Sembra ingiusto impedire al genitore legittimo di poter riconoscere il proprio figlio, e ancora più ingiusto sembra rimettere la scelta nelle mani della madre, la quale, se da un lato impedendo il riconoscimento preclude la  responsabilità genitoriale del padre, dall’altro viene a perdere il diritto al mantenimento.

Tuttavia la norma che riguarda tale ipotesi, contenuta nell’art. 250 c.c., è posta a tutela proprio dell’interesse del minore sotto due profili.
Da un lato statuendo come il riconoscimento del figlio che abbia compiuto i 14 anni non produce effetto senza il suo consenso, (in origine erano 16 anni prima della legge n.219/12), dall’altro, ed è questo il punto che ci interessa, statuendo che “Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i 14 anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento”.
La stessa norma tuttavia precisa che il consenso non possa essere rifiutato dalla madre, se questo risponde all’interesse del figlio.
Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, può ricorrere al giudice competente
che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro 30 giorni alla notifica, il giudice decide con una sentenza che ”tiene luogo del consenso mancante.
Se la madre invece propone opposizione, il giudice sentito eventualmente il figlio minore che abbia compiuto i 12 anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento, decide con sentenza dopo i necessari provvedimenti provvisori ed urgenti.

LA TUTELA DELL’INTERESSE DEL FIGLIO
Sostanzialmente la norma tende ad evitare che si instauri un rapporto genitore-figlio con riferimento a quei genitori che, per le  caratteristiche personali o per comportamenti deleteri, possano compromettere lo sviluppo psico-fisico del minore o comunque creargli pregiudizi rilevanti.
La giurisprudenza formatasi nel corso degli anni ha chiarito che il riconoscimento del figlio naturale anche se condizionato all’interesse del minore, costituisce un diritto soggettivo primario del genitore stesso costituzionalmente garantito.
Ne consegue che, perché tale diritto possa essere sacrificato, non è sufficiente un semplice interesse del minore a conservare e a non veder turbata la serenità di vita che conduce con l’altro genitore che lo ha riconosciuto per primo, ma è necessaria la presenza di un fatto impeditivo di importanza proporzionata al diritto sacrificato, tale da far ritenere, con calcolo probabilistico, che il trauma presumibilmente riportato al minore sarebbe cosi grave da pregiudicarne lo sviluppo psico-fisico.
Dunque non è sufficiente paventare al giudice l’esistenza di contrasti tra la madre ed il padre per pregiudicare il diritto-dovere di quest’ultimo al riconoscimento, ma è necessario dimostrare che i rapporti con il padre costituirebbero un pericolo reale per il bambino, tale da pregiudicarne la serenità futura.

RISCHIO DI COMPROMISSIONE DELLO SVILUPPO PSICO-FISICO DEL MINORE
La norma, come si accennava, ovviamente ha dato luogo a numerosi interventi giurisprudenziali ed anche a tentativi di remissione alla Corte Costituzionale, la quale peraltro anche di recente con la Sent. 83/2011 ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’ art. 250 c.c.
Indubbiamente, se si esaminano le sentenze, ciò che conta è l’esame del pregresso percorso di vita del padre.
Per tutte richiamiamo la sent. n.27729/13 della Corte di Cassazione che è ritornata sul punto rigettando il ricorso del padre che si era visto inibire il riconoscimento della figlia.
I giudici del merito avevano infatti considerato dopo l’acquisizione del rapporto dei Servizi sociali, che il vissuto del padre e la sua personalità, pur tenuto conto che egli era cresciuto in un contesto difficile, caratterizzato tuttavia da violenti litigi e dall’abuso di sostanze alcoliche nonché dal facile ricorso alla violenza, seguito anche da uno stato di detenzione, non poteva che far propendere per il rigetto dell’istanza,
stante l’evidente incapacità di controllarsi e quindi ritenendo sotto il profilo probabilistico, ben possibile il reiterarsi di atti di violenza, contrari certamente all’interesse della minore.
Il padre si rivolgeva alla Corte di Cassazione, lamentando che, né il Servizio sociale, né il giudice di secondo grado, avevano tenuto conto dello sforzo del ricorrente, coronato al fine da successo a suo dire, di costruirsi, pure a seguito di un percorso di difficoltà familiari in cui aveva trascorso i primi anni della sua esistenza, una vita normale e serena.
La Corte tuttavia rigettava il ricorso, da un lato sotto il profilo dell’inammissibilità trattandosi di valutazioni di merito precluse alla Corte, dall’altro perché il giudizio della Corte di merito risultava adeguatamente ed esaurientemente formulato circa l’irreversibile immaturità dell’uomo e soprattutto circa la sua indole violente ed aggressiva manifestata anche nei rapporti con i parenti materni della bambina, così come nel periodo di accoglienza nella Struttura assistenziale.

IL TRIBUNALE COMPETENTE E LA QUESTIONE DEL COGNOME
Per completezza ricordiamo che, con la riforma normativa dell’art. 250 c.c. la competenza è stata spostata al Tribunale ordinario in luogo del Tribunale dei Minorenni
.
La competenza territoriale invece rimane al Tribunale del luogo di residenza del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento.
Quanto al cognome ricordiamo ancora come l’art. 262 c.c. preveda che il figlio nato fuori dal matrimonio venga ad assumere il cognome del genitore che ha effettuato il riconoscimento per primo.
La norma modificata dal recente D.lgs. n.154/13, oggi prevede che, nel caso in cui il primo riconoscimento venga effettuato dalla madre e successivamente avvenga quello del padre (spontaneo o giudiziale), il figlio possa assumere il cognome del padre, aggiungendolo, sostituendolo o anteponendolo a quello della madre. 

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