Oggi partiamo da una notizia all’apparenza secondaria ma che dimostra la pochezza culturale di questo Paese. La notizia è riportata da “La Repubblica” on line ed è la seguente: “Cassazione: insultare gli insegnanti è un oltraggio a pubblico ufficiale. La sentenza ha riaperto il processo a carico di una mamma toscana accusata di ingiuria ai danni della docente di sua figlia”.
Una volta casi di aggressione verbale e fisica a danno degli insegnanti “di ogni ordine e grado” come si diceva una volta, erano rarità. Oggi sono considerate la norma. Perché? E’ evidente che nel nostro Paese il valore della cultura è pari o minore a zero. Questo stato di fatto fu certificato da un ministro (notare la minuscola) che affermò che “con la cultura non si mangia”, ma giusto in Italia però. Una volta certificato che la cultura non serve a niente è logico che il testo sulla abolizione del Senato, come certificato da Stefano Rodotà, sia sgrammaticato, che i giornalisti televisivi non azzecchino un congiuntivo nemmeno a culo, che un concorrente di un quiz, laureanda in economia, affermi che “l’” è una preposizione articolata, che è difficile far comprendere che inerente regge a, che ad esame universitario una studentessa della laurea magistrale dica “mettere una pezza” invece di rimediare, che la parola bipartisan sia regolarmente pronunciata come fosse bypartisan, e scusate se è poco.
In questo clima qualsiasi atteggiamento dei genitori verso gli insegnanti diventa lecito perché se la cultura non serve perché dovrebbero servire gli insegnanti. Si limitino quindi al ruolo che gli tocca, ovvero tenere bambini, pubescenti e adolescenti fermi in un certo posto per un certo numero di ore perché la strada è pericolosa. Da parte loro nelle scuole italiane, per rimanere a cose che non fanno male, ogni bambino porta con sé un cellulare, ma per fare le foto, però, non per chiamare mammina se la maestra lo rimprovera, sia chiaro! Ovviamente la legge non prevede che la scuola possa impedire l’uso dei cellulari, sarebbe un grave attentato alle libertà costituzionali. Questo vuol dire che anche gli insegnanti possono usarlo e quindi si entra in un circolo vizioso in cui non si distingue più la vittima dal carnefice.
Ma veniamo ai luoghi più comuni dei genitori: mio figlio va male in quella materia perché l’insegnante è incapace; va male perché l’insegnante l’ha preso sottocchio; va male perché gli assegnano troppi compiti a casa; va male perché si stanca; va male perché si annoia. Mai che andasse male per la ragione più semplice: è un asino! Ma questo vale, purtroppo, dalla elementari all’università, dove invece viene rimproverato ai professori di stressare i pupi con la pretesa di voler fare esami seri con una valutazione reale del valore dello studente che, tradotto in parole semplice, comprende un voto da 18 a 30 e non da 27 a 30.
Ora, detto ciò, è ovvio che una condanna non risolve il problema, se mai condanna ci sarà. Bisognerebbe allora ragionare sul ruolo centrale degli insegnanti e sulla loro capacità di formare cittadini, oltre che fornire informazioni. Questi genitori che minacciano, intimidiscono sono persi alla causa della cultura. E allora cosa accadrà? Accadrà che in un nuovo clima culturale lo studente che vede l’avvicinarsi minaccioso del genitore al proprio insegnante dica con sdegno: mamma/papà, ma che cazzo fate?