Gli strascichi di questa crisi senza precedenti, essendo appurato che la recessione è stata ben peggiore e più prolungata rispetto a quella vissuta negli anni ’30, continuano a manifestarsi.
Un nuovo fantasma si aggira per l’Europa, sotto forma di un male al quale il vecchio continente non è abituato e che rischia di compromettere gli sforzi fino ad ora compiuti, soprattutto dai Paesi mediterranei.
Si tratta della deflazione, fenomeno che implica il calo sistematico dei prezzi in una data economia, rilevata in Grecia dai tecnici della Commissione nell’ambito delle consuete previsioni economiche d’autunno.
In un momento di forte difficoltà per le famiglie, la deflazione può erroneamente esser vista come una manna, nella falsa speranza che tale processo consenta un recupero del potere d’acquisto.
Al contrario, la deflazione è uno dei sintomi più pericolosi che riflettono la salute precaria di un sistema economico: l’Europa fa bene a preoccuparsi ora, prima che il danno diventi irreparabile.
Cause e conseguenze della deflazione sono collegate tra loro dal sistema di aspettative ed incentivi che la variazione dei prezzi comporta. Per quanto riguarda le prime, queste vanno ricercate nel calo della domanda aggregata di beni e servizi: le famiglie, in un periodo recessivo, dispongono di meno denaro, fanno meno acquisti ed alla lunga le imprese iniziamo a calare i prezzi nel tentativo di vendere le eccedenze o semplicemente di abbattere la concorrenza.
Ad aggravare l’intero processo concorrono le politiche di austerity, nel caso specifico imposte dalla Troika, che attraverso tagli ai servizi pubblici ed incrementi fiscali contribuiscono a ridurre ulteriormente il reddito disponibile.
La negazione della scarsità della domanda come causa della crisi economica caratterizza la corrente di pensiero dominante in Europa, che individua nella scarsa produttività e nella poca concorrenza i fattori che limitano lo sviluppo. La deflazione, tuttavia, è un fatto reale e come tale va affrontato, pena l’aggravamento della recessione.
Le conseguenze di questo meccanismo sono pericolose in quanto di lunga durata. Il calo sistematico dei prezzi comporta il blocco produttivo delle aziende, che rispondono al fenomeno cercano di tagliare i costi, soprattutto quelli da lavoro.
Le minori entrate, in buona sostanza, spingono i manager a non assumere nuovo personale e, nella peggiore delle ipotesi, a licenziare quello in eccesso. Allo stesso modo vengono meno gli investimenti, specie quelli innovativi, poiché chi dispone del capitale sceglierà di utilizzarlo solo quando i prezzi torneranno a salire.
Le famiglie, dal canto loro, sono meno incentivate a spendere, rimanendo in attesa di un ulteriore calo dei prezzi che possa aumentarne il potere d’acquisto. In altre parole, se tutti si aspettano che un bene domani costi meno, è conveniente attendere per spendere i propri soldi.
Questi incentivi perversi autoalimentano la deflazione, motivo per cui combatterla diventa particolarmente difficile.
La Grecia, tornando alle vicende odierne, è finita in deflazione quest’anno ed il fenomeno è stato certificato dalla Commissione Europea. La giustificazione che i tecnocrati offrono non sembra affatto soddisfacente: per Bruxelles, infatti, si tratta di un inevitabile, per quanto doloroso, aggiustamento macroeconomico, vista la minore disponibilità economica dei cittadini ellenici.
Tra le righe, la Commissione ammette che la Grecia deve fronteggiare un impoverimento necessario, in modo da tornare alla condizione di inferiorità che le compete in base ad una sorta di legge di sopravvivenza. Tale interpretazione può accontentare (forse) l’opinione pubblica tedesca, che vuole la testa degli Stati inadempienti, ma non convince il resto d’Europa, spaventato dall’eventualità di imbattersi in una simile sciagura.
Il rischio è reale, visto che anche in Italia l’inflazione annuale è pericolosamente vicina allo zero ed è stata negativa per periodi sempre più prolungati.
La calma analitica mostrata nel documento della Commissione, d’altra parte, è solo apparente, poiché la prospettiva preoccupa i vertici dell’Unione e la BCE sta già operando mettere una pezza. L’annunciato calo dei tassi d’interesse da parte di Draghi, che viene a cadere proprio in concomitanza con la pubblicazione dei dati, non è certo un caso.
L’immissione di liquidità nel sistema, infatti, rappresenta l’arma principale per combattere la deflazione, anche se il risultato è tutt’altro che scontato. Con il taglio allo 0,25%, l’istituto di Francoforte si avvicina sempre più al tasso zero, limite che configura la cosiddetta “trappola della liquidità”, in cui nonostante il costo del denaro sia nullo, consumi ed investimenti continuano a ristagnare.
Il Giappone ha vissuto una situazione simile nei primi anni duemila, impiegando circa cinque anni per uscirne.
In molti si chiedono cosa abbia aspettato la BCE, il cui tasso d’inflazione obiettivo si pone poco sotto il 2% ed invece sono anni che si aggira intorno al 1%. La risposta va cercata, ancora una volta, tra le fila degli esponenti tedeschi, ancora oggi contrari ad un ulteriore espansione monetaria.
Il punto nevralgico della questione riguarda la diversa velocità dei prezzi all’interno dell’Eurozona, dove la moneta è unica ma le economie sono profondamente differenti. La politica monetaria imposta dalla BCE, dunque, si basa nella migliore delle ipotesi su una media delle principali variabili macroeconomiche, di fatto non accontentando nessuno.
Nel caso specifico, tuttavia, è evidente che tutti i Paesi, Germania inclusa, devono fronteggiare un calo dei prezzi che rischia di compromettere le già deboli possibilità di ripresa economica.
La Grecia sta fornendo un assaggio di quanto potrebbe accadere, ma ancora una volta è vittima della sua dimensione relativamente modesta sullo scacchiere europeo, per cui non incide particolarmente sulle altre economie.
Uscire da questa situazione è possibile, a patto che vengano corretti, almeno parzialmente, gli squilibri macroeconomici che soffocano l’Eurozona. Il solo intervento della BCE, che può ridurre i tassi o finanziare ancora gli istituti bancari attraverso l’ennesimo LTRO, non sembra sufficiente: occorre che la Germania si prenda le proprie responsabilità ed utilizzi parte dell’enorme surplus commerciale per incrementare consumi ed investimenti interni, facendo respirare gli altri Paesi.
Questo, in buona sostanza, è il messaggio inviato da Barroso alla Merkel, anche in vista della futura alleanza con i socialdemocratici.
Berlino ha beneficiato e più di ogni altro dal mercato unico, esportando i propri prodotti senza dazi doganali ed a prezzi estremamente bassi, con cui nessuno è in grado di competere.
I cittadini tedeschi potrebbero permettersi di consumare di più, ma lo Stato glielo impedisce per un’assurda paura di tensioni inflazionistiche, mantenendo i salari bassi e quindi i prezzi.
Per inciso, è la stessa accusa che gli americani rivolgono da anni alla Cina, i quali sono rimasti sordi a questi appelli: speriamo che Angela, invece, ci senta.