E’ stato assolto il ragazzo oggi ventunenne che quando aveva 18 anni, nel 2009, era stato accusato da un venditore ambulante di avergli rubato un ovetto Kinder. Assolto “perché il fatto non sussiste” – questa la formula della sentenza emessa dal tribunale di Taranto – su richiesta dello stesso pubblico ministero.
L’assoluzione è stata chiesta non già perché il reato era ridicolo (quest’ipotesi di assoluzione non è prevista nel nostro ordinamento) ma perché, in concreto, la stessa pubblica accusa ha potuto verificare, documenti e testimonianze alla mano, che la dinamica del reato, come riportata nel capo d’imputazione era impossibile. Dunque il fatto (il furto) non poteva sussistere.
Il giovane infatti, al momento del presunto furto, indossava dei jeans a vita bassa, con tasche molto strette se non addirittura praticamente inesistenti. Secondo la denuncia dell’ambulante invece, il diciottenne dopo aver trafugato l’ovetto se l’era messo nella tasca dei pantaloni.
Dal canto suo il ragazzo ha sempre sostenuto di aver preso, è vero, l’ovetto, ma di averlo sempre tenuto in mano perché si accingeva a pagarlo.
All’arrivo dei carabinieri sul “luogo del delitto”, il “ladro” – che aveva tranquillamente aspettato la “volante” proprio per chiarire tutto – si era fatto avanti con l’ovetto ancora in mano.
I carabinieri, con scrupolo e professionalità, hanno redatto un bel verbale che ricostruiva l’accaduto in cui si sottolineava da un lato l’affermazione del venditore ambulante secondo il quale l’ovetto sarebbe stato messo in tasca, e dall’altro il fatto che il giovane avesse quei pantaloni così poco… compatibili con questa versione. Se anche l’ovetto Kinder fosse stato infilato a forza in tasca si sarebbe fracassato e invece, sempre su testimonianza dei militari, era ancora integro: ecco, in sostanza, cosa è stato accertato nel corso delle tre brevi udienze nelle quali si è articolato questo “maxi processo”. E perciò lo stesso pubblico ministero (che, vale la pena ricordarlo, essendo un magistrato e non una “parte” deve lavorare per la Giustizia e non soltanto per la tesi dell’accusa) con la lealtà processuale che sempre dovrebbe contraddistinguere sia l’accusa che la difesa, ha chiesto l’assoluzione.
Per la cronaca va detto che subito dopo il fatto la famiglia del giovane aveva proposto un risarcimento di 200 euro al venditore ambulante per chiudere l’incidente. Ma l’ambulante aveva rilanciato chiedendone mille e 600 e, naturalmente, non se n’è fatto nulla.
La notizia è stata da più parti commentata, così come venne commentato, a settembre dell’anno scorso, il rinvio a giudizio. In nessuno dei commenti, oggi come a settembre scorso, è stato possibile leggere qualcosa di più intelligente che qualche pensierino sullo spreco di tempo, sulla giustizia che pensa alle sciocchezze e qualche altra amenità del genere.
L’unico commento intelligente avrebbe dovuto mettere in rilievo che, in tutta questa storia, il problema non è tanto che la legge italiana obblighi i magistrati all’azione penale anche per fatti ridicoli (chi volesse approfondire questo punto può leggere l’articolo correlato a questo, che Goleminformazione ha pubblicato a settembre), non è tanto il denaro sprecato e il tempo necessario ad arrivare all’assoluzione (di denaro la giustizia ne spreca molto di più per ragioni ben più futili e di tempo se ne perde tanto per motivi che spesso dovrebbero indurre a procedere nei confronti di alcuni magistrati per le loro responsabilità o incapacità).
Il problema, dicevamo, è un altro e potrebbe individuarlo anche un bambino, a patto che non fosse condizionato dall’onda lunga di un’informazione superficiale e ignorante.
Il problema è questo: per giungere alla richiesta di assoluzione, e alla conseguente sentenza di assoluzione, è stato sufficiente leggere, in aula, i verbali dei carabinieri, interrogare, sempre in aula, sia quei carabinieri che il venditore ambulante… denunciante, e infine l’imputato. E’ bastato dunque “leggere le carte” (non a caso la prima massima che si insegna alla “scuola giuridica napoletana” e che tutti, avvocati e magistrati, dovrebbero tenere scolpita è: “liggitevi ‘e ccarte!”) per chiudere questa storia con un’assoluzione.
Bene: il furto è stato denunciato nel 2009, il rinvio a giudizio è stato disposto nel 2011 (una precisazione: il rinvio a giudizio per furto non passa per l’udienza preliminare del gup, ma va con “citazione diretta”: in pratica il pubblico ministero manda direttamente a giudizio l’imputato dinanzi al tribunale senza passare per il cosiddetto filtro dell’udienza preliminare).
Tra il 2009 e il 2011 sono passati due (due!) anni. Cosa ha fatto in questi due anni il pubblico ministero delegato alle “indagini”?
Ve lo dico io cosa ha fatto: niente. E sapete perché? Per un problema di ordine psicologico-culturale: quando i pubblici ministeri si trovano di fronte ad un reato per il quale è prevista la citazione diretta a giudizio non fanno mai niente. Non è cattiveria, no, per carità. E’ che sono sempre pieni di lavoro per cose più serie e allora si dicono: beh, questa cosa se la vedono al dibattimento. E così mettono insieme le carte (senza leggerle) e spediscono il pacco in tribunale.
Vi chiederete: e allora perché sono passati due anni? Perché in questi casi, proprio per la natura “minore” del reato, il fascicolo non è tra le priorità. Passa oggi, passa domani… ma come passa il tempo… e così poco prima della scadenza del termine per le indagini preliminari, infiocchettano tutto e passano oltre.
Se invece il pubblico ministero (badate bene: di solito non è mai lo stesso pubblico ministero che poi rappresenta l’accusa in udienza, soltanto nei grandi processi, quelli importanti, il pm che svolge le indagini cura anche il dibattimento) avesse sentito i carabinieri “verbalizzanti” (ma oggi si chiamano “operanti”) prima di chiudere le indagini, se avesse interrogato l’ambulante e il ragazzo (se proprio avesse voluto, avrebbe perfino potuto disporre una perizia tecnica sull’impossibilità di nascondere un ovetto kinder in un jeans a vita bassa), invece di disporre il rinvio a giudizio “diretto”, avrebbe potuto chiedere l’archiviazione.
Perché si sarebbe accorto subito che “il fatto non sussiste”.
In questo caso l’archiviazione si chiede al gip, al giudice per le indagini preliminari. Il quale, esaminate anche lui le carte, può sempre ordinare al pm di formulare il capo d’imputazione se proprio ritiene che invece ci si trovi di fronte a elementi d’accusa consistenti.
Tutto questo però non è accaduto. E allora prima di parlare, sempre e sempre, di riforme della giustizia, di decreti svuotacarceri, di norme per accelerare i processi, bisognerebbe affrontare il problema della formazione professionale dei magistrati, del controllo che, negli uffici di procura, i procuratori della Repubblica devono (dovrebbero) esercitare sull’attività dei pubblici ministeri. Nell’interesse della giustizia, è ovvio. E anche nell’interesse degli ovetti Kinder, ché a loro proprio non piace essere schiacciati nelle tasche dei jeans a vita bassa.