I primi interventi normativi in materia di stupefacenti risalgono al ventennio fascista: venivano resi illegali le sostanze circolanti all’epoca e i locali adibiti a “fumerie”, era previsto il ricovero coatto in case di cura per chi avesse turbato l’ordine pubblico dopo aver usato sostanze, ma non c’erano sanzioni penali per i consumatori “viziosi”.

LA NORMATIVA “STUPEFACENTE” IN ITALIA: DAL FASCISMO A GIOVANARDI
Nel 1954 arriva un nuova legge più orientata verso il proibizionismo: lo spaccio e i traffici di droga sono considerati al pari del consumo e si finisce in galera anche solo per uno spinello. Per questo nel 1975, con una nuova legge che afferma l’irrilevanza penale per i consumatori che detengano una “modica” quantità, si ha una svolta “antiproibizionista”: per non finire in galera si deve dimostrare l’uso personale e non bisogna superare un certo quantitativo di droga, poi si può intraprendere un percorso di recupero sanitario, e se non viene intrapreso di spontanea volontà c’è anche il ricovero “coatto” come ai tempi del fascismo.
Nonostante la svolta “antiproibizionista” la legge viene criticata sia dai proibizionisti che dalla fazione opposta: i primi ritengono inaccettabile che ci siano delle soglie al di sotto delle quali non si viene puniti in quanto rappresenta una potenziale legalizzazione, gli antiproibizionisti invece pensano che le tabelle con quantitativi e limiti non tengano conto di fattori che portano dietro le sbarre tanti tossici che invece dovrebbero essere recuperati.

Si arriverà così dopo un dibattito lungo quasi venti anni alla cosiddetta legge “Craxi-Jervolino-Vassalli” (la numero 162 del 26/06/1990), e al testo unico sugli stupefacenti (il D.P.R. 309/90): vengono introdotte sanzioni amministrative per i consumatori, si istituiscono i SERT e si cancella il ricovero coatto, e soprattutto viene concepito il concetto di “dose media giornaliera” moltiplicata per i pochi giorni nei quali si presume che il consumatore la finisca e stabilita in un limite preciso contenuto nel DPR, dose che se viene superata farà considerare chi viene beccato, inderogabilmente, uno spacciatore: è la rivolta degli antiproibizionisti
che con un referendum nel 1993 aboliscono questo principio anche sull’onda di casi di cronaca eclatanti che vedono, per esempio, un giovane impiccarsi in cella dopo aver comprato un etto di fumo come scorta per la vacanza estiva post-diploma.

Si aprirà una fase di maggiore discrezionalità delle toghe che, in mancanza di parametri aritmetici come i limiti tabellari, di volta in volta dovranno decidere se ci si trova davanti a uno spacciatore o a un consumatore, considerando come indice anche quei limiti stabiliti prima del referendum.
Nel 2006 arriva la cosiddetta “Fini-Giovanardi” (legge numero 49 del 21/02) con l’intento sbandierato di ripristinare quel parametro “matematico” della soglia tabellare tramite la reintroduzione del concetto di “dose media giornaliera” però misurando la quantità non in grammi lordi ma in principio attivo con verifiche di laboratorio, intento rintracciabile dagli annunci di Giovanardi sulle emeroteche virtuali e motori di ricerca, e che avrebbe definitivamente segnato uno spartiacque tra spacciatori e consumatori, ma che in realtà in linea con lo volontà popolare espressa allora rimane solo un indice: certo, resta un indice che potrebbe aver criminalizzato ingiustamente tanti tossici e che nei primi gradi di giudizio ha portato a qualche condanna da chi lo aveva considerato come indizio schiacciante o vincolante in base alla normativa “fresca” di Gazzetta, ma insieme a questo si devono comunque considerare altri fattori previsti dalla legge e dalla giurisprudenza di legittimità (il tenore di vita e il reddito di chi viene trovato con quantità consistenti, il frazionamento in dosi, la presenza di materiale per il “taglio” o il confezionamento ecc).

La legge “Fini-Giovanardi” è stata criticata da svariate associazioni e da magistrati come Francesco Maisto, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che l’hanno bollata come una delle norme “carcerogene” oltre che rea di aver trasformato molti consumatori in spacciatori e di aver equiparato definitivamente droghe leggere e pesanti. Bisogna anche ricordare però che, nonostante le criminalizzazioni ingiuste denunciate dalle medesime associazioni (come la criminalizzazione anche di chi coltiva solo una pianta di cannabis magari per alleviare un tumore e non ricorrere agli oppiacei senza finanziare e rivolgersi al sistema illegale, che nonostante sporadici indirizzi della Cassazione, viene equiparata alla produzione, spaccio e traffico di stupefacenti punita penalmente con un minimo di sei anni salvo “sconti“ vari), le bufale (o “norme cassate”) come quella dell’andare in carcere per soli due spinelli dopo la legge del 2006 rappresentano delle “sponde” generosissime a personaggi dalla battuta “a effetto spacco tutto” facile, sempre su tutte le pagine dei giornali, come Giovanardi.

Oggi in epoca di “liberalizzazioni”, mentre dalla stampa arrivano articoli e appelli che sembrano quasi boutade sul rilancio dell’economia tramite la liberalizzazione della cannabis, e mentre anche in campo artistico e sociale arrivano appelli in tal senso (il mese scorso è uscito nelle sale il “falso” documentario sulla Napoli del 2020, “L’era legale”, in cui magistrati come Piero Grasso e artisti hanno espresso pareri favorevoli a possibili legalizzazioni), in Europa realtà come quella di Copenaghen hanno sperimentato la legalizzazione e il turismo sembra giovarne, mentre il governo olandese retto anche dallo xenofobo Wilders potrebbe colpire duramente i business nei Paesi Bassi e vorrebbe portare alla chiusura definitiva dei famosi “coffeeshop”…

SVIZZERA, REPUBBLICA CECA, OLANDA E DANIMARCA: DEPENALIZZAZIONI E SPERIMENTAZIONI
Senza pensare a trasformare l’Italia in una nuova mecca dello spinello, sarebbe interessante studiare misure alternative a quell’indice rappresentato dal principio attivo che rappresenta un costo per la collettività già solo per le analisi di laboratorio, e potrebbero essere risparmiati molti soldi qualunque sia la posizione ideologica sugli stupefacenti… Intanto nella capitale della Danimarca è stato recentemente approvato un progetto di legalizzazione della cannabis che, qualora venisse approvato dal parlamento, rappresenterebbe il primo esempio di “fumerie” completamente legalizzate: da alcuni anni gli hippie che avevano occupato l’ex area militare oggi nota come “Christiania” sono protagonisti di un’occupazione che è diventata anche una sperimentazione.

Dopo anni di contrasti con le autorità locali e dopo aver “sconfitto” lo spaccio di droghe pesanti, i circa mille abitanti con gli spacciatori della rinomata “Pusher Street” hanno comprato il suolo e, oltre a rappresentare un’attrazione turistica, la libera città di Christiania è stata anche una maniera di studiare l’impatto di una possibile sperimentazione che ora aspetta la ratifica del parlamento danese e che prevede circa 40 “fumerie” totalmente legali gestite da un “civil servant” che non invogli a fumare di più, come invece farebbe un pusher.

Diversa la situazione in Olanda, dove dagli anni ’60 è tollerata la vendita al dettaglio della cannabis, nell’ottica della “riduzione del danno”, che come si vedrà alla fine di questo articolo può essere intesa in diverse accezioni: secondo il principio tipicamente olandese della “tolleranza” i coffeeshop possono vendere un massimo di cinque grammi per giornata a testa, possono avere una scorta di 5 etti di canapa e derivati ma, anche se sembra paradossale, i canali di approvvigionamento sono illegali e i sequestri di cannabis, come di altre sostanze, insieme alla chiusura delle “fumerie” per violazione della “Opium Law” sono all’ordine del giorno, e sul principio della tolleranza esiste anche un proverbio: “la porta principale è legale, il retro è illegale”. Nel paese tollerante, dove anche le sostanze pesanti sono state “legalizzate” sperimentalmente a scopo sanitario per i tossici cronici con i quali le altre terapie come quelle con il metadone sono fallite e dove il loro consumo è perseguito severamente, le politiche dell’estrema destra sembrano portare il paese e città come Amsterdam sulla rivolta, coinvolgendo tutte quelle attività incentrate sul turismo: lo si sta facendo con una serie di interventi che per adesso sono stati prorogati o rinviati, come un pass speciale da sperimentare in alcune città del sud che darebbe l’accesso ai coffeeshop solo a chi risiede legalmente in Olanda e giustificato anche per problemi di turismo dello spinello ai confini con Belgio, Germania e Francia.

Un altro esempio di “liberalizzazione” interessante per il paese di “pizza, spaghetti e mafia”, anche se è corretto dire “depenalizzazione”, è quello della giovane democrazia ceca: si possono detenere, senza temere di incorrere in sanzioni, determinati grammi lordi per sostanza sia pesante che leggera: di fatto equivale a una legalizzazione, e l’obbiettivo è quello di diversificare le strategie di contrasto alla droga spingendo i consumatori a collaborare con le forze dell’ordine e a non criminalizzarli.
Sulle droghe leggere, oltre all’uso a scopo sanitario che in maniera sperimentale è partito da tempo anche in regioni italiane come la Puglia, recentemente anche in Svizzera è stato approvato un nuovo provvedimento: dopo l’esperienza fallita dei canapai e delle bustine di marijuana usate, ufficialmente, come profumatori per gli armadi e che attiravano nel Canton Ticino giovani dal nord Italia e non solo, nel cantone francese si avvierà una politica meno ipocrita: ogni persona potrà coltivare fino a quattro piante di marijuana per uso personale.
E negli anni in Italia non sono mancate proposte provocatorie non solo dai radicali e da quel Pannella che si presentava in tv e in piazza con i panetti di hashish, una su tutte quella che è stata proposta più volte anche a livello internazionale dalle associazioni antiproibizioniste: lasciare la cannabis illegale ma rendere tale anche l’alcol come ai tempi del proibizionismo negli USA e di Al Capone.

PROIBIZIONISMO O ANTIPROIBIZIONISMO: LA TERZA VIA?
Con l’arrivo di Monti associazioni come “Forum Droghe” e “CNCA” (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) hanno chiesto al nuovo presidente la cacciata del sottosegretario Giovanardi e del suo vice, Serpelloni, dal dipartimento delle politiche sulla droga, e queste sono le accuse tutte smentite da Giovanardi con le quali, replicando alle associazioni, ha spiegato che il suo posto resta saldo: avere screditato l’immagine dell’Italia a livello internazionale con una battaglia contro le politiche di “riduzione del danno”, aver distrutto il dialogo con il mondo dell’associazionismo anche in virtù di teorie che andrebbero contro le evidenze scientifiche oltre alla criminalizzazione di tossicodipendenti che dovrebbero essere recuperati in un altro modo e che, anche per mancanza di fondi, riescono ad avere accesso alle misure alternative e riabilitative, come la detenzione in case di cura, solo in circa un quinto dei casi.
Ma altre critiche sulle politiche delle droghe sono arrivate anche in occasione del famigerato piano carceri del ministro Alfano, due anni fa: secondo le comunità di recupero Saman e Villa Maraini la criminalizzazione e la politica particolarmente repressiva verso il possesso di stupefacenti inaugurata nel 1990 dalla “Craxi-Jervolino-Vassalli” e proseguita con la “Fini-Giovanardi” sono il problema principale che ha riempito le carceri, insieme alla disattenzione per le strutture e le strategie di recupero dalla tossicodipendenza e alla difficoltà nell’accesso alle misure alternative al carcere in quanto portatori di una “patologia”.

Si può concludere proprio citando le parole del fondatore di Villa Maraini e suo direttore da trent’anni, Massimo Barra, tratte da un articolo del ’94 che a distanza di anni risulta ancora attuale e che rispecchia un’altra accezione della “riduzione del danno” che nulla c’entra con le liberalizzazioni, senza cedere a un proibizionismo ossessivo che spesso vede nel tossico non un malato ma un peso di cui disfarsi e criticando i sogni antiproibizionisti di soluzioni come quelle della cosiddetta “eroina di stato”; infatti parla della “politica” di riduzione del danno che Villa Maraini attua anche cercando e soccorrendo attivamente i tossici (in particolare gli eroinomani) in strada e non aspettandoli passivamente e creando una “selezione” del più “forte psicologicamente”, ossia di riporre attenzione e risorse solo in chi si presenta presso le strutture apposite e non su tutti quelli che soffrono di questa patologia:
L’attuale dibattito, fortemente ideologizzato, oscilla tra i 2 poli dell’antiproibizionismo e del “proibizionismo redentoristico”, tanto che, nell’accezione dell’opinione pubblica e dei mass-media, chi si dichiara contrario ad una delle due linee di tendenza viene immediatamente catalogato come sostenitore della linea opposta, senza possibilità di sintesi intermedie.
Io penso invece che entrambe le posizioni siano frutto di radicalizzazioni e di fanatismi e che esista una “terza via” da percorrere, alla luce di quanto il fenomeno droga ci ha insegnato in questi recenti 20 anni di manifestazione epidemica in Italia. Gli antiproibizionisti, tutti tesi a dimostrare che non è la droga in sé il nemico da battere, ma il mercato illegale che moltiplicando il valore delle sostanze comporta una spirale perversa di strapotere delle organizzazioni trafficanti con clandestinità e criminalizzazione degli assuntori, sono portati inevitabilmente a sottovalutare l’effetto oggettivo delle sostanze.(…) Al polo opposto rispetto agli antiproibizionisti si situano quanti identificano nella droga, cioè nelle sostanze, il primo e vero nemico da battere. A seconda delle diverse sensibilità, il tossicomane è considerato un deviante più che un ammalato; un soggetto “con un problema in più”, secondo la definizione di Don Picchi, bella quanto priva di reale significato; un peccatore che ha voluto godere di un piacere proibito al genere umano e che pertanto va redento, costi quel che costi; un delinquente che attenta ai patrimoni altrui; un nullafacente da rieducare ai normali ritmi produttivi. (…)La “terza via” é quella della riduzione del danno, a torto ritenuta dai proibizionisti vicina ad ipotesi di liberalizzazione o di legalizzazione delle droghe. L’esperienza clinica di questi anni ci ha insegnato che il passare del tempo è un alleato e non un nemico della terapia, non fosse altro perché col tempo il fascino delle sostanze nel singolo assuntore tende inevitabilmente a diminuire per assuefazione, nel mentre crescono le probabilità di riscoperta di alternative alla droga. (…)
Fare riduzione del danno vuol dire in primo luogo evitare l’irreparabile adattando l’intervento alle obiettive possibilità di reazione del soggetto malato di droga, in una strategia dove è la terapia che si adegua all’individuo e non viceversa, come spesso avviene nelle strutture affette da integralismo terapeutico dogmatico. Vuol dire anche farsi carico della situazione globale del paziente, della qualità della sua vita, della sua felicita o infelicità. Vuol dire sapersi porre degli obiettivi intermedi, al posto di quello della redenzione globale.
Vuol dire sapersi accontentare dei successi parziali e praticabili e non sognare soltanto l’impossibile, scaricando poi sul tossico le proprie frustrazioni se il risultato perfetto non viene raggiunto.

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