Il Rapporto Italia dell’Istituto Eurispes, presentato giovedì a Roma nella sala conferenze della Biblioteca Nazionale, non ha mancato anche quest’anno di suscitare commenti e dibattiti nell’ambiente politico.
Se il Rapporto, giunto ormai al 25° volume, ha storicamente rappresentato una spina nel fianco per la nostra classe dirigente, costretta a fare i conti con la cruda verità delle indagini scientifiche, questa volta la pubblicazione arriva nel bel mezzo di una campagna elettorale estremamente delicata. I politici, dunque, hanno tutto l’interesse ad utilizzare dati, sondaggi, riflessioni per danneggiare l’immagine dei rispettivi contendenti, approfittando della riconosciuta validità scientifica del lavoro. D’altra parte il presidente dell’Istituto, Gian Maria Fara, nelle sue considerazioni generali non ha certo offerto la sponda ai partiti, criticando apertamente l’operato della nostra classe dirigente nel suo complesso senza risparmiare nessuno. Citando il sociologo Franco Ferrarotti, il Presidente ha sintetizzato perfettamente l’intento dell’opera ed il rapporto con chi governa: “il ricercatore non deve produrre soluzioni, ma deve sollevare problemi e noi a questo insegnamento ci siamo attenuti. Le risposte alle domande che costruivano le nostre ricerche sono state sempre tardive, insufficienti, inadeguate. Quando ci sono state”.
Nella stessa giornata di giovedì, a tenere banco tra i media nazionali sono stati i dati più eclatanti pubblicati dall’Eurispes, rimbalzati tra un’agenzia e l’altra e commentati da diversi esponenti politici. Dopo il sondaggio sul gradimento degli italiani rispetto alle istituzioni, i cui risultati erano stati anticipati già la scorsa settimana e che mostrato un nuovo record storico in termini di sfiducia, salita bel oltre il 70%, le notizie (o le conferme) più sconcertanti sono arrivate in merito alla condizione economica delle famiglie. Una su tre, secondo i dati raccolti dall’Istituto, trova difficoltà ad arrivare alla fine del mese, nonostante l’incredibile flessione dei consumi. Anche il tema del lavoro ha ottenuto grande risonanza, viste le statistiche sconfortanti in merito ad occupazione e salari. Non stupisce, dunque, che l’attenzione si sia concentrata su queste problematiche, certamente significative per il paese, specie nel corso di una campagna elettorale. Altri temi sono stati ripresi da organizzazioni o media specializzati, per esempio per quanto riguarda l’utilizzo di nuove tecnologie e social network oppure i dati relativi agli animali domestici. L’opera, tuttavia, copre numerosi aspetti del tessuto economico e sociale italiano, anche se alcuni di essi non hanno ottenuto il giusto risalto, nonostante la grande significatività.
Un contributo estremamente interessante riguarda la condizione delle donne nel mercato del lavoro ed in particolare nelle Pubbliche amministrazioni. I dati mostrano che nel complesso la componente femminile è nettamente maggioritaria (il 55% del totale): in 15 regioni su 21 le donne sono la maggioranza, specie nei comparti dediti alla cura della persona, come la sanità e l’istruzione. Percentuali ancora molto basse, spesso al di sotto del 20%, si registrano nei settori tradizionalmente maschili, quali le forze dell’ordine e l’esercito. A livello dirigenziale, il cosiddetto “spread di genere” assume proporzioni quasi imbarazzanti, in quanto le posizioni sono occupate per il 64,5% da uomini. Tale scenario sembra essere dettato dal mancato sradicamento negli anni di vecchi stereotipi, che attribuiscono alle donne un rango inferiore rispetto ai loro colleghi, nonostante il loro livello di istruzione sia notevolmente più elevato. In termini di personale laureato, infatti, le donne rappresentano il 47,5%, contro il 23,6% degli uomini, nonostante le cariche e gli stipendi siano mediamente più bassi. Alla luce di tali circostanze, risulta evidente l’incapacità della macchina pubblica di premiare il merito, visti i livelli formativi. D’altra parte, secondo il sondaggio sull’occupazione femminile svolto dall’Eurispes, più della metà delle donne non è soddisfatta della propria retribuzione, mentre il 63% non è pienamente soddisfatta delle possibilità di carriera.
Altro approfondimento di notevole rilevanza è quello relativo alla questione della separazione, con un particolare riferimento alla questione della paternità. In Italia, sono 170mila le persone che si separano e spesso sono coinvolti dei figli. Il lavoro descrive gli effetti della riforma in materia di affidamento introdotto attraverso la legge 54 del 2006 che, nonostante le intenzioni del legislatore, si è trasformata in un boomerang per moltissimi padri italiani. L’obiettivo era contrastare il vecchio sistema di affido monogenitoriale, in modo che i figli potessero continuare a mantenere rapporti stabili con entrambi i genitori. A sei anni dall’introduzione della nuova normativa, tuttavia, l’affido condiviso rimane un semplice pro-forma, in quanto le esigenze sociali, quali ad esempio la scuola, richiedono ovviamente l’individuazione di un domicilio fisso per i figli. Dal punto di vista del padre, se prima le speranze di ottenere la custodia dei figli erano già minime (succedeva in media nel 14% dei casi), ora è diventato quasi impossibile (0,8% dei casi nel 2012), a meno che non risultino evidenti problematiche che coinvolgono la madre. Gli strumenti per combattere le “ingiustizie” compiute da un genitore durante l’affidamento, inoltre, sono rimasti esattamente gli stessi. Il tutto è aggravato dai tempi biblici della giustizia italiana, per cui occorrono diversi anni affinché la vicenda si concluda, almeno in primo grado. Guardando all’Europa, che più volte ha ripreso l’Italia proprio a proposito delle lungaggini giudiziarie, si potrebbe prendere esempio dai meccanismi di giustizia alternativi, molto più veloci ed efficienti: spesso si dimentica che al centro delle dispute ci sono bambini e adolescenti, ai quali non fa certo bene aspettare anni per capire come finirà tra i genitori.
Al tema precedente si ricollega, in parte, un interessante sondaggio sull’etica nella società italiana: l’86% degli intervistati è infatti favorevole all’introduzione del cosiddetto “divorzio breve”, sintomo che attendere diversi anni non conviene a nessuno. Il 77% degli italiani si dice anche a favore del riconoscimento delle coppie di fatto, il 79% opterebbe per la fecondazione assistita in caso di necessità e ben il 63% si dichiara favorevole nei confronti della pillola abortiva. Un aumento importante riguarda anche l’eutanasia, i cui consensi crescono del 14% rispetto allo scorso anno, attestandosi al 64,6%. Questi primi dati dimostrano una sorta di evoluzione laica dei cittadini rispetto a temi sensibili e sottoposti all’influenza di diversi fattori, politici e religiosi. Osservando la distribuzione geografica, la maggioranza dei pareri favorevoli rispetto a tutte le questioni si riscontra al Nord, escluso il riconoscimento delle coppie di fatto, che raccoglie consensi soprattutto al Centro (circa l’81%). Interessante anche il dato sull’appartenenza politica degli intervistati, che fotografa una situazione molto meno polarizzata rispetto ad altre tematiche, come ad esempio in merito a giustizia e fisco. Se da un lato non stupisce che larga parte dei fautori di tali questioni di dichiarino di sinistra, occorre sottolineare che anche negli altri schieramenti la maggioranza è favorevole a tutte le istanze, seppur in misura minore: basti pensare che il 51% di coloro che si dichiarano di centro è favorevole all’introduzione della pillola abortiva.
Eurispes, 25° Rapporto Italia – sintesi