L’Europa economica è vittima di una malattia particolare, localizzata in alcune parti del suo enorme corpo che soffrono enormemente, mentre in altre non arriva che un leggero mal di testa. Il cervello di questa entità sfilacciata, fatto di istituzioni che risiedono ben distanti dal punto dolorante, non avverte chiaramente i segnali di sofferenza e continua a non trovare il farmaco giusto per curarsi, mentre alcuni pensano addirittura all’amputazione per risolvere il problema.
La terapia d’urto, a base di austerity e costrizioni fiscali, non ha certamente portato l’atteso sollievo, visto che i paesi interessanti continuano a mostrare continui segni di cedimento. La politica della Troika agisce come un chemio: uccide tutta la spesa pubblica indistintamente, senza distinzioni tra sprechi e welfare, riducendo al minimo le speranze di rilancio economico. Quello che manca ai paesi in crisi, come l’ossigeno per un essere umano, è infatti la crescita del Pil, il reddito nazionale, unica via per abbattere i livelli d’indebitamento e ristabilire un clima di fiducia.
D’altra parte i segni del malessere sono evidenti. La Grecia, dopo un piano di salvataggio incredibilmente costoso, sia sul piano finanziario che sociale, si trova nuovamente in emergenza. Nonostante la ristrutturazione del debito, infatti, il debole governo Samaras non è riuscito a creare le condizioni per rifinanziarsi sul mercato: i titoli ellenici sono ancora classificati come “spazzatura” ed i conti pubblici dipendono interamente dalle tranche del prestito internazionale.
Nei giorni scorsi la Commissione ha dovuto smentire l’esistenza di un buco di 10 miliardi nei finanziamenti, che non permetterebbe di coprire le spese dello Stato da onorare entro la fine dell’anno. La falla, anche se di dimensioni minori, esiste e dovrà essere coperta, pena un nuovo shock finanziario che stavolta rischia di trascinare l’intera Unione nel baratro dello scontro frontale. Nel frattempo la tensione sociale continua a salire, visto che dopo la clamorosa chiusura della televisione di Stato è arrivato il turno dei dipendenti pubblici, per cui sono previsti circa 25.000 esuberi entro il 2014.
Il questo clima, se il governo dovesse cadere l’esito delle elezioni sarebbe imprevedibile: nell’ultima tornata i greci si sono fidati di Bruxelles, votando pur con un maggioranza risicata l’esecutivo più accondiscendente verso i diktat europei.
La Grecia insegna che il sostegno politico nei confronti di misure estremamente impopolari è un obiettivo complesso da raggiungere, poiché la fondatezza economica dei provvedimenti, certamente non basati su una scienza esatta, si scontra con la realtà sociale della perdita secca di benessere.
Uno scenario simile si sta materializzando in questi giorni in Portogallo, considerato da Bruxelles come l’alunno diligente, alla luce delle imponenti riforme fiscali applicate in seguito al piano di aiuti internazionali. A due anni dall’adozione di provvedimenti duri, tra tagli alla spesa ed aumenti delle tasse, i titoli del debito lusitano faticano a trovare una collocazione sul mercato, nonostante l’aiuto delle istituzioni comunitarie.
Tra pochi mesi il paese dovrebbe uscire dal programma di sostegno, ma i titoli sono ancora “spazzatura” e difficilmente potranno essere piazzati senza contraccolpi. Ad influenzare il rating negativo e la scarsa fiducia è ancora una volta la depressione economica, con il Pil che ristagna e la disoccupazione in crescita costante.
La caduta del governo, che sta cercando disperatamente un accordo di coalizione per restare in piedi, sarebbe un’ulteriore tegola per la stabilità del paese.
Invece di restringersi, sembra inoltre che la malattia si stia espandendo. L’ultimo contagio ha toccato la Slovenia, paese dai coti pubblici ineccepibili fino all’avvento della crisi economica. Il governo ha approvato un piano di rilancio economico che porterà il deficit al 7,9% alla fine dell’anno, ben oltre la soglia di tolleranza imposta dai parametri europei, anche se il debito complessivo rimane relativamente contenuto.
Anche Cipro, sottoposto ad un trattamento fiscale rigoroso dopo la recente crisi bancaria, inizia a mostrare segni di rigetto, con la revisione al ribasso delle stime di crescita e l’incremento della disoccupazione.
Anche ammesso che la cura della Troika abbia effetti benefici nel lungo periodo, asserzione tutt’altro che scontata, è evidente che una visione simile non è sostenibile in un regime democratico, per cui a fini elettorali occorrono risultati tangibili in tempi adeguati.
Nell’ultimo periodo sembra che qualcuno si sia accorto della pericolosità politica di alcune prescrizioni, soprattutto sul contenimento dei conti pubblici ad ogni costo. Il presidente Barroso, a conclusione dell’ultimo Consiglio, ha evidenziato alcune proposte volte ad alleggerire il peso delle costrizioni fiscali, dimostrando di fatto un ripensamento dell’intero impianto post-crisi. Nello specifico, l’oggetto della discussione riguarda gli investimenti pubblici in infrastrutture, che potrebbero essere conteggiati al di fuori dei target relativi al deficit ed al debito.
In termini pratici, significa che la costruzione di opere per lo sviluppo, come autostrade, ferrovie, banda larga, non saranno soggette alle restrizioni imposte dagli accordi europei, liberando in tal modo un notevole ammontare di risorse. Ammettere che un aumento della spesa pubblica può essere “buono”, purché venga destinato a finanziare progetti infrastrutturali, è una sorta di ammissione di responsabilità da parte della Commissione sul fronte della perdita di competitività in molti paesi europei.
Affinché l’Europa, ed in particolare la zona Euro, raggiunga un certo grado di stabilità occorre che le istituzioni si adoperino per abbattere le barriere che frenano l’integrazione economica, in ossequio alle prescrizioni provenienti dalla nota teoria delle aree valutarie ottimali.
Paradossalmente la crisi attuale potrebbe contribuire ad unire l’Europa, poiché alcune condizioni necessarie iniziano a svilupparsi con decisione: i flussi migratori interni sono in aumento costante, mentre le barriere linguistiche contano sempre meno. I paesi più ricchi trovano una sorta di manodopera intellettuale e qualificata ad un costo relativamente contenuto, determinando un aggiustamento automatico, seppur parziale, del mercato del lavoro globale.
Manca ancora un meccanismo redistributivo tra gli Stati, nonostante il bilancio comunitario e i fondi strutturali, che si può raggiungere solo tramite un impianto di tipo federale.
La cura per uscire dall’impasse, come nelle malattie degenerative, non è né semplice né veloce: servono tempo e misure coordinate, sostenute da una volontà politica collettiva che per il momento non si è ancora vista.
Come spesso dicono i medici ai loro pazienti, affinché la medicina faccia il suo dovere occorre che il malato creda nella cura e sia convinto di poterne uscire. Occorre dunque che il cervello, che al momento risiede tra Bruxelles e Francoforte, sostenga questi paesi e dia loro una speranza, dimostrando al mondo (e ai mercati) che questo corpo europeo, in fondo, è unico e indivisibile.