Da un lato il fronte dei Paesi mediterranei, guidati dalla Francia fronteggiano quelli nord-europei capeggiati dalla Germania che preme per un contenimento del fondo; il debito italiano intanto sta per toccare i 2.000 miliardi.
Si è aperto oggi a Copenaghen il vertice informale dei ministri delle finanze europei, l’ECOFIN, durante il quale avrà luogo anche l’Eurogruppo. L’incontro è “informale” solo sulla carta, poiché le tematiche da affrontare attraggono le attenzioni dei governi e dei mercati in modo quasi maniacale. Il momento è particolarmente delicato: la risoluzione del caso Grecia, come da molti previsto, non ha allontanato i timori sulla stabilità dell’intero sistema Europa, soprattutto alla luca di quanto sta accadendo in Spagna ed in misura minore in Italia.
Il nodo principale da sciogliere riguarda ancora una volta il Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM), attraverso il quale i ministri contano di poter mettere in campo un cosiddetto “firewall”, ovvero un “muro di fuoco” contro eventuali crisi debitorie ed attacchi speculativi. Il nuovo strumento dovrebbe gradualmente sostituire il vecchio EFSF, noto come fondo “salva-stati”, anche se è previsto un periodo di convivenza almeno fino a metà del 2013. Il dibattito non riguarda l’implementazione del fondo, che è stato già ratificato ormai da quasi un anno, ma la dotazione finanziaria. In base alla capacità di prestito, infatti, è possibile misurare il livello di protezione che si vuole conferire agli Stati Membri. Sulla base dell’accordo raggiunto nelle scorse settimane, l’ESM avrà a disposizione 500 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i 240 miliardi dell’EFSF, partito in origine con 440 miliardi di cui 200 sono andati in finanziamenti ad Irlanda, Portogallo e Grecia. In seguito alla discussione di questa mattina, è stato raggiunto infine l’accordo per una dotazione complessiva di 800 miliardi, considerando il reperimento di circa 100 miliardi provenienti da strumenti già in atto (EFSM ed accordo bilaterale con la Grecia). A partire dal 2013, tuttavia, il totale sarà di soli 500 miliardi, venendo a mancare la quota relativa all’EFSF: nonostante le dichiarazioni di intesa, restano le divergenze espresse nel corso della settimana dai ministri delle finanze, per cui non si può escludere una revisione in futuro.
Da un lato, infatti, c’è un gruppo, composto essenzialmente dai paesi dell’area mediterranea guidati dalla Francia, che spinge per un incremento dei contributi fino a 1.000 miliardi. A supporto di questa linea è intervenuto nei giorni scorsi anche l’OCSE, secondo cui importi minori non sarebbero sufficienti a coprire ulteriori crisi debitorie e non riporterebbero la fiducia nei mercati. Per avere un’idea delle dimensioni, di cui spesso si perde la percezione, basti pensare che il debito italiano sta per toccare i 2.000 miliardi: si intuiscono dunque le preoccupazioni di molti governi, non più disposti a subire le pressioni continue provenienti dai mercati. La spiegazione di Francois Baroin, ministro delle finanze francese, sintetizza tale posizione: “E’ un po’ come il nucleare militare (…) E’ fatto per non essere utilizzato, è un’arma di dissuasione – Più è elevato, meno i paesi fragili saranno attaccati dalla speculazione – Auspichiamo che sia il più alto possibile”. L’incremento è appoggiato inoltre dalle grandi economie, come USA e Cina, preoccupate della tenuta dell’euro, nonché dal Fondo Monetario Internazionale, che prenderà parte agli eventuali piani di salvataggio. Il sentimento comune riguarda la richiesta di un’assunzione di responsabilità dell’Europa, che deve essere in grado di badare in modo autonomo ai propri problemi finanziari.
Sul fronte opposto, tuttavia, si pone la Germania, seguita dai paesi dai governi nord-europei, che preme per un contenimento del fondo. Le ragioni sono sostanzialmente due: in primis, essendo Berlino il primo finanziatore dell’ESM (con una quota intorno al 27% del totale), sarebbe molto complicato spiegare agli elettori la necessità di un’ulteriore fuoriuscita di denaro verso l’Europa. Anche in Germania, infatti, le pressioni derivanti dal mercato del lavoro si fanno sentire, vista l’alta percentuale di categorie poco sindacalizzate che non riescono ad ottenere salari adeguati alla media nazionale (qualche giorno fa uno sciopero negli aeroporti ha paralizzato il paese). Anche sul piano dell’impostazione teorica, la misura cozza con i principi tradizionali tedeschi: la sicurezza derivante da una dotazione troppo elevata del fondo potrebbe disincentivare i governi ad attuare quelle difficili riforme per il risanamento dei conti pubblici.
Al di là delle decisioni di Copenaghen sull’entità finanziaria, molti dubbi permangono sul funzionamento effettivo dell’ESM, in particolare per quanto riguarda le procedure di erogazione dei prestiti. L’istituzione sarà governata dai ministri delle finanze europei e le decisioni saranno prese a maggioranza qualificata, sotto la supervisione della Commissione Europea e della BCE. Un gruppo di paesi potrebbe dunque decidere di coalizzarsi ottenendo di fatto un diritto di veto in grado di modificare l’esito di ogni eventuale accordo. Il problema della governance politica del fondo risulta evidente dal momento in cui i paesi richiedenti dovranno pianificare insieme alle istituzioni comunitarie ed al FMI un piano di risanamento fiscale, al quale il prestito sarà condizionato: il meccanismo decisionale potrebbe dunque condizionare tali programmi, in modo da renderli congeniali alle proprie politiche. Sul piano finanziario, la dotazione sarà garantita con soldi effettivamente versati solo per 80 miliardi, mentre il resto sarà erogato sotto forma di garanzia e capitale disponibile. In altre parole, nel caso si renda necessario un salvataggio per una cifra più elevata, come peraltro è verosimile, i soldi saranno prelevati dai conti nazionali presso la BCE, aggravando le posizioni di paesi già deboli come l’Italia, che dovrebbe privarsi di una parte dei capitali posti a garanzia del proprio debito, esponendosi al rischio di contagio. Da ultimo, rimane l’incognita della partecipazione obbligatoria dei privati in caso di ristrutturazione del debito: nel caso in cui i tecnici della Commissione sanciscano il “fallimento” di fatto di un paese, ritenendo pertanto inefficaci ulteriori manovre correttive, i fondi saranno erogati solo se il debito è rinegoziato con i creditori, almeno per il 50% del valore, come avvenuto per la Grecia. Questa condizione potrebbe avere effetti immediati sui mercati, per cui gli investitori iniziano a chiedere in anticipo interessi maggiori per i titoli dei paesi a rischio, sapendo già che dovranno rinunciare alla metà del proprio rimborso in caso di fallimento.
Ancora una volta l’Europa sembra in balia delle indecisioni politiche, quando sarebbe necessaria una gestione economica più lucida, sebbene dolorosa. Le pressioni provenienti dalla Grecia potrebbero ora arrivare dalla Spagna, economia che sta attraversando il periodo più complesso dall’entrata in Europa, con conseguenze ben più catastrofiche, visto il peso in termini di debito pubblico. Memori della lezione greca, è auspicabile un’azione immediata, collettiva e rafforzata, in grado di dimostrare una volta per tutte la validità del progetto europeo. In molti sostengono che il vero passo avanti sarebbe l’unificazione del debito pubblico, con la conseguente emissione degli Eurobond, che sancirebbe in modo inequivocabile la volontà unificatrice, la piena condivisione delle responsabilità: i lavori sono in corso, ma non sarà certamente un processo breve.