Le ultime due settimane hanno messo in luce l’apprezzamento dell’establishment europeo nei confronti del governo Renzi, trovatosi nel mezzo di una congiuntura inaspettatamente favorevole.
L’incertezza politica delle elezioni europee, la sensazione da ultimi giorni per la Commissione in carica, l’avvicinarsi del semestre italiano alla presidenza del Consiglio, sono fattori che stanno garantendo al Premier una distensione dei rapporti con Bruxelles dopo anni di critiche e recriminazioni.
Anche i mercati stanno facendo la loro parte, lasciando crollare i tassi di interesse quasi ai livelli pre-crisi. Attribuire tutto ciò all’avvento del sindaco di Firenze, elevandolo a novello messia, sembra francamente un’esagerazione, per di più se tali risultati arrivano dopo pochissimo tempo dalla sua nomina.
D’altra parte, non si può negare un’incidenza positiva, poiché la “fortuna” va anche aiutata: il governo oggi si muove bene, ma le scadenze in vista (in primis il DEF 2014 e le conseguenti raccomandazioni del Consiglio) forniranno sicuramente un giudizio più consistente da parte dell’Unione.
Ad oscurare, almeno in parte, questo clima di rinnovata serenità è giunta la comunicazione della Corte di Giustizia europea, che ha definitivamente respinto il ricorso italiano sulla revoca di 80 milioni di euro di fondi strutturali alla Regione Puglia, rea di non aver «stabilito un sistema che garantisse una buona gestione finanziaria dei fondi».
Si tratta di una vicenda antica, risalente al 2007, quando un controllo della Commissione stabilì che i meccanismi di decisione ed erogazione del FERS (Fondo Europeo Regionale di Sviluppo) in Puglia non erano in linea con le direttive UE in merito a competizione e trasparenza.
«Le gravi carenze di cui le autorità italiane hanno dato prova su gestione e controllo dell’utilizzo dei fondi Ue», scrive la corte, «sono tali da condurre a irregolarità sistemiche».
L’accusa, dunque, è piuttosto grave, soprattutto se si considera la rarità di tali sanzioni in Europa, le quali sono state comminate esclusivamente in paesi dell’Est, mai in occidente per simili avvenimenti.
L’utilizzo dei fondi strutturali in Italia è stato un costante punto debole, mai realmente affrontato e soprattutto tenuto ben nascosto.
Le inchieste giornalistiche su sprechi e malfunzionamenti si sono moltiplicate negli anni, ma a livello politico non è mai partita una vera e propria discussione per scardinare un sistema che, semplicemente, non funziona. È bene snocciolare qualche dato, in modo da rendere chiari alcuni concetti.
Le regioni del sud Italia, da quando esiste la Politica di Coesione, sono sempre state in Obiettivo Convergenza, ovvero il più basso, in quanto il reddito pro-capite non superava la soglia del 75% rispetto alla media comunitaria.
Nel periodo 2007-2013, alla luce del cosiddetto “allargamento ad Est” dell’UE, le regioni in convergenza sono state “solo” quattro (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), con Basilicata, Sardegna e Molise che hanno goduto di un regime intermedio.
Nel complesso, l’Italia ha ricevuto circa 27 miliardi di Euro nel corso dei sette anni di programmazione, seconda solo alla Polonia.
Di questi soldi, anche se i dati sono complessi e non aggiornati, si stima che ne siano stati utilizzati circa il 50%.
Nei cicli precedenti, la legislazione prevedeva la riassegnazione dei fondi non utilizzati nel periodo successivo, ma tale norma fu modificata proprio per scoraggiare le inefficienze: in breve, chi non li usa deve restituirli.
Sulla base di queste minime informazioni, è possibile trarre alcune conclusioni che dimostrano in modo lampante l’incapacità della politica nostrana. Innanzitutto, da quando esistono i fondi (fine anni ’80), le regioni in Obiettivo Convergenza sono state sempre le stesse, indice del fatto che nessun progresso tangibile è stato raggiunto.
La Spagna, nel solo ciclo 2007-2013, ha portato 12 regioni su 13 ad uscire da questo obiettivo.
Il fatto è ancor più grave se si considera che, nel complesso, l’Italia ha usufruito del maggiore ammontare di fondi ed ancora oggi si piazza al secondo posto.
Inoltre, i tassi di impiego non hanno mai superato la soglia del 50% principalmente per due motivi: incapacità degli amministratori locali a presentare progetti adeguati ed ingorgo burocratico-autorizzativo che rallenta (o impedisce, nei casi peggiori), il processo attuativo dei progetti.
Le responsabilità più pesanti ricadono senza dubbio sulle regioni, che hanno in mano la gestione delle gare e la conseguente erogazione dei finanziamenti, sulla base dei Piani Operativi Regionali (POR), concordati con il governo centrale e con Bruxelles.
Le irregolarità riscontrate dalla Commissione riflettono un meccanismo di assegnazione particolarmente torbido, fondato su motivazioni politiche piuttosto che su valide analisi economiche.
La competizione tra enti per l’ottenimento dei fondi si gioca su amicizie, accordi, alleanze: se un comune è guidato da un sindaco ‘vicino’ al governatore, magari appartenente alla stessa corrente dello stesso partito, ecco che si materializzano concrete possibilità di accedere al finanziamento.
Ovviamente questo fenomeno determina una serie di distorsioni, tra cui ad esempio la discrepanza tra cicli politici e progettuali, dove al cambio di maggioranza può susseguire un blocco dell’opera. Il punto, in sostanza, è che raramente si guarda ai bisogni infrastrutturali di un territorio, argomento posto in secondo piano rispetto alla spartizione di soldi, prestigio e consenso. Anche a finanziamento ottenuto, poi, le dinamiche di aggiudicazione ai progettisti, alle società di consulenza, alle società di costruzioni sono tutt’altro che trasparenti: ma questa, peraltro, è una storia cui siamo ampiamente abituati.
Tornando a Renzi, che nel 2007 non ricopriva certo il ruolo di Primo Ministro, sarà interessante capire se e come voglia affrontare questa situazione incredibile (almeno agli occhi di uno straniero, non certo per italiani navigati). Non ci si può certo nascondere, come si usa fare, dietro al solito espediente del tipo “è colpa di chi è venuto prima”. Nonostante l’ammontare della sanzione fosse irrisorio (80 milioni su 28 miliardi), le accuse sono gravissime e mettono in luce un’inefficienza imbarazzante rispetto agli altri paesi.
Si tratta, insomma, di una questione di credibilità. In anni recenti, l’unico a mettere in discussione l’impianto delle cosiddette ‘managing authorities’, ovvero gli enti delegati alla gestione dei fondi europei, è stato il ministro Barca, puntualmente ignorato sia dai media sia dai colleghi parlamentari. Ad ogni modo, le sbandierate pretese di riforma del sistema Europa partono proprio da qui: se non si cambia, agli occhi degli altri paesi rimarrà la costante percezione dell’Italia (e del sud Europa in generale) come un buco nero che inghiotte soldi e genera illeciti.