Le misure messe in campo dall’establishment europeo nell’ultimo periodo si stanno scontrando con il vento di protesta che torna a soffiare nel vecchio continente, per il momento in Spagna ed in Grecia. Le immagini di Madrid dimostrano il malcontento dei cittadini nei confronti di una classe dirigente che sembra aver perso il controllo economico del paese, sempre più in mano ai grandi gruppi finanziari. Ancora una volta emerge la contrarietà verso scelte imposte dall’alto, determinate da un non meglio identificato interesse di mercato, che rischia di far precipitare una situazione sociale già sull’orlo del collasso.

Sul piano strettamente economico, la Spagna vive momenti incredibilmente drammatici. Con la disoccupazione, specie quella giovanile, che tocca livelli da record ed il reddito che continua inesorabilmente a calare, diventano comprensibilmente inaccettabili le ulteriori misure restrittive profilate dal governo di Rajoy, a sua volta succube delle pressioni europee. Il premier, infatti, ha presentato una legge finanziaria da 40 miliardi, prevedendo tagli a pubblico impiego e trasferimenti regionali, l’aumento delle imposte sul reddito e l’incremento dell’IVA al 21%. Se non ci fosse stata l’unione monetaria la situazione non sarebbe stata certamente affrontata in questo modo, attraverso politiche di tagli al bilancio che deprimono ulteriormente un Pil in caduta verticale. Non si può chiedere ad un’intera popolazione di stringere ancora la cinghia, dal momento in cui è chiaro a tutti, come affermano anche Draghi e la stessa Merkel, che gli attacchi verso i paesi mediterranei non trovano alcuna giustificazione sul piano del rischio, ma solo su quello speculativo.

A gettare benzina sul fuoco ci hanno pensato i rappresentanti catalani, che chiedono sostanzialmente la secessione della regione di Barcellona, scaricando su Madrid le colpe di una crisi senza precedenti dalla fine della dittatura. Si invoca dunque un referendum sulla questione, minacciando di proseguire su questa strada anche senza il consenso del governo centrale. Essendo stata per anni la regione più ricca di Spagna, la Catalogna ha certamente subito un drenaggio fiscale superiore rispetto ad altre regioni, ma la crisi attuale affonda le radici all’interno del territorio stesso. Il boom economico degli ultimi quindici anni viene principalmente dal settore terziario, come dimostra la bolla immobiliare che ha sconvolto l’intera nazione iberica: il calo dei redditi ha inciso drammaticamente sulla domanda, mostrando l’assenza di una vera e propria struttura produttiva. Le tensioni interne indeboliscono dunque ulteriormente la posizione spagnola nei confronti dei mercati, che iniziano a prendere in seria considerazione la perdita di una parte importante del Pil spagnolo.

Per quanto riguarda il ruolo dell’Europa in questa partita, stanno emergendo nuovamente con vigore le debolezze del fondo salva-Stati. La Spagna avrebbe bisogno di un prestito di lungo periodo, per ridare fiato ad un’economia che deve ricostruirsi dopo il recente risveglio dal sogno. Le condizioni imposte da Bruxelles frenano tuttavia il governo: chiedere aiuto significa rimettere il proprio mandato nelle mani dei tecnici, approvando misure draconiane che servono solo da monito per le future generazioni e non certo alla ripresa economica. Questo incrementa il senso di diffidenza, se non di vero e proprio odio, nei confronti del sistema Europa, verso cui i cittadini si sentono sudditi impotenti. La domanda che il cittadino europeo si pone è molto semplice: se i mercati hanno comunque un interesse nel colpirci, a prescindere dalle misure di bilancio, perché dobbiamo continuare a sacrificarci? La sensazione è che i nostri rappresentanti a Bruxelles siano troppo accondiscendenti verso le lobby finanziarie, trascurando pericolosamente il rapporto con i cittadini, che in fondo legittimano l’esistenza di questa struttura sovranazionale che è l’Unione Europea.

Occorre dunque una riforma in senso democratico del quadro istituzionale europeo, specialmente per quanto concerne la gestione della moneta unica. Mai come adesso, infatti, la fiducia nelle istituzioni dei cittadini comunitari è stata così scarsa, non solo nei paesi cosiddetti periferici. Se a Madrid, Atene ed in parte a Roma si critica l’operato di Bruxelles, schiavo degli interessi tedeschi e delle lobby finanziarie, nella stessa Germania si alzano voci di dissenso per gli aiuti concessi fino a questo momento. In un regime di “normale” democrazia rappresentativa, un governo europeo sarebbe stato già costretto alle dimissioni, mentre allo stato attuale nulla può essere cambiato. Il problema si può ricondurre all’assunto, perlomeno discutibile, sul quale è stato costruito l’impianto decisionale dell’Eurozona: le “cose economiche”, intrinsecamente tecniche e lontane dalla politica, possono e devono essere gestite al riparo dalle pressioni elettorali. Tale posizione è difficilmente sostenibile nella cultura occidentale, specie quando alcuni paesi si trovano ad affrontare una crisi economica, politica e sociale senza precedenti nella storia dell’Unione Europea. Sembra ormai chiaro come la questione non sia più “solamente” economica, ma implichi invece alcune rilevanti scelte di indirizzo politico: dovranno essere dunque i cittadini a decidere se intendono orientarsi verso un sistema puramente liberista, in cui lo Stato si ritrae gradualmente affidandosi sempre più al mercato, oppure se intendano mantenere in vita, sicuramente attraverso un processo di rinnovamento sul piano dell’efficienza, un sistema di Stato sociale.

I governanti europei non possono certamente commettere l’errore di arroccarsi all’interno dei palazzi, perdendo di vista il rapporto con gli elettori, senza il cui consenso qualunque progetto continentale non può che fallire. I margini per una riforma dei meccanismi decisionali ci sono: allo stato attuale il Parlamento Europeo, composto da ben 754 deputati che rappresentano circa 400 milioni di elettori, ha poteri soprattutto propositivi e consultivi, ma non può legiferare. Spetta al Consiglio, al quale partecipano i ministri competenti per materia, varare direttive e regolamenti che poi entrano nelle legislazioni nazionali. Potenziare i poteri del Parlamento, sul modello di qualunque democrazia presente sul territorio europeo, potrebbe dunque essere un modo per rispondere alla domanda di rappresentanza che pervade il vecchio continente. Non sembra infatti possibile continuare sulla strada intrapresa, attraverso cui si tenta di imporre ricette e soluzioni in modo quasi dogmatico. La speranza è che una riforma in tal senso contribuisca a ricreare una comunione d’intenti tra i cittadini, che da troppo tempo percepiscono l’Europa come una costrizione e non come un’opportunità.

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