È vero. Gli esami, per come sono concepiti oggi, non offrono alcuna garanzia di equità e trasparenza. Bisogna onestamente riconoscere che l’esito é il più delle volte affidato al caso e le effettive capacità del singolo candidato non trovano, quasi mai, una corretta valutazione. Mi inserisco brevemente nel dibattito che si è sviluppato anche sul sito intorno agli esami per l’abilitazione alla professione forense. Mi riferisco, in particolare, a quanto è avvenuto a Napoli, città nella quale mi onoro di esercitare la professione di avvocato in campo penale.
Frequento ogni giorno le aule giudiziarie e Le garantisco, senza timore di smentita, che in questa tornata sono stati lasciati al palo giovani di valore indiscusso, i cui meriti, acquisiti sul campo della quotidiana esperienza giudiziaria, non hanno trovato alcuna forma riconoscimento. Così come, specularmente, hanno avuto il via libera alla professione (non me ne vogliano) molti candidati i cui meriti risiedono soprattutto nella scaltrezza di essersi scelti compagni di banco bravi e preparati.
Ma siamo certi che la questione debba essere circoscritta alle modalità di svolgimento della prova ovvero, come sostiene l’amico Francesco Caia, al fatto che le commissioni milanesi fossero insufficienti rispetto al numero dei candidati napoletani?
É assolutamente vero che un esame al quale partecipano 6000 (dico seimila!) candidati è umanamente ingestibile e che, dunque, il rischio che il caso la faccia da padrone è assai alto.
Il punto, però, è che nessuno si è mai domandato come sia possibile che un numero così alto di candidati sia giunto, senza ostacoli di alcun genere, a sostenere la prova scritta. L’esame di avvocato (come si chiama in gergo) é effettivamente diventato una “terno al lotto” perché, da almeno vent’anni, con un atteggiamento miope ed irresponsabile, nessuno si é preoccupato di gestire quelli che con termine moderno si definirebbero i “flussi in entrata”.
Alla ricerca di un titolo
Seimila candidati che, nel dicembre dell’anno scorso, hanno affollato i padiglioni della Mostra d’Oltremare presuppongono seimila avvocati che hanno rilasciato altrettanti certificati di “compiuta pratica” ed altrettante attestazioni di autenticità rilasciate dai Consigli dell’Ordine del distretto.
Vogliamo continuare a prenderci in giro? Questo esercito di umanità varia, ogni giorno, per due anni (tanto dovrebbe durare il periodo di tirocinio), avrebbe dovuto affollare i diversi tribunali del distretto. Se realmente ciò fosse accaduto, la statica degli edifici sarebbe stata messa a repentaglio e la cittadella giudiziaria al centro direzionale, costruita imprudentemente sul fiume Sebeto, avrebbe cominciato davvero a sprofondare.
La verità è che di quei seimila giovani, una percentuale minima ha scelto veramente di svolgere la professione forense, cioè di dedicare la propria vita alla tutela dei diritti dei cittadini, sia in civile che in penale. La stragrande maggioranza ha bisogno del “titolo” per poi poterselo spendere in campi diversi (pubblica amministrazione, banche, assicurazioni) oppure soltanto per il vezzo di sentirsi chiamare “avvocato” dal parcheggiatore abusivo di turno mentre fa manovra con la propria automobile.
La stragrande maggioranza di essi non ha mai visto una aula di giustizia, né ha voglia di frequentarla in futuro.
Ciò che però dovrebbe interessare il cittadino è che tutti coloro i quali ottengono l’abilitazione, per ciò solo, possono cimentarsi in quelle aule per tutelare beni ed interessi straordinariamente importanti, siano essi di natura economica, per ciò che concerne il civile, siano essi afferenti alla sfera della libertà personale, nel penale.
Ma come è possibile che accada tutto ciò?
La vera fonte di tale catastrofe risiede proprio nei meccanismi di accesso alla pratica forense.
Alzi la mano quell’avvocato che non si sia lasciato convincere dall’”amico” di turno (un politico, un alto magistrato, un importante manager d’azienda) ad accogliere fittiziamente nel proprio studio il giovane desideroso di ottenere l’abilitazione. Alzi la mano quel Consiglio dell’Ordine che abbia avuto il coraggio di indagare seriamente se quel giovane ha effettivamente svolto un serio ed impegnativo tirocinio oppure, per i due anni in questione, ha fatto tutt’altro ed in tutt’altri campi.
Basta con i favori
La verità è che nessuno, in questo Paese (nel campo della professione forense come in altri campi) ha il coraggio civile (o etico) di rifiutare il favore, di negare il piccolo piacere all’amico o all’amico dell’amico. È allora del tutto naturale, dunque, che quando la selezione può finalmente avvenire al riparo dell’anonimato, come avviene in sede di correzione delle prove scritte, quando non è più possibile fare ricorso alla conoscenza personale o alla suggestione del potere, questa si muova sul piano della cieca severità (percentuali di non ammessi, come abbiamo visto, vicine all’80%) oppure, peggio, sul piano della casualità assoluta.
Il risultato di tutto quanto detto è sotto gli occhi di tutti: un esame elefantiaco che premia o punisce in modo del tutto schizofrenico, promuovendo o bocciando senza tenere in nessun conto i meriti o i demeriti del singolo candidato. E questo stato di cose ha un solo vero sconfitto: il cittadino utente, che si trova di fronte una massa di professionisti la cui preparazione non è stata in alcun modo testata e che spesso risulta del tutto impreparata ad apprestare una tutela efficace alle istanze che, incautamente, gli vengono affidate.
In questa prospettiva, le innovazioni introdotte recentemente dal Governo, che ha ridotto il periodo di pratica da 24 a 18 mesi consentendo, peraltro, che di questi 18 mesi ben 6 possano essere sostituiti con la frequentazione di aule universitarie piuttosto che di aule giudiziarie, non avranno altro effetto che aumentare a dismisura la pletora di coloro che busseranno alle porte della professione forense, con buona pace della qualità e della specializzazione.
Ma ve lo immaginate un neurochirurgo che tale diventa senza aver mai visto un tavolo operatorio?
Io sono un avvocato. Da oltre venticinque anni, ogni santissimo giorno, cerco di guadagnarmi da vivere in una aula giudiziaria. Amo la mia professione. Eppure sento fortemente, giorno dopo giorno, il senso di colpa di non averla saputa adeguatamente difendere. Ogni avvocato della mia generazione dovrebbe provare gli stessi sentimenti.