Giuseppe Ferrara, che non poteva certo mancare in questa ricognizione sistematica sui maggiori autori che hanno privilegiato il discorso dell’inchiesta, prendendo spunto, enunciandola o comunque tenendola in debito conto, sviluppa il suo tracciato, come vedremo non soltanto filmografico, inevitabilmente in continuità con le esperienze pregresse di Lizzani, Rosi e Damiani.
Scrive infatti Mino Argentieri: “Cinema d’inchiesta e quello di Ferrara, anche quando si assiste a una messa in scena, a una ricostruzione: e una diramazione del giornalismo audiovisivo, il meno praticato sul grande o piccolo schermo, a causa dei rischi che comporta quanto più onesto esso e. Cinema d’inchiesta che diventa di denuncia e chiama in ballo responsabilità non identificabili a colpo d’occhio, ma annidate nelle connessioni politiche. C’è nei suoi film la vocazione a infilare il naso nella vischiosità e brumosità degli episodi più drammatici e dubbi, nel tentativo di portare chiarezza per fornire allo spettatore elementi conoscitivi e riflessivi nuovi, anziché una soluzione consolatoria e pacificante, per rafforzare di fronte a interrogativi inquietanti un’attitudine problematica. E questo il modo più giusto per non cadere negli inganni e non fermarsi sulla superficie degli accadimenti”. (1)
Non solo per ragioni strettamente generazionali e cronologiche, dunque, e doveroso completare il nostro Schermi d’inchiesta con Ferrara, che con i suoi ottant’anni si conferma anagraficamente il più “giovane” del gruppo qui selezionato, nonche colui il quale ha esordito piu tardi nel lungometraggio, nel 1970 con Il sasso in bocca, avendo alle spalle una fitta e intensa attivita di regista di cortometraggi e mediometraggi d’inchiesta, iniziata nella seconda meta degli anni Cinquanta con Porto Canale (1957). Di sicuro questa cospicua produzione meriterebbe un’analisi circostanziata, poiché si presenta come un’autentica enciclopedia di temi, stili, corsi e ricorsi della filmografia successiva ferrariana, ma anche della storia politica, giuridica, economica, sociale e culturale italiana e non solo. Perché dall’intensa produzione degli anni Cinquanta e Sessanta, prevalentemente documentaristica (sebbene, come cercheremo di spiegare, la definizione di “documentario” nel suo caso risulti inappropriata), che precede e in qualche modo condiziona l’approdo al lungometraggio di finzione (anche il concetto di “finzione” mal si adatta all’impiego che Ferrara ne fa), non si può prescindere per farsi un’idea complessiva della sua personale visione del cinema, quindi del mondo, riassumibile in una, per lui irrinunciabile ≪strategia dell’attenzione≫. L’espressione molto pertinente proviene da Il caso Moro, messa in bocca ad hoc a una delle brigatiste protagoniste, la “quarta”. Scelta curiosa, come quella di rendere anonimi i membri dell’intera cellula dei sequestratori di Moro, salvo far corrispondere l’identita e la posizione di personaggi abbastanza riconoscibili (Mario Moretti, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Barbara Balzerani, Anna Laura Braghetti, Prospero Gallinari, mancando all’appello il presunto “quarto uomo” di via Montalcini, Germano Maccari) a figure di riferimento spesso molto somiglianti, confermando il principio di cui Argentieri ha fornito le principali coordinate. Se nel film, contrariamente alle consuete prerogative ferrariane, i brigatisti non vengono mai chiamati per nome e cognome, e addirittura nella sceneggiatura trascritta e pubblicata in volume si trovano semplicemente numerati, vuol dire che l’autore non si sta preoccupando tanto di eventuali querele per diffamazione, che puntuali invece arrivano con i successivi Giovanni Falcone (1993) e I banchieri di Dio (2002). Per il primo si contano ben due querele, con conseguente condanna al pagamento di congrui risarcimenti. Il primo querelante e il giudice Vincenzo Geraci, per via dello scambio di battute al telefono che intercorre tra il suo equivalente nel film, pronto a rassicurare Falcone sull’appoggio all’imminente elezione al Consiglio superiore della magistratura del successore di Antonino Caponnetto a consigliere istruttore della Procura di Palermo, e il personaggio di Paolo Borsellino: ≪Paolo – dice Geraci dall’altro capo del telefono – io non dimentico. Senza il tuo appoggio io non sarei qui a Roma, a Palazzo dei Marescialli. […] Giovanni deve stare tranquillo. Tutti conoscono il suo valore≫. Il secondo querelante e l’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada (poi condannato in via definitiva il 10 maggio 2007 dalla Corte di Cassazione per concorso esterno in associazione di tipo mafioso), riconosciutosi nell’anonimo, ambiguo personaggio soprannominato ≪u’ Dottore≫. Gli effetti non si fanno attendere: spariscono dall’edizione definitiva di Giovanni Falcone perché giudicati diffamatori (2) sia la scena contenente il riferimento a Geraci, sia il primo dei cartelli finali, ove si legge ≪Il numero tre dei servizi segreti (Sisde), già capo della Squadra Mobile di Palermo, e arrestato per concorso in associazione mafiosa≫ (3). Stesso destino per I banchieri di Dio che nel 2006, essendo stato accolto il ricorso presentato da Flavio Carboni, viene sequestrato. E le società di produzione obbligate al pagamento di una cifra molto consistente come risarcimento per i danni economici e d’immagine causati al diretto interessato (4). Nonostante questi episodi, Ferrara insiste, parlando di I banchieri di Dio (ma il discorso può essere esteso a ogni sua opera), che ≪il nostro film non ha nulla a che vedere con una requisitoria o un mandato d’arresto≫ (5). Perché, a suo avviso, ≪nel cinema si va oltre la mera acquisizione di prove e di indizi, si usa un linguaggio che impiega elementi comunicativi più ampi e più universali (allusività, emblematicità, simbolicità comprese)≫ (6). Una difesa d’ufficio? Piuttosto una questione di metodo. Cioè, come si diceva, di ≪strategia dell’attenzione≫. Sebbene in Il caso Moro, il primo film a misurarsi nel 1986 con la vicenda più intricata della storia italiana dal dopoguerra a oggi, i terroristi agiscano seguendo le tappe della versione tutto sommato ufficiale del sequestro, Ferrara suggerisce che essi non sono altro che numeri, pedine, mosse o strumentalizzate dall’esterno, e dall’alto. Compresa la giovane brigatista numero 4, indicativamente la Braghetti, che parla apposta di ≪strategia dell’attenzione≫ per irridere amaramente il presidente democristiano sforzatosi invano di conciliare le loro richieste con le posizioni dello Stato. Basta dunque un personaggio qualsiasi, nientemeno che un’aderente alle Brigate rosse per fornire contestualmente una precisa definizione del modo di procedere del film intero, anzi di tutti i film di Ferrara alle prese con vicende precise. Film in cui la rappresentazione deve fare i conti con i margini concessi dalla conoscenza disponibile al momento delle riprese, ma da trasmettere comunque, senza remore ne soggezione: una conoscenza precaria poiché suscettibile nel tempo di estendersi a seguito di ulteriori, possibili svolte nell’inchiesta e rivelazioni varie. Ma questo non sembra scoraggiare l’autore, che non esita a inaugurare I banchieri di Dio con una didascalia emblematica: ≪Il film e basato su fonti finora [corsivo nostro] conosciute≫. Non importa – come si e detto, e lui stessoha scritto – stabilire una volta per tutte come siano andate le cose, portarealla luce tutti i protagonisti maggiori e minori, assegnando loro nomi e cognomi,possibilmente veri o tutt’al più di copertura, ma aprire un varco nelmuro del silenzio, infrangere la superficie dell’indicibilita. Diversamenteda Rosi, Ferrara non contempera tutti i rischi dell’operazione. Parte piuttostoalla carica. Si lancia in una corsa contro il tempo, con produzionianche spartane, non di rado autofinanziate. Si getta a capofitto nell’impresamassimizzando gli effetti possibili e auspicabili delle inchieste, le propriee quelle altrui, da cui parimenti ogni progetto prende le mosse. Per niente intimorito delle tessere mancanti del cupo mosaico discorsivo, si impegna a incrementarle, raccogliendone e reclamandone di nuove, pronto persino a correggere il tiro, ad ammettere i propri eventuali errori di valutazione, a colmare lacune, a far fronte ad acquisizioni sopraggiunte in tempi successivi. Ciò non toglie che il legame più stretto lo intrattiene con il magistero rosiano: “Non c’e chi non percepisca – scrive ancora Argentieri – le influenze avute dal Rosi di Salvatore Giuliano e dei successivi Le mani sulla città, Il caso Mattei, Lucky Luciano su Giuseppe Ferrara, ma va riconosciuto che la strada e stata intrapresa di primo acchito, nei cortometraggi che si configuravano come indagini in cui si andavano a scoperchiare pentole bollenti.
La chiave adottata, nella sostanza, non differisce da quella zavattiniana e rosselliniana, tesa, in via programmatica e teoretica, a deromanzare la raffigurazione artistica, a scioglierla dallo psicologismo, a metterla il più possibile in presa diretta con la quotidianità, la nuda prosa, la carica di fantasia insita nei fatti. Ferrara, come del resto Rosi, ci ha aggiunto la sagacia dell’investigatore che muove dalle versioni accreditate per vagliarle porle in forse, per lasciar affiorare indizi tralasciati da altri” (7).
Tuttavia in Ferrara i marcati presupposti conoscitivi, di chi conosce e vuol far conoscere a tutti i costi mediante l’attivazione di film d’inchiesta dalla forte propensione politico-indiziaria, non si esauriscono nella esclusiva, diretta derivazione rosiana. Se fosse semplicemente un epigono di Rosi, più o meno ortodosso, più o meno dotato, varrebbero per lui le considerazioni già fatte per il suo riconosciuto “maestro”. Ma c’e nel sedicente “allievo” una componente di testarda alterità che lo rende spesso più indigesto, più inviso agli studiosi che deprecano una cosi plateale informalità dello stile o addirittura una platealità senza stile, a prima vista perentoriamente contenutistico o appiattito sui contenuti.
Proprio questo rigido e duraturo pregiudizio nasce, in molti, dall’aver cercato nel cinema di Ferrara solo una prosecuzione diretta di Rosi. Ferrara diventa quindi secondario, minore, se analizzato in rapporto a Rosi. Rimproverare ciò che gli manca per poter eguagliare Rosi non ha pero molto senso. Certo, e giusto e quanto mai doveroso partire da Rosi, per comprendere gli obiettivi di Ferrara, e cogliere cosi una serie di analogie strutturali dettate dalla comune “sagacia investigativa”≫. Ma la questione dello stile, impostata rigidamente sul paradigma unico rosiano, porta fuori strada. E non fa che penalizzare Ferrara, cui gioverebbero invece importanti e numerose altre integrazioni: tra cui quelle che propone Argentieri, di Zavattini e Rossellini. Di zavattiniano per esempio possiede la fondamentale predisposizione all’incompiutezza fisiologica, positiva, seminale dei risultati. Si riscontra infatti nei suoi film un grado di progettualità inversamente proporzionale alla volontà di racchiuderla in una forma ricercata, originale, esclusiva. Più degli stessi Lizzani, Rosi e Damiani, e un autentico, assiduo, radicale assertore dell’insegnamento di Zavattini, oltre a esserne stato stretto collaboratore per decenni. Non va dimenticato, come gia sottolineato nel precedente Il processo della verità8, che nel 1958 e proprio Ferrara a realizzare un’intervista in cui Zavattini, nelle lunghe e argomentate risposte, si premura di valutare con maggiore cautela tempi, metodi e risultati dell’inchiesta (9). Nei suoi primi cortometraggi dimostra di poter sottoscrivere la cautela prescritta da Zavattini, tanto che La torraccia (1959), Il mercato dei posti letto (1962), Un giorno di cronaca (1963), Gilda (1964) sembrano episodi stralciati da L’amore in città, I misteri di Roma o Le italiane e l’amore. In virtù della difesa a oltranza di un neorealismo neanche più assediato ma dato già per defunto, si candida cosi a condividerne da quel momento con uguale, infaticabile entusiasmo la stessa “solitudine” intellettuale, espressiva, metodologica enunciata nel titolo della storica intervista. Ciò che insomma nel 1958 avvicina Ferrara a Zavattini, nonostante i trent’anni di differenza, e la sopraggiunta consapevolezza sulla distanza tra le buone intenzioni teoriche e l’ancor più buona e indispensabile pratica. Che torna a investire il progetto, le contraddizioni di fondo e l’eredita del neorealismo: “Quindi, mentre teoreticamente – spiega il cinquantaseienne Zavattini al ventiseienne Ferrara – ho elementarizzato, in sostanza, tutti i problemi e li ho proprio ben chiari, tanto che sono stato, direi, uno dei pochi a non deflettere mai dalla linea politica del neorealismo (anzi, l’avrei portata forse anche più avanti insieme ad altri, se appena appena avessi trovato intorno una maggiore rispondenza); praticamente pero, sul piano dei film, penso che non sono stato altrettanto energico e forte. […] Dico: ma perché non interrompo quello che sto facendo e non provo: se e vero che ho un’idea, ho dei principi cosi belli, coerenti, vediamo, ho dedicato abbastanza tempo alla realizzazione delle cose, o ne ho forse dedicato eccessivamente al pensamento, diciamo, delle cose? Che sembrano due fasi totalmente distaccate, e che invece sono due fasi spiritualmente e moralmente univoche. Quindi io sono stato valido nella prima fase; nella seconda mi sento colpevole.[…] Qualcuno potrebbe sostenere che il conoscere la realtà e un peso, e come una palla di piombo al piede; infatti, direbbe, noi “scattiamo” da un momento all’altro della conoscenza: raggiungiamo un momento, lo conosciamo fino a cinque, poi c’è bisogno di scattare ancora prima di conoscerlo [fino a] dieci. Quel cinque e sufficiente per andare subito al numero successivo dieci. C’è chi sostiene cose del genere, per cui ogni forma analitica e una forma cui dedichiamo troppo tempo” (10).
NOTE:
1 Mino Argentieri, Ferrara: un cineasta con un’appassionata sensibilità sociale, in Giuseppe Ferrara, Sguardi indiscreti sulla storia del cinema, Circolo del Cinema “Angelo Azzurro”, Castelfiorentino, 2005, pp. 12-13.
2 Cfr. Giuseppe Ferrara, L’assassinio di Roberto Calvi, Bolsena, 2002, p. 17 e nota 22.
3 Tutte i cartelli conclusivi scorrono peraltro allusivamente sul fermo immagine del personaggio ≪u’ Dottore≫.
4 Cfr. l’Ordinanza di sequestro giudiziario del film, in ivi, pp. 65-67.
5 Ivi, p. 7.
6 Ivi, p. 8.
7 Mino Argentieri, Ferrara: un cineasta con un’appassionata sensibilità sociale, in Giuseppe Ferrara, Sguardi indiscreti sulla storia del cinema, cit., p. 12.
8 Cfr. Anton Giulio Mancino, Il processo della verità, cit., pp. 54-55.
9 Cfr. Cesare Zavattini, La solitudine di Zavattini, intervista di Giuseppe Ferrara, ≪Film≫, 11, 1958, poi in Cesare Zavattini, Neorealismo ecc., a cura di Mino Argentieri, Bompiani, Milano, 1979.
10 Ivi, pp. 194-196.
Per sottoscrivere l’appello per l’assegnazione del sussidio previsto dalla legge Bacchelli a Giuseppe Ferrara:
http://www.cinecriticaweb.it/attivita/appello-per-la-concessione-dei-benefici-della-legge-bacchelli-al-regista-giuseppe-ferrara
Schermi d’inchiesta. Gli autori del film politico-indiziario italiano
di Anton Giulio Mancino
Edizioni Kaplan
pp. 208, € 20.00
Il libro sarà presentato il 29 maggio alle ore 19 alla Libreria del Cinema di Roma (in via dei Fienaroli, 31)
da Riccardo Iacona e Anton Giulio Mancino.
Cos’è il cinema di Giuseppe Ferrara