A lungo il teatro d’opera è stato ritenuto un genere fuori moda, incapace di suscitare interesse nei compositori (figuriamoci nel pubblico!), se non nella forma del teatro musicale sperimentale, del gesto iconoclasta, dello spettacolo multimediale e tecnologico. Invece il teatro d’opera oggi, nelle sue diverse, nuove declinazioni, è vivo e vegeto.

Le nuove opere sono sempre lì, sempre più numerose nei cartelloni teatrali (in molti teatri europei trovare una “prima mondiale” è ormai più una norma che un’eccezione), e sono sempre più numerosi i compositori, di generazioni e di tendenze diversissime, che vi si cimentano, riuscendo a coinvolgere un pubblico diverso da quello tradizionalmente operistico. Un’occasione unica per vedere a confronto forme, stili, linguaggi dell’opera contemporanea, l’ha offerta il festival Operadagen a Rotterdam, rassegna giunta alla sesta edizione, ma in grande crescita rispetto agli anni precedenti. Una rassegna che ha anche l’ambizione di diventare, grazie all’iniziativa e all’entusiasmo del direttore artistico Guy Coolen, una sorta di catalizzatore in una rete europea di coproduzioni, destinata a dare grande impulso a questo genere musicale. Confrontando i diversi lavori messi in scena, emerge un quadro assai variegato, ma con alcuni denominatori comuni: come la ricerca della qualità dei testi, la libertà nell’uso dei materiali musicali, l’idea di un nuovo Gesamtkunstwerk che nasce dalla collaborazione di compositori, registi, coreografi, videomaker, un approccio fresco e disincantato col genere dell’opera, visto come una straordinaria opportunità per coinvolgere emotivamente il pubblico. Quindi senza timori reverenziali verso i modelli del passato, e senza parole d’ordine come complessità, ricerca, sperimentazione (anche l’apporto delle tecnologia sembra ormai interessare più la componente visiva dell’allestimento che quella musicale), ma con la chiara volontà di ritrovare la dimensione del “dramma in musica”. Su un modello molto tradizionale è basata Blond Eckbert di Judith Weir, opera (tratta dall’omonima novella di Ludwig Tieck) che ha già conosciuto una discreta fortuna.
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Questa insolita favola romantica che si trasforma in un incubo, dove le avventure fantastiche si uniscono a insegnamenti morali è stata presentata in un nuovo allestimento visionario di Wouter Van Looy, ispirato ai thriller americani degli anni Cinquanta, e coprodotto col festival di Bregenz: piccoli set di cartone, una casa, un bosco, un villaggio, insieme a un complesso gioco di telecamere sul palcoscenico permettono di proiettare su un grande schermo immagini in bianco e nero insieme realistiche e inquietanti. La partitura della compositrice scozzese è presentata in una versione per piccola orchestra, e diretta con grande energia da Robin Engelen sul podio dell’Oxalys Ensemble: alla trama strumentale, densa, ricca di sfaccettature, piena di gesti drammatici e di elementi descrittivi (come il bosco evocato dai corni), si unisce una scrittura vocale che richiama Britten e Janacek, molto influenzata dalle inflessioni del parlato, con caratterizzazioni diverse per ciascun personaggio. Pur di non rifarsi a vecchi modelli, altri compositori preferiscono risolvere il problema della scrittura vocale bypassandolo, sostituendo i cantanti con gli attori.

Ne è un esempio la nuova opera del belga Win Henderickx, Medea (che vedremo alla prossima Biennale di Venezia), dove tutto si riduce a quattro lunghi monologhi dei quattro attori protagonisti (Creonte, Glauce, Giasone, Medea), su un testo (in olandese) di Peter Verhelst che reinterpreta il mito dal punto di vista di Creonte, un testo di altissimo valore poetico che ha incantato il pubblico. La musica invece ha un ruolo poco più che di fondale sonoro. Wim Henderickx, formatosi anche come percussionista, con studi all’Ircam e a Darmstadt, da sempre attratto dalle musiche non occidentali (raga indiani, ritmi africani, musiche orientali), ha usato qui pochi strumenti, tra i quali una chitarra elettrica, e ha creato un’atmosfera arcaica, che sapeva di aulos, con un Med_New_photoFelixKindermannsoprano che vocalizzava lunghe melopee modali. La regia di Paul Koek contribuiva alla dimensione rituale e ieratica, con gli interpreti (musicisti e attori) schierati in fila, e una pedana protesa dal proscenio verso le prime poltrone, sulla quale si alternavano i quattro attori. La musica messa al servizio di uno spettacolo tutto teatrale e tutto recitato è anche l’idea portante di Almschi!, vivida pièce imperniata sulla vita di Alma Mahler, su testi di Annelies Verbeke, accompagnata da musiche di Mahler, Wagner e Berg magnificamente trascritte per ensemble vocale da Joachim Brackx.

Nella Penthesilea di Benedict Weisser e in The air we breathe di Merlijn Twaalfhoven domina invece la fusione di influenze musicali diverse. Nel primo lavoro (adattamento da Kleist realizzato da Lotte de Beer, promettente giovane regista che è stata allieva di Peter Konwitschny) si mescolano ammiccamenti al jazz al rock, con una certa superficialità, ma con qualche interessante sprazzo nella scrittura ritmica, fatta di patterns secchi e staccati, e negli amalgami timbrici ottenuti con le percussioni e il fortepiano. Più radicale la scelta di Twaalfhoven (compositore atipico, nato nel 1976, famoso per i concerti che fondevano musiche e musicisti greci e turchi a Cipro, israeliani e palestinesi a Gerusalemme), che ha creato uno spettacolo interattivo e interculturale, conducendo il pubblico all’interno di un antico deposito del grano sul porto di Rottedam e mescolandolo con un gruppo di cantanti, in una trama polifonica che è a sua volta un mix di maqam arabi, voci soul, pop singer, con un supporto assai discreto di live eletronics.

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In un Paese come la Germania, dove l’opera contemporanea è entrata da tempo nelle abitudini dei teatri e del pubblico, questi spettacoli non costituiscono più una nicchia per pochi appassionati, ma sono diventati gli appuntamenti clou dei cartelloni anche nei piccoli teatri. Ne segnaliamo due, messi in scena alla fine di questa stagione, l’allestimento di Sonntag, l’ultima opera del ciclo Licht di Stockhausen, presentata dal’Opera di Colonia, e la nuova opera di Georg Friedrich Haas, Bluthaus, messa in scena nel piccolo Rokokotheater di Schwetzingen. Le cinque scene dell’opera di Stockhausen erano già state rappresentate separatamente, ma è la prima volta che si è vista l’opera integrale, suddivisa in due giorni, o, in alcune recite, come una grande maratona di otto ore. Un allestimento visionario come solo la Fura dels Baus (e Carlus Padrissa) poteva fare, con gli strepitosi musicisti di musikFabrik diretti da Peter Rundel, quattro cori, numerosi solisti e un folto gruppo di danzatori. Invenzioni visive diverse per ciascuna scena, realizzate in due diversi spazi dello Staatenhaus: un padiglione circolare bianco che sembra l’interno di una stazione spaziale, e uno spazio nero, profondo, immenso, con il palcoscenico allagato. Concepito come una grande liturgia, lo spettacolo è anche un perfetto esempio di “opera d’arte totale” che fonde insieme elementi musicali e coreografici, i testi cantati, recitati, proiettati, e poi le luci, i colori (la domenica è il giorno dominato dal bianco e dall’oro), ma anche i profumi e le sensazioni termiche e epidermiche dell’acqua e del fuoco. Nella prima scena (Lichter-Wasser) dedicata alle rivoluzioni planetarie, Eva e Michael (i due Sonntag16protagonisti dell’intero ciclo, insieme a Luzifer) volteggiano a mezz’aria sui carrelli elevatori, mentre gli orchestrali, bardati di pesanti tute bianche – metà sacerdoti, metà astronauti -, suonano tra il pubblico. Tra il pubblico si muove anche la processione degli angeli della seconda scena (Engel-Prozessionen), sette cori immersi nella semioscurità, che intonano lodi al signore in sette lingue diverse e con sette diversi caratteri musicali. La terza scena (Licht-Bilder) è invece una grande evocazione del creato, affidata a un tenore e tre strumentisti che si muovono nell’acqua insieme a danzatori, fiaccolate, proiezioni in 3D di stelle, rocce, cristalli, fiori che germogliano in una vegetazione rigogliosa, straordinarie metamorfosi di animali, farfalle e matasse di serpenti, e alla fine un sole che irradia la sua luce accecante. La quarta scena (Düfte-Zeichen) ricapitola i sette giorni della settimana attraverso simboli esoterici, fuochi, incensi che invadono di profumi tutta la sala, e una coltre di acqua nebulizzata che fa da schermo per alcune proiezioni. E alla fine Michael-bambino (la voce bianca Leonard Aurische) si unisce in un commovente duetto col contralto (Noa Frenkel) e poi sale in groppa a un cavallo meccanico, luminoso che si allontana in volo. Sonntag si conclude con una scena sdoppiata (Hoch-Zeiten), due esecuzioni simultanee nelle due sale, in una l’orchestra suddivisa in cinque gruppi, nell’altra il coro che accompagna scene coreografiche che riprendono costumi e danze dei cinque continenti in un intreccio fantasmagorico di suoni, di luci, di movimenti. Un’impronta meno spettacolare ma più acutamente drammatica ha l’opera di Haas, che ha scelto come soggetto una vicenda angosciante, molto attuale, quasi un fatto di cronaca: il libretto di Händl Klaus racconta la vicenda di una studentessa, Nadja Albrecht che mette in vendita la casa dove vive da sola dopo la morte dei genitori. Un agente immobiliare, Axel Freund, la mostra ai potenziali acquirenti, ma l’arrivo di alcuni vicini innesca un improvviso, inarrestabile crescendo di tensione: si scopre che la casa è abitata dai fantasmi dei due genitori, che la madre si è suicidata dopo aver ucciso suo marito, e che questi in passato aveva abusato della figlia. Una storia di fantasmi che evoca vicende recenti della cronaca austriaca, storie di abusi e di incesti come il caso di Natasha Kampush o quello di Elisabeth Fritzl, la ragazza che visse per 24 anni segregata e violentata dal padre in una cantina. Haas (che è stato allievo di Gösta Neuwirth e di Friedrich Cerha, e che oggi è tra i più grandi compositori austriaci viventi) ha giocato abilmente con le frasi brevissime, spezzettate del libretto, e le ha trasformate in una conversazione concitata, in un inarrestabile flusso ritmico. Anche lui ha fatto ricorso alle voci parlate di 13 attori, ma le ha intrecciate in maniera assai complessa e sofisticata con quelle di quattro cantanti (Nadja, i fantasmi dei suoi genitori, l’agente immobiliare), creando una miscela virtuosistica, crepitante di parole recitate, parole cantate, suoni di percussioni e dell’orchestra. Una musica raffinata, fatta di ampie armonie spettrali (mai opera fu più spettrale di questa!) ma punteggiata da elementi tonali, anche descrittivi, da meste monodie, continui glissandi, fitti concertati vocali, con un agghiacciante climax nel duetto tra Nadja e Axel, rimasti soli in casa dopo le drammatiche rivelazioni: una scena di sesso che avviene sotto gli occhi del padre, invisibile, al quale la giovane donna, al culmine dell’orgasmo, si rivolge con un grido straziante («Vater»). Nelle belle scene di Martin Kukulies (una casa su due piani, geometrica, minimal, fatta di strutture di acciaio e vetri satinati che permettevano un variegato gioco delle luci di Klaus Weise), gli attori si muovono con grande naturalezza, aumentando così il “tasso di teatralità” dello spettacolo di Klaus Weise.

E in Italia? Dopo anni di stagnazione, di indifferenza da parte delle istituzioni musicali nei confronti del nuovo repertorio operistico, qualcosa sembra Vacchi_Lo_setsso_Maremuoversi. I compositori non sono mai mancati, anzi sono tra i più ricercati dai teatri d’opera in tutta Europa, sia quelli già affermati (come Salvatore Sciarrino o Giorgio Battistelli), sia quelli emergenti (come Oscar Bianchi che farà il suo debutto operistico al prossimo festival di Aix-en-provence). Ma le commissioni da parte dei teatri d’opera nostrani hanno sempre latitato. Quest’anno, per una strana congiuntura astrale (o forse complici le celebrazioni dei 150 anni) si sono viste (e si vedranno) numerose prime mondiali, distribuite un po’ su tutto il territorio: la nuova opera di Luca Francesconi alla Scala di Milano, quella di Luca Mosca al Maggio Musicale di Firenze, quella di Fabio Vacchi al Petruzzelli di Bari, quella di Alessandro Solbiati a Torino. Né mancano le presenze giovanili: a Siena, a luglio andrà in scena la nuova opera di Silvia Colasanti, Faust (da Pessoa), con la regia di Francesco Frongia, l’Icarus Ensemble diretto da Gariele Bonolis, e il soprano Laura Catrani; a Pisa è già andata in scena la prima italiana dell’opera N.N. Sulla morte dell’anarchico Serantini di Francesco Filidei. E sempre la risposta del pubblico è stata estremamente positiva. L’accoglienza entusiastica dell’opera di Filidei è anche legata al soggetto, che sembra intercettare molti dei malesseri giovanili in Italia. È la storia di un ragazzo, appena ventenne, che partecipa a una manifestazione, viene arrestato, incarcerato, pestato a sangue. Viene trovato in coma nella sua cella, e il giorno dopo muore. I funerali vedono una grande commossa partecipazione popolare, ma poi le indagini sulle responsabilità della morte vengono archiviate. È la storia di Franco Serantini (nato nel 1951, morto a Pisa nel 1972) già raccontata nel bel libro di Corrado Stajano (Il sovversivo, Einaudi 1975) e trasformata da Filidei in un’opera già eseguita a Montecarlo e a Strasburgo, e che il prossimo autunno approderà a Roma con una nuova regia di Denis Krief. Il libretto di Stefano Busellato è un testo evocativo, minimalista, frammentato, fatto di ripetizioni e allitterazioni, un testo in cui si intrecciano l’italiano, il latino e il sardo (Serantini era nato a Cagliari, e anche il compositore pisano è di origini sarde, da parte di madre). Filidei (nato nel 1973, studi al Conservatorio di Firenze e poi a quello di Parigi, allievo di Salvartore Sciarrino, apprezzato organista) ha messo in gioco sei voci (i NeueVokalsolisten di Staccarda) e sei percussionisti (l’ensemble Ars Ludi di Roma), e chiamato tutti gli interpeti ad agire sul palcoscenico come performer di un teatro totale, seduti di forte a due lunghi tavoli coperti da un drappo nero. La scrittura vocale, a tratti evanescente, fatta di soffi e sospiri, si intreccia con una trama delle percussioni estremamente varia, spesso fisica, violenta, DAS_LIED_VON_DER_ERDE_4861_photoHansHijmeringdi grande impatto drammatico, e che sfrutta un vastissimo campionario di percussioni – compresi tubi, lastre di metallo, richiami di uccello, flauti a coulisse, fischietti, cuscini, palloncini, e strumenti giocattolo, come quelli che riproducono versi di animali. Tutto intessuto insieme con grande musicalità, e uno stile personale, non privo di ironia, che imprime a N.N. una carattere rituale, quasi da sacra rappresentazione. Delle tre parti principali, che si alternano con due intermezzi e due ninna nanne, la prima (Manifetazione) evoca uno scenario di scontri, con suoni di sirena, fischietti, e passi pesanti che riecheggiano al passaggio di un plotone; la seconda (Carcere) è concepita come il momento dell’ultima cena, con gli interpreti che tirano fuori stoviglie, padelle, un flauto di pan fatto di bottiglie, disegnando un ordito sonoro un po’ sinistro, «come un percorso all’interno della mente e del corpo martoriato di Serantini, con riferimenti evidenti alla Passione»; l’ultima (I Funerali dell’Anarchico Serantini) è una lunga scena agghiacciante, senza voci, un gioco ritmico con le mani che battono violentemente sul tavolo, mentre sulla scena scende lentamente il buio. Certo, l’opera di Filidei è una chicca per buongustai, che è stata molto applaudita ma della quale si è parlato poco. Colpisce invece la copertura mediatica che hanno avuto le opere di Francesconi e di di Vacchi (compositore che è stato invitato anche nel salotto di Fabio Fazio) a dimostrazione di un interesse crescente per l’opera d’oggi, anche se per adesso si tratta di fenomeni episodici, e solo col tempo si potrà dire avranno contribuito a svecchiare la cultura musicale italiana, così ancorata alle tradizioni.

Due opere che sono anche emblematiche di due vedute estetiche assai distanti, ma entrambe, ancora una volta, ancorate a un importante testo letterario. Quartett di Francesconi si basa sull’omonimo lavoro teatrale di Heiner Müller, a sua volta ispirato alle celebri Liaisons Dangereuses di Choderlos de Laclos. «Quartett di Müller – dice il compositore – è una miniera, è un testo di una densità straordinaria. Mi ha convinto soprattutto perché dietro il gioco erotico nasconde una sorta di metafora della nostra civiltà. Ci sono due personaggi, la marchesa de Merteuil e il visconte di Valmont che con un atteggiamento razionalista, tipicamente occidentale, cercano di abolire l’amore, i sentimenti, tutto ciò che non è controllabile, applicando così un sistema di tipo bellico-economico anche ai rapporti umani. Peccato che questa grande struttura razionale a un certo punto si riveli impotente di fronte a un semplice fatto: il guardarsi allo Quartett_259__DSC1858specchio e vedere la decadenza del corpo. A quel punto i due impazziscono, diventano crudeli, delle bestie feroci». Francesconi ha giocato sul continuo scambio di ruoli dei due personaggi (che ne interpretano quattro), sulle loro mille sfaccettature, sulla loro capacità di sedurre, di fare sesso, ma non di amare: «In fondo sono un ritratto del mondo occidentale, troppo spesso incapace di guardare al di là di se stesso». Oltre alla polifonia insita in questo tipo di teatro, ha poi colto la dimensione metateatrale del testo di Müller trasformandola in un’originale invenzione insieme scenica e musicale: «Avendo a che fare con un testo che è un gioco di specchi, ho creato una serie di matrioske, una drammaturgia degli spazi basata su tre diverse dimensioni – e mi intrigava molto farlo alla Scala. C’è un livello interno, quello più claustrofobico, che ho chiamato IN (affidato a un’orchestra da camera in buca), nel quale noi osserviamo i due protagonisti come se fossero insetti in un terrario. Poi c’è il secondo spazio, intermedio, dove i personaggi hanno dei mancamenti, intuiscono che c’è anche un’altra dimensione che non è soggiogata alla volontà, una specie di inconscio, di ipnosi: è sempre l’orchestra interna che suona, ma diventa un mantra, con elementi un po’ meccanici che girano su se stessi, e danno la sensazione di un tempo bloccato.

Il livello esterno è il teatro del mondo, uno spazio veramente immenso, che ho chiamato OUT: grande orchestra con coro “in eco”, e il suono che si muove da lontanissimo, dal fondo del palcoscenico, viene verso di noi, passa sopra le nostre teste e poi se ne va dietro, come una specie di colore». La partitura di Francesconi mostra in effetti un grande sfoggio di abilità tecnica, come un’antologia di tecniche di scrittura orchestrale, capace di sfruttare appieno il dialogo l’ensemble in buca e la grande orchestra dietro il fondale. Francesconi ha anche usato apparati di trasformazione della voce (mirando a «un tutto in cui la drammaturgia nasce dal Dna dal libretto») e ha messo in gioco diversi stili che tendevano a sottolineare ogni diversa situazione teatrale e psicologica, ha cercato una dimensione esplicitamente operistica, alternando sezioni musicali nettamente differenziate, passando repentinamente da momenti siderali ad altri solenni, meditativi, oppure violenti e percussivi, o ancora a crescendo e di accelerazioni che alludono al coito. Ne risulta una trama densa, ricchissima, frammentata, spesso assai movimentata, nella quale emergono anche diversi stili vocali (dal canto appassionato, al declamato, alle arie di coloratura), affrontati con duttilità e grande presenza scenica dai due interpreti (Allison Cook, una vera scoperta, e Robin Adams). Peccato che questa grande profusione di mezzi musicali crei poi, complessivamente, un effetto di saturazione, e la mancanza di una chiara articolazione teatrale, anche di semplicità nella costruzione, di nitidezza nel taglio drammatico, faccia naufragare tutti questi dettagli in un flusso indistinto. L’allestimento, ancora della Fura dels Baus, coglie invece alla perfezione la “drammaturgia degli spazi” immaginata da Francesconi, e restituisce in maniera molto poetica anche la dimensione onirica, l’inconscio dei personaggi, con soluzioni di grande seduzione visiva, e tuttavia più sobri rispetto agli effetti spettacolari e pirotecnici ai quali ci ha abituato il gruppo catalano.

Die-Jahreszeiten-i--Opera-OT-501I personaggi agiscono in una piccola stanza sospesa, magicamente, a mezz’aria, in mezzo al palcoscenico, un parallelepipedo di tre tonnellate sostenuto da 250 cavi. Lì avviene tutto, anche i cambi di scena e di costume (in minuscole quinte stipate nelle pareti di quella stanza sospesa per aria). Intorno a loro le proiezioni mostrano gli stessi personaggi ingigantiti, i loro pensieri, i desideri di amore, i loro timori del disfacimento del corpo, corse veloci su ampie lande desertiche e grandi cretti (che alludono ancora all’invecchiamento del corpo) che creano l’illusione che quella stanza volasse, immagini en-ralenti dalla forza caravaggesca. E poi gli sguardi enormi che osservano i due protagonisti come fossero insetti. E un muro che si sgretola, mostrando, dietro, proteste di piazza, le rivolte nel Nordafrica, i volti dei profughi sui barconi, insomma il mondo reale che preannuncia il crollo finale del mondo di Valmont e della marchesa. Crollo che diventa reale nell’ultima scena (Francesconi ha sostituito il finale originale, con la scena di Ofelia dalla Hamletsmaschine, sempre di Müller) dove la stanza viene distrutta e sul fondale appare un cielo radioso. Molto satura è anche la musica della nuova opera di Vacchi, Lo stesso mare, che soffre in più di un’eccessiva lunghezza e di un problematico rapporto col libretto. Tratta dall’omonimo romanzo di Amos Oz, racconta la storia di una famiglia israeliana, vicenda di perdite e di attrazioni erotiche, una specie di girotondo alla Schnitzler (che Vacchi aveva già messo in musica nel 1982): un commercialista rimasto vedovo (Albert) ha una relazione con una matura fiscalista (Bettin) e con una ragazza (Dita), la fidanzata di suo figlio (Rico), che è partito per il Tibet, ma che si consola con un’esperta prostituta (Miriam). Dita, che vive il sesso con disinvoltura, va a letto anche con un quarantenne (Ghighi) e suscita le brame di un produttore cinematografico (Dobi), mentre la moglie di Albert (Nadia) si riaffaccia periodicamente sulla scena come un fantasma. Il libretto, scritto dallo stesso Oz, riprende non solo la vicenda ma anche lo stile del romanzo, quello stile misto di prosa e di poesia, insieme lirico e diaristico, che lo scrittore considera come la propria versione letteraria di un madrigale, e che aveva attratto immediatamente Vacchi. Peccato che la “musicalità” propria di quel testo sbiadisca nella trasposizione operistica, e diventi, quasi paradossalmente, il suo punto debole.

Bluthaus-0169Su questa vicenda non lineare, sospesa, priva di progressioni drammatiche, concepita come una trama di sensazioni individuali, molto intimistica, Vacchi ha costruito una grande opera in tre atti, ingegnandosi in tutti i modi per differenziare gli stili vocali dei singoli personaggi (dalla salmodia, all’aria di coloratura, agli echi di melodie yiddish e di canti di Muezzin), per ricreare sul piano musicale i continui slittamenti stilistici del testo. Ma questa simbiosi non ha funzionato. Le parole sembrano sempre troppe, anche per le frequenti ripetizioni, e stipate a forza dentro la musica, cosicché il canto spesso contrasta con l’oggettiva bellezza di alcuni passaggi orchestrali. Anche la presenza di tre narratori, che parlano in continuazione descrivendo ogni dettaglio dell’azione, se da un lato rappresenta una guida sicura anche per lo spettatore più sprovveduto, dall’altro appesantisce l’opera, appare ridondante e spesso inutilmente didascalica. La scrittura orchestrale mostr invece tutta la maestria di Vacchi: una musica costruita su un solido, collaudato impianto armonico, dalla densità variabile, ritmicamente complessa, intessuta di echi mediorientali e tardoromanici, di richiami operistici, di effetti klangfarbig, messi in risalto dall’ottima prova dell’orchestra del teatro, diretta da Alberto Veronesi. La regia di Federico Tiezzi cerca di imprimere dinamismo a una vicenda statica, con figuranti, mimi, acrobati in continuo movimento, schermi sui quali vengono proiettate le e-mail di Rico, il continuo saliscendi dei personaggi sulle lunghe scale rosse inventate da Gae Aulenti, che suddividono la scena in spazi diversi e distanti (che accentuano il senso di isolamento dei personaggi), su uno sfondo che cambia ad ogni atto: un mare raggrumato, con schiuma e uccelli di cartapesta, un deserto illuminato di colori diversi, e alla fine un prato fiorito che avvolge tutti i personaggi stendendosi anche in verticale.

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