Ora che il campionato è finito e le partite si sono diradate, è forse il momento di immaginare un campo vuoto.
Un campo silenzioso, magari d’erba vera, anzi di vecchia terra, come quelli dove un tempo si giocavano i campionati inferiori e che, del resto, esistono ancora. Da qualche parte.
L’erba sintetica ha conquistato gli spazi con la sua monotona finzione che tutto sia liscio e che tutti ci possano giocare sopra, ma non ha potuto consumare la polvere di un campo in terra che ogni tanto si alza, come fosse un messaggio per uomini veri. Un messaggio di richiamo.
Un campo vuoto ha un suo fascino. Non so perché ma ho sempre immaginato che ogni campo nascondesse una musica. Tanto è vero che se fossi un allenatore, cercherei prima di affrontare la partita, la squadra avversaria, prima di fare la formazione, di affrontare il mistero del campo che ci aspetta.
Scenderei in sordina, senza farmi notare da nessuno, su quel pezzo di mondo in attesa, prima che si sviluppi il caos organizzato, così come qualche allenatore dotato d’ironia soleva definire il calcio, e mi farei una passeggiata per ascoltare… la sua musica. O meglio la musica che esso contiene nel suo… silenzio.
Credo che questa passeggiata mi aiuterebbe a cercare poi di riprodurla questa musica, una volta che i giocatori sono in campo, come se loro dovessero suonare qualcosa di già scritto in terra.
D’altronde un campo vuoto ti fa immaginare, anche se non sei un allenatore di professione: vedi linee, geometrie, pieni e vuoti, tensioni prospettiche, fughe in avanti e all’indietro, arrembaggi vorticosi. Insomma ancor più che la palla, vedi il movimento dei giocatori che la inseguono, la creano, la distruggono, la desiderano. Sentendoli diventare suoni che si rincorrono nell’aria.
Oppure resti ad assaporare la sottile linea dell’immobilità di cui il vuoto si nutre.
Ma qual è il rapporto tra l’aria e la terra? Tra la libertà e la gravità?
Se uno sta fermo, può essere che la palla, prima o poi, nel suo folle giro, nel suo caos ironico, gli passi vicino. Magari si fermi sbattendo proprio contro i suoi piedi. A quel punto, basterebbe restare freddi e si potrebbe anche calciarla con vigore e precisione e perfino segnare, indipendentemente dalla posizione. Tutto è possibile in fondo… nel caos.
Ma il divertimento è questo? Il divertimento è nella… fortuna? Nell’ironia della palla? Nell’attesa?
Certo, se, invece, il divertimento fosse altrove, bisognerebbe muoversi. Bisognerebbe, come si dice, andare dietro la palla. Oppure fare in modo, con lo spostamento nel tempo e nello spazio, che la palla venga a te. E che venga senza fregarti, senza schizzare subito via per un calcio frettoloso, ma che si avvicini simile ad una compagna di vecchia data che ama ancora il tuo lavoro, la corte che sei in grado di fargli, non dando mai per scontato la sua conquista. Al contrario, prevedendo continuamente la sua fuga.
Come se la palla fosse, appunto, il campo. Fosse un meraviglioso pezzo di mondo che resta fermo per te, per farti correre, farti sudare, farti cambiare direzione, farti uscire ed entrare. Farti cadere e rialzare. Ma sapesse, in fondo, rispettare il tuo lavoro. Perché riconoscere il tuo lavoro è proprio il suo… lavoro. Almeno finché l’arbitro non fischia lo scadere e tutto torna a tacere.
Dunque, se la palla si muove per la tensione, per il conflitto che si genera tra l’aria e la terra, i giocatori interessati a divertirsi non possono stare fermi e devono provare ad essere un po’ come la palla. Devono rispettare la libertà e la posizione, la semplice prevedibilità di un rimbalzo e la magia del tocco. Insomma devono giocare, nel senso più pieno del termine.
Il gioco, si sa, è il luogo dove gli esseri umani imparano molte cose dell’esistenza. Nel gioco si sviluppa il rapporto con se stessi e con ciò che è fuori di sé. Si esplorano le proprie risorse e potenzialità, così che vivere diventa conquistare senza possedere. Lo sappiamo tutti ma ce lo dimentichiamo. O meglio ce lo ricordiamo inconsciamente visto che è per questo che, appena possiamo, molti si concedono il lusso di giocare. O, in alternativa, di partecipare come spettatori ad un gioco, che naturalmente è cosa molto diversa dal giocare in prima persona.
Il nostro paese ha, diciamo, una vocazione per il gioco. Perché siamo creativi e perché siamo un popolo latino, nonostante tutto, nonostante la freddezza e solitudine in cui siamo finiti.
Un popolo che ama il contatto con il corpo, che ama la tensione tra terra e cielo (siamo ottimi ingegneri e marinai per questo), che ama la tensione tra finzione e realtà (siamo ottimi politici e narratori per questo). Ma manchiamo di semplicità, forse.
La semplicità di ricordare la magia del campo vuoto.
Quello che voglio dire è che se oggi mettessimo il gioco al centro della nostra vita, se imparassimo a giocare nuovamente, la nostra palla, forse, ricomincerebbe a girare bene.
Non esiste niente di più serio del gioco. Ma vediamo in dettaglio.
Prima di tutto bisogna schierarsi, darsi un ordine. Passare dallo sciame arrembante al miracolo di vedersi l’uno in funzione degli altri. Poi allenarsi, concentrandosi sui propri limiti e capacità più che su quelli degli altri. In modo da poterli modificare. Poi osservare le attitudini degli altri (non importa se avversari o compagni) e studiarle con attenzione. Quindi, guardare in alto verso il cielo e vedere, anzi annusare, se la pioggia verrà. Sussurrandole di essere pronti a sfidarla, a farla entrare nella partita. Infine, una volta che la partita ha inizio, fare la cosa più importante: muoversi senza palla.
Il calcio totale, quello che dall’Olanda è passato a Sacchi per poi mettere a fuoco tutta la sua potenza metafisica nel Barcellona di un paio d’anni fa, si è fondato sul movimento senza palla.
Ma come? Qualcuno potrà dire. Gli olandesi degli anni ‘70 erano dei campioni, c’era Cruijff, N e la stessa cosa nel Milan, senza dire della meravigliosa tecnica di palleggiamento degli spagnoli, del loro tictac funambolico. Si, certo se guardiamo la palla non possiamo non vedere le abilità dei piedi.
Ma se si guarda il campo, ecco che la prospettiva cambia.
Ecco che lo spettacolo appare, come se si fosse squarciato un velo: come la magia delle onde che, quando siamo al mare, in relax, non vediamo mai, pure o forse proprio perché sempre di fronte ai nostri occhi e che poi, una volta fissata la distesa d’acqua, ci appaiono catturandoci con la loro altalena misteriosa, ecco che, improvvisamente, davanti o sopra un campo di calcio, se cominciamo a seguire la palla con il distacco dei giusti, potrebbe apparirci lo spettacolo del movimento dei giocatori. Se essi si muovono naturalmente.
E’ di questi giorni la notizia che le onde daranno energia sul Tirreno a 450 famiglie, se ricordo bene.
Vedremo se il mare ci salverà o ci condannerà definitivamente. Ma, intanto, perché non proviamo a giocare un po’ sul serio?
Non mi riferisco ai campi di serie A dove, tutto sommato, il calcio totale ha insegnato il valore del gioco di squadra e tra alti e bassi esso viene almeno cercato. Ma ai campetti di serie molto inferiore, anzi ai campetti dove tanti italiani si radunando almeno una volta alla settimana per fare la partitella a calcetto o calciotto. È qui che deve ripartire il paese.
È qui che bisogna convincere i campioni a giocare anche senza palla. A muoversi soprattutto quando non si ha la palla. Ad anticipare, intuire, immaginare, prevedere, ragionare, correre, rinunciare, dosare e sorridere in mezzo al campo.
Non c’è migliore compito di questo a mio parere. Dunque, diamoci appuntamento tutti al campo. Chi vorrà giocare sarà il benvenuto, chi vorrà guardare dovrà portarsi penna e fogli e registrare il movimento delle onde, pardon dei campioni. Magari di uno solo che tutti sono troppi da registrare.
Se anche imparassimo solo a fare (e non a essere) l’angelo custode, sfidando in obiettività computer e moviola, se solo imparassimo a saper ascoltare la sua presenza e il suo sguardo fino ad interiorizzarlo di nuovo, se ognuno di noi non fosse più solo, forse il miracolo sarebbe pronto e la partita potrebbe ricominciare. Come il gioco più bello che ci aspetta su quel campo ancora disponibile.