfonso era il cinico, disincantato proprietario, e le due coppie di fidanzati dei clienti arrivati per godersi una vacanza; dove Guglielmo e Ferrando lasciavano le immacolate divise di ufficiali di marina per travestirsi da malavitosi albanesi, in vistose camice a fiori e occhiali neri; dove tutto si svolgeva in un continuo via vai di porte scorrevoli e ascensori; dove anche la romantica serenata nel giardinetto del secondo atto si trasformava in un affollato karaoke. La regia seguiva con attenzione la psicologia dei personaggi e si mescolava con un elemento metateatrale, incarnato da Don Alfonso, che da una poltrona nel proscenio, osserva lo svolgersi della vicenda. Una regia fresca, anche facilmente fruibile, di un regista che ha le idee chiare in fatto di rimodernamento del teatro d’opera, e che vede anche i limiti legati del repertorio operistico: «Se si vuole davvero qualcosa di diverso perché non proporre un’opera nuova? Un tempo il teatro lirico era contemporaneo, oggi si fanno titoli di due o tre secoli fa. Sono stanco di portare fiori freschi sulle tombe dei morti. Mi piacerebbe far nascere un festival per il nuovo teatro musicale. Ma nell’Italia di oggi è un’utopia. L’importante però è avere dei sogni». Forse il modo migliore per festeggiare il bicentenario verdiano sarebbe stato proprio questo, commissionare opere nuove, almeno una per ogni teatro italiano. Anche Verdi avrebbe apprezzato. Chissà, magari se ne riparlerà al prossimo centenario.