I governi europei, grazie alla costante indecisione ed alla ricerca dei singoli interessi, si sono dimostrati impotenti di fronte ai capricci dei mercati finanziari. Al momento, infatti, le attenzioni di mezza Europa sono puntate su un organismo sovranazionale, la Banca Centrale Europea, ed in particolare sul suo governatore. Decifrare le reali intenzioni di Draghi sta diventando un gioco al massacro, per cui ad ogni dichiarazione in merito, proveniente da numerosi esponenti politici, le borse del vecchio continente iniziano a traballare pericolosamente. Il dato sconcertante è che nella grandissima maggioranza dei casi non è il diretto interessato a parlare: sono dunque le interpretazioni dei cosiddetti “segnali”, insieme alle conseguenti minacce, ad alimentare la sfiducia nell’intero sistema monetario europeo.
Ancora una volta l’Europa politica, imitando in tal senso una pessima abitudine nostrana, vede in un solo uomo da un lato l’unica speranza di sopravvivenza, dall’altro una probabile catastrofe del meccanismo economico dominante. In realtà il governatore Draghi, nonostante sia a capo di una delle istituzioni più potenti ed influenti del mondo, non dispone di strumenti altrettanto efficaci in termini di influenza sul futuro dell’Euro, almeno allo stato attuale dei Trattati. La BCE può certamente agire con vigore, correggendo alcuni squilibri e riportando un po’ di fiducia nel breve periodo, ma ciò che manca è la lungimiranza dell’intero progetto, di cui la politica è responsabile. Tirare per la giacchetta il governatore Draghi, facendo in modo che la BCE operi in favore di una o l’altra fazione, non rappresenta che un palliativo per mantenere in vita un sistema liberista, che sta inesorabilmente mostrando tutte le sue crepe. Per non cadere in questo gioco delle colpe, in cui si cerca di “esportare” le responsabilità politiche in un territorio neutrale come la BCE, diventa importante capire ciò effettivamente può fare Draghi, quello che alcuni vorrebbero da lui e soprattutto cosa altri non vorrebbero.
Alcune risposte sono arrivate proprio nelle ultime ore: in seguito alla riunione dei Direttori, la BCE ha finalmente sciolto la prognosi sugli interventi di acquisto dei titoli dei paesi “virtuosi” che si trovano in difficoltà. In altre parole, la Banca potrà comprare titoli in misura illimitata per calmierare i tassi d’interesse, giunti ormai a livelli insostenibili, a condizione che gli Stati richiedenti si impegnino a fornire adeguate garanzie. Le parole di Draghi hanno immediatamente prodotto una prevedibile iniezione di fiducia nei mercati, con lo spread relativo ai nostri titoli tornato sotto quota 400 punti, cosa che non accadeva dal maggio scorso. La decisione non è stata certo unanime e non è difficile intuire chi abbia votato a sfavore: la Germania alla fine ha dovuto cedere a quella ritiene una misura tipicamente “all’italiana”, nel senso che fa respirare uno Stato rinviando semplicemente una radicale soluzione del problema, ovvero la riduzione drastica del rapporto debito/PIL.
Non è certo un segreto il fatto che il governo italiano abbia portato avanti un pressing senza precedenti affinché venisse adottata tale soluzione, condizione necessaria al funzionamento del fondo salva-Stati. Il premier Monti, forte delle misure restrittive di bilancio messe in campo nell’ultimo anno, ha preteso una copertura da parte della BCE, in modo da non sprecare i sacrifici compiuti. La linea dell’alleanza mediterranea è molto semplice: la crisi debitoria europea è un fenomeno straordinario, che di conseguenza richiede interventi altrettanto straordinari se si vuole salvare la moneta unica. In questo quadro si giustifica l’intervento di Draghi, che rimane comunque all’interno dei limiti predisposti dai trattati. L’acquisto di titoli di debito sovrano da parte della BCE, infatti, non si configura come “aiuto di Stato”, a condizione che si operi su titoli con scadenza non superiore ai tre anni. Nonostante questo, un governatore “intransigente” non avrebbe approvato una misura del genere, perché costituisce un precedente: si erogano aiuti a Stati che per anni hanno gestito in modo pessimo i propri bilanci, giustificandone i comportamenti.
Si tratta appunto della linea tedesca, che ha fatto del contenimento dei conti pubblici il proprio cavallo di battaglia. È opportuno comunque ricordare che in questi anni di recessione la Germania, da una parte per meriti propri ed dall’altra per la speculazione internazionale, ha potuto rifinanziare il proprio debito a tassi irrisori, inferiori al 2%, mentre altri pagavano il triplo (Italia e Spagna) o dieci volte tanto (la Grecia). Inoltre, anche la Merkel sembra essersi convinta della scarsa convenienza complessiva di una fine dell’Euro, iniziando a cambiare il tono delle dichiarazioni. In settimana ha affermato che i mercati “non sono al servizio del popolo”: se anche la Germania si accorge dell’inefficienza del mercato, una volta considerato in grado di raggiungere da solo l’equilibrio aumentando il benessere collettivo, significa che qualcosa sta cambiando. Nonostante le ormai palesi intenzioni di salvare l’Euro, la cancelliera deve comunque scontrarsi con un’opposizione interna ferocemente anti-europea, che sta utilizzando la crisi finanziaria in chiave populista. Gli attacchi riguardano lo stesso governatore Draghi, colpevole di regalare i soldi dei contribuenti tedeschi a quei mascalzoni mediterranei, rischiando in tal modo di risvegliare il mostro più temuto in Germania, ovvero l’inflazione.
L’intervento della BCE sul mercato secondario dei titoli è senza dubbio opportuno, oltre che inevitabile: allo stato attuale, qualunque altra misura di taglio ai bilanci non avrebbe altro effetto se non quello di aggravare una recessione già pesante, che in Italia supererà a fine anno il 2% del PIL. Nonostante la solita euforia iniziale dei mercati, resta tuttavia da verificare l’efficacia dello strumento: non è chiaro infatti cosa si intende per “programmi concordati” d’intervento, ossia in che modo gli Stati richiedenti dovrebbero impegnarsi di fronte alle istituzioni comunitarie. La speranza di fondo sembra essere che nessuno abbia mai un effettivo bisogno di questi interventi, che semplicemente esistendo dovrebbero disincentivare la speculazione finanziaria. In tal senso, un ulteriore segnale arriva anche dall’apprezzamento del FMI, che si è detto pronto a partecipare ad eventuali finanziamenti, prospettando un rafforzamento della barriera.
Non si può comunque dimenticare che tali misure rimangono per definizione temporanee e limitate. I mercati attendono certamente risposte a breve sul fronte “tecnico”, ma nel lungo periodo servono piuttosto progetti politici, una volontà comune di stare insieme che fatica ad emergere: spetta ai leader europei, e non ai banchieri, costruire questa volontà.