Servono regole chiare su chi ha diritto di accedere alla legge svizzera sul suicidio assistito. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha risposto così al ricorso di una donna di Zurigo, anziana ma non gravemente ammalata, che si era vista negare la dose di medicinali con cui avrebbe voluto porre fine alla sua vita prima che gli anni le portassero via quelle abitudini che lei considerava irrinunciabili per una vita degna di essere vissuta.
Il valore della vita – I giudici di Strasburgo cambiano rotta con la sentenza del 14 maggio 2013 n. 67810/10, sulla quale la Svizzera sta decidendo per un eventuale appello alla Grande Camera della Corte. Se così non fosse, la Confederazione dovrà conformarsi alle indicazioni e procedere alla revisione della normativa interna, procedimento più volte avviato ma mai concluso proprio per la delicatezza della questione.
La legge svizzera si basa sulle linee guida dell’Accademia di medicina, che permettono il suicidio solo in presenza di patologie avanzate. Non era questo il caso della ricorrente che, dopo un tentativo di suicidio “vecchio stile” e un ricovero presso un ospedale psichiatrico, si era vista negare più volte dai medici i barbiturici, sulla base di limitazioni del codice professionale e per il timore di essere ritenuti colpevoli di reato.
Il rimando della Corte europea all’articolo 8 della Convenzione, però, cambia le carte in tavola e chiude il cerchio intorno al diritto al suicidio assistito – eutanasia, quindi – sulla base del diritto al rispetto della vita privata garantito proprio da quell’articolo. «Nell’era della crescente sofisticazione medica combinata con l’allungamento della vita – afferma la sentenza -, molte persone hanno il desiderio di non essere costrette a vivere nella vecchiaia o in stati di decadimento fisico o mentale che contraddicono radicalmente la loro identità personale». La censura di Strasburgo è legata alla tipologia deontologica delle norme, sulla base del principio che spetta alla legge fissare le condizioni per cui è possibile accedere ai veleni.
Divide et impera – C’è da notare, però, che la decisione è stata presa con voto di maggioranza e postille rispetto ai pareri contrari: è evidente che su temi etici talmente delicati, l’unità del collegio si è sfaldata. Quattro voti a favore contro tre contrari, infatti, sono un’inezia in campo bioetico e, su piani evidentemente distinti, interpellano la coscienza di chiunque venga a conoscenza di tale indicazione da parte della Corte, visto anche il fenomeno dei viaggi verso le cliniche dove si pratica il suicidio assistito anche dall’Italia.
Le differenze con l’Italia – La posizione assunta dalla Corte è strettamente legata, in ogni caso, alla particolare impostazione di legge – e di pensiero dietro alla norma – vigente in Svizzera. Una decisione simile in Italia sarebbe stata inammissibile. Anzi, più correttamente, non sarebbe stata possibile. Le norme fondamentali del nostro Stato, infatti, sono la cartina al tornasole dal punto di vista giuridico del comune sentire di una Nazione e pertanto la Cedu si sarebbe espressa contro i principi contenuti nella nostra Costituzione.
In questo caso, la vita è inserita all’interno della sfera privata e i relativi diritti possono essere esercitati anche in senso distruttivo del bene stesso.
Corte dei Diritti, seconda sezione, caso Gross contro Svizzera, sentenza 14 maggio 2013