Come la fucina di Saruman che fonde uomini con Goblin creando un esercito del male, le nostre carceri sono allo stesso modo una fabbrica del terrore. La degenerazione della funzione del carcere è tutta racchiusa nella banale ma significativa espressione “il carcere è l’università del crimine”. Frasi dure che sono riportate, nero su bianco sul dossier curato dal Direttore dell’istituto Superiore di Studi Penitenziari Massimo De Pascalis e pubblicato dal ministero della Giustizia.
Lo studio ci mette di fronte ad una realtà amara: la riforma del 1975 non è andata a buon fine, è rimasta “monca”, come tante riforme nel nostro Paese ed il risultato è che il fenomeno del proselitismo in carcere è allarmante.
Chi è il soggetto più a rischio? Secondo Giuseppe Simone, vicecommissario di Polizia Penitenziaria, il meccanismo di affiliazione fa presa sui soggetti più a rischio come i detenuti arabi più adescabili per l’inesperienza o per il disorientamento psicologico legato all’ingresso in carcere: l’attività di proselitismo affascina il detenuto comune, spesso isolato, asociale o dissociato.
Ma fortunatamente c’è sempre un risvolto positivo in tutto questo lavoro: conoscere il fenomeno significa combatterlo.
La pubblicazione dello studio, scrive ancora De Pascalis, punta a diffondere una prima conoscenza sul tema del proselitismo in carcere del terrorismo islamico e quindi come strumento di formazione per i dirigenti penitenziari e per i funzionari di polizia penitenziaria, educatori e assistenti sociali.
Ma questo, purtroppo è un fenomeno comune anche ad altri paesi europei.
La ricostruzione condotta da Francesco Cascini riporta che molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, non avendo manifestato particolari inclinazioni religiose al momento dell’entrata in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza degli altri detenuti.
Nel Regno Unito, in particolare, sembra che la legge islamica venga imposta all’interno delle carceri ad opera di gruppi detenuti fondamentalisti, attraverso l’influenza di altri detenuti oppure tramite visitatori esterni autorizzati per motivi vari come i colloqui familiari o l’assistenza religiosa. In particolare, in quest’ultimo caso, vengono introdotti in carcere testi di estremismo islamico o materiale di Al-Qaeda.
Sempre secondo Cascini sembra che in molti istituti di pena londinesi, molti detenuti siano costretti con la violenza fisica alla conversione all’Islam; inglese il caso di Abu Qatada, ispiratore di cellule estremiste in Italia e del cittadino inglese Richard Reid convertito in carcere da un imam estremista che svolgeva assistenza religiosa ai detenuti e diventato famoso come “shoe bomber”.
Ma esempi eccellenti si registrano un po’ ovunque, dalla Spagna agli Stati Uniti fino all’Italia, come quello di Domenico Quaranta che si convertì nel penitenziario di Trapani riarrestato nel 2002 per attentati incendiari nella Valle dei Templi e all’interno della metro di Milano. Quaranta, attualmente rinchiuso all’Ucciardone di Palermo, nonostante l’instabilità mentale riconosciuta e il basso livello culturale, conduce la preghiera dei detenuti per reati di terrorismo internazionale che gli hanno formalmente riconosciuto la figura di imam (colui che sta avanti).
Il monitoraggio dell’amministrazione penitenziaria, ha evidenziato che all’interno della popolazione detenuta di fede islamica, esistevano soggetti con ruoli ben precisi e definiti: dai leader, figure carismatiche, veri e propri Imam, ai promotori che si relazionano con le direzioni per avere locali volti all’incontro tra detenuti di fede islamica, ai partecipanti più o meno obbligati agli incontri.
L’attività di monitoraggio dell’amministrazione penitenziaria è continuata negli anni, arrivando ad una proficua collaborazione con il ministero dell’Interno iniziando poi nel 2008 a partecipare alle riunioni del Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo.
Il monitoraggio e lo studio hanno evidenziato come i terroristi islamici più pericolosi fossero ben integrati con appartenenti alla criminalità organizzata, alle nuove Brigate Rosse e all’area anarco-insurrezionalista, con la quale condividono soprattutto l’ideologia anticarceraria. A questo proposito Cascini ha sottolineato l’importanza fondamentale della formazione del personale che vive a stretto contatto con questi detenuti, a partire dalla conoscenza linguistica a quella culturale, per poter individuare il prima possibile i soggetti più pericolosi.
“Negli istituti italiani il rischio di un proselitismo finalizzato alla lotta armata è concreto” scrive Aureliana Calandro, vicecommissario di polizia penitenziaria, che porta l’esperienza di una donna comandante di Reparto malamente accettata da questo tipo di detenuti. “È difficile – scrive Calandro – per i detenuti legati alle tradizioni islamiche riconoscere l’autorità di un Comandante di Reparto donna, quindi per lei il compito si fa più difficile”, l’unica via d’uscita è “riconoscere allo straniero un’identità”, ascoltarlo senza pregiudizi.
I detenuti devono professare liberamente il proprio credo religioso e l’Amministrazione Penitenziaria ha il dovere di predisporre gli strumenti per rendere possibile questo esercizio, scrive il vice commissario Nadia Giordano. Ma non sempre questo è possibile, per carenza cronica di spazi all’interno delle strutture alla quale si aggiunge la difficoltà di accesso dei ministri di culto.
Numerosi episodi di cronaca, scrive Giordano, hanno avuto come protagonisti negativi imam di importanti città italiane che talvolta incitavano azioni violente, per questo il Dap è dovuto intervenire sull’ingresso negli istituti penitenziari dei ministri di culto di fede islamica.
Nonostante i musulmani rappresentino la seconda comunità religiosa per numero di fedeli, non è stata ancora stipulata alcuna convenzione tra lo Stato italiano e l’Islamismo, conseguentemente non è stato possibile per il Ministero dell’Interno procedere alla formazione di un elenco dei ministri di culto in questione e l’accesso viene consentito solo a chi ottiene di volta in volta il nulla osta della Direzione generale degli Affari dei Culti del Ministero dell’Interno. Questo però comporta che spesso la “direzione spirituale” all’interno degli istituti viene assunta da individui che si auto-investono che non sempre si rivelano affidabili. Con il paradosso che mentre all’esterno i momenti di preghiera sono fortemente controllati da parte di forze di Polizia, Aise e Aisi, questo non avviene per i detenuti che durante i momenti di preghiera possono dirsi e concordare ciò che vogliono.
“L’esperienza carceraria – conclude Giordano – costituisce spesso il primo elemento nella catena del processo di reclutamento dei terroristi. L’elemento psicologico ed emozionale di cui l’individuo è vittima entrando nel sistema carcerario è divenuto col tempo un fertile terreno per i reclutatori delle organizzazioni estremistiche islamiche, che nell’ambito del sistema carcerario hanno saputo col tempo costruire una poderosa rete di controllo e manipolazione”.
Meglio sarebbe, allora, prendere esempio dalla Francia che ha vietato la preghiera collettiva permettendo l’ingresso in carcere solo agli imam scelti direttamente dall’Amministrazione penitenziaria.
In tema di prevenzione, un altro consiglio arriva dalla vicecommissario di polizia penitenziaria, Melania Quattromani: evitare un’eccessiva concentrazione di detenuti di fede islamica nella stessa sezione (al contrario di quanto invece tendono a fare gli stessi detenuti islamici). Infine, per svolgere un’efficace opera di prevenzione dei fenomeni di radicalizzazione violente, secondo Quattromani (convinzione dello stesso direttore De Pascalis), occorre fornire un’adeguata formazione per il personale di polizia penitenziaria.
Tra le possibili azioni di contrasto, secondo il vicecommissario di Polizia Penitenziaria, Pasquale Spampanato, occorre una stretta sinergia delle varie agenzie addette alla sicurezza e all’intelligence. Per quanto riguarda la prevenzione bisogna poi tenere presente, sempre secondo Spampanato che l’Islam e la religione in senso lato possono essere una risorsa per contrastare forme di fanatismo e di estremismo che portano alla radicalizzazione violenta. Ma soprattutto in questa difficile battaglia, conclude Spampanato, l’istituzione penitenziaria non va lasciata da sola.
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