Il teatro di Maria Pia Daniele nel precorrere i tempi – per temi e stili – ha rinnovato e tracciato filoni che ancora oggi registrano grande interesse e successo. Rodolfo Di Giammarco l’ha definita la Cassandra del nostro teatro.
La Trilogia sulle donne del Sud, tra cronaca e mito, raccoglie Faide del 1987, la prima Antigone contro la mafia del 1993 de Il mio giudice, e il più recente Cattive madri. Nei luoghi che un tempo furono della Magna Grecia, dove il mito sopravvive alterato, deteriorato, nella carica violenta delle relazioni familiari retrive e nella crisi dei valori, una potente tradizione dura a morire si scontra con le regole della coscienza civile. Protagoniste le donne, depositarie dei disvalori e della mentalità patriarcale, o eroine del rinnovamento, volte al futuro e al rispetto delle regole della coscienza civile.
Del nuovo libro di Maria Pia Daniele, edito da La Mongolfiera, proponiamo di seguito la presentazione dell’autrice.
DONNE DEL SUD – TRILOGIA
Presentazione dell’autrice
Il nostro Mezzogiorno è fortemente caratterizzato da un intreccio tra vecchio e nuovo, le gravi disfunzioni sorte nel brusco passaggio da un’economia rurale ad un’atipica modernizzazione lo limitano da tempo. Le ragioni di ciò affondano in ritardi nello sviluppo economico, immobilismo, corruzione, crisi del mercato del lavoro, esodo e inurbamento selvaggio, senza dimenticare il radicamento nel territorio di ben quattro associazioni criminali organizzate. Tuttora solida appare la tradizione patriarcale,appunto collegata ai codici della mafia, e alla faida; gli effetti di antichi nodi irrisolti gravano in modo pressante sulle comunità, si ripercuotono sugli individui e sulle loro condizioni di vita. I testi della Trilogia rappresentano questo particolare contesto e vedono come protagonista la donna – sia essa madre, moglie, sorella – perno della famiglia, regolatrice delle pulsioni del maschio, e a lei attribuiscono, nel bene e nel male, grande responsabilità.
In «Faide[1]» c’è quel che resta di due famiglie “costrette” a distruggersi: da una parte la vittima predestinata, Maria Mannoia, una giovane che tende ad emanciparsi all’interno di un piccolo paese; dall’altra Michele, una sorta di Oreste dei nostri giorni che per sfuggire alla faida è cresciuto in una grande città del Nord, ma anela ad aver radici, così torna da straniero nella sua terra, con la palese incapacità, tutta nuova, moderna, di condividere e quindi sottostare alle leggi del sangue che le sorelle – Vincenza, Nunzia e Leonarda Femìa, un’Elettra ripartita in tre – vorrebbero imporgli. «Faide» è anche il dramma di queste donne arcaiche, fatte di terra e di sangue, tragiche datrici di morte, oscure e luttuose, senza padri né madri o talamo nuziale, vivono sottomesse ad un’autorità maschile astratta, chiuse in uno spazio privato accessibile solo ai consanguinei, dove i morti sembrano notificare la condizione dei vivi. Il contrasto tra Michele e le sorelle non è solo psicologico e morale. Li divide uno iato culturale profondo sebbene il senso comune dell’appartenenza a un clan oppressivo e violento – evidenziato fin dal titolo «Kissaros»[2] in dialetto calabrese-grecanico della versione originaria – li stringe e li sovrasta come una spira.
Eppure, nella dialettica del mutamento e nell’erodersi delle tradizioni, di fronte al rifiuto del maschio a compiere l’ultima vendetta, la violenza delle sorelle Femìa dirompe, al punto da infrangere le regole stesse della faida. Quest’atto di tracotanza risulterà loro fatale, e finiranno col restare esse stesse vittime di un ruolo. Il sacrificio di Michele svelerà poi la mostruosità dell’intera vicenda.
La “necessità” di vendicare il sangue con il sangue coinvolge sempre nuove generazioni, senza apparente possibilità di scampo. A scatenare le reazioni di un’ira distruttrice, a trascinare l’individuo verso propositi irrazionali di rappresaglia – peraltro immediatamente raccolti dal clan o dalla sua cerchia, e perpetrati in modo esponenziale dalle opposte fazioni -, sono gli sgarri all’onore, il narcisismo ferito per un’offesa personale, per uno sguardo di troppo, o l’umiliazione subìta per dileggio, come nel caso di una vendetta partita da San Luca, paese della Locride, ed esportata, per così dire, fino in Germania, nel 2007 a Duisburg. Il movente di questa faida, che ha provocato una ventina di omicidi, si può far risalire a un atto gratuito ritenuto irriverente: una manciata di coriandoli di Carnevale gettati per ischerzo. È inoltre significativo constatare quanto le faide, che pure risultano decisamente accorpabili alle cosche dilagate nel frattempo all’estero, possano prescindere oltremodo dalle potentissime mafie, sfuggendo talvolta al loro controllo: sempre a Duisburg, infatti, neppure la cupola è riuscita a fermare l’ennesima esecuzione, mentre resta sintomatico il fatto che nell’eccidio si trovino pesantemente coinvolte proprio le donne.
Il fenomeno delle faide comunque travalica i confini del nostro Sud e i molti angoli del Mediterraneo, per certi versi va ad interessare altri raggruppamenti, e numerose etnìe segnate da duraturi conflitti religiosi e territoriali.
[1] Faide (Kissaros) scritto nel 1987, finalista al premio G. Fava (Roma, 1991), vince il premio del XVI Festival del Teatro Italiano, tra gli interpreti Lorenza Indovina, Margherita Patti, Antonio Manzini, regia di Giuseppe Dipasquale (Roma, 1994); è selezionato da Giorgio Albertazzi per Taormina Arte (1995); in America viene allestito da The Pirandello-Brecht Project e in inglese pubblicato da Gradiva International Journal of Italian Literature (New York, 1996); presentato con il Teatro Metastasio in collaborazione con le edizioni Ricordi (Prato, 1996); è messo in scena dall’Ente Teatro Cronaca con due allestimenti, il primo vince il premio “Vesuvio d’Oro” della Regione Campania con la regia di Ruben Rigillo, interpreti Anna Teresa Rossini, Danilo Nigrelli, Irma Ciaramella (Teatro Nuovo, Napoli, 1997), il secondo è diretto da Michele Del Grosso, tra gli interpreti Imma Villa (Napoli, 2003); è sostenuto dall’Istituto Luce per uno sviluppo cinematografico.
[2] Edera in greco, evocante il piccolo arbusto sempreverde cistaceo da cui essuda una sostanza resinosa molto aromatica, il làdano, detto anche ombra nera, attecchisce facilmente ed è diffusissimo tra le rupi e i declivi del Mediterraneo. In questa versione la lingua grecanica delle sorelle Femìa si contrappone maggiormente all’italiano del personaggio di Michele, che si colora invece di inflessioni nordiche, se non straniere. Anche per il progetto cinematografico viene conservato questo bilinguismo, in una ambientazione contemporanea in Germania.
Scritto in versi sciolti e nei modi di una tragedia classica nel 1993, all’indomani degli attentati ai giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, «Il mio giudice»[1] si ispira alle vicende della testimone di giustizia Rita Atria, morta suicida a soli 17 anni la settimana successiva all’uccisione del “suo giudice” Borsellino. Per restituire alla giovane di Partanna un’altezza di eroina ne ho fatto una novella Antigone. Nel conflitto irriducibile tra la virtù civile di Rita e il potere mafioso, due forme di legge si contrappongono come nella tragedia classica. Ho raffrontato cronaca e mito, passato e presente. Il mito è come deteriorato nel contesto corrotto, nella crisi delle Istituzioni il senso delle cose ormai è capovolto, la morale comune aderisce alle “regole” della mafia. Rita, invece, le trasgredisce. Con le armi della ragione, con grandissimo coraggio la giovane fa una scelta che scaturisce dal più profondo della sua natura, la manterrà con fermezza, diventando così Antigone, e opponendosi al coro di uomini, ma soprattutto a quello delle donne. Violare le consuetudini a cui dovrebbe sottostare, sfidare la mafia, rifiutare la mentalità omertosa del paese fino alla morte, ne fa appunto una eroina tragica del nostro tempo.
La vicenda è ambientata nei luoghi della cronaca, a Palermo tra le macerie dell’attentato di via D’Amelio, dove avanza quale messaggero l’onorevole Ayala, e in una località simbolica, le mura di casa, dove usualmente i panni sporchi si lavano se “necessario” anche col sangue. Proprio qui ha luogo un corpo a corpo tra Rita e il coro delle donne che vorrebbe indurla al silenzio. Dunque l’eroe tragico si ritrova dinanzi un coro colpevole. Sua madre è tra le ferme depositarie e strenue custodi del codice d’onore; in scena è personaggio volutamente muto giacché, più delle parole, sono le azioni distruttive che ella compie ed esercita sui congiunti ad esprimere i disvalori dell’arcaico, così purtroppo è avvenuto anche nella realtà[2].
[1] Il mio giudice è stato tra i primi testi ad inaugurare il rilancio, negli anni Novanta, del teatro di impegno civile; è stato scelto da Tankred Dorst a rappresentare l’Italia al Festival Internazionale di Drammaturgia Bonner Biennale (Bonn, 1994), dopo il debutto a Torino nel 1993. Tradotto in russo con l’Eti è allestito dalla Compagnia Stabile di Kaliningrad (Tilsit, 1995). È premiato all’Ugo Betti nel 1999. Nel 2000 ne viene realizzata da RAI International una versione televisiva dal titolo La ragazza infame adattata dall’autrice, regia di Gigi Dall’Aglio, interpreti Elisabetta Pozzi, Francesco Siciliano e gli attori del Teatro Stabile di Parma, va in onda in America e in Australia nel 2000 e nel 2002, è anche trasmessa da Radio RAI per “Teatri sonori”. Diretto dall’autrice nel decennale dell’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino debutta alle Orestiadi (Gibellina, 2002), viene trasmesso da “Radio Suite” per Radio RAI, riceve il sostegno dell’Associazione Nazionale Magistrati di Palermo, partecipa alle Celebrazioni Leopardiane (Ville Vesuviane, 2009), è presentato all’evento del Teatro di Roma per il ventennale della strage di Capaci (India, Roma, 2012); si avvicendano come interpreti Almerica Schiavo, Sara Bertelà, Roberta Caronia e Leonardo De Carmine. È libretto d’opera al Piccolo Regio di Torino nel 2008 con musiche di Fulvio Di Castri, interpreti Lidia Miceli e Valter Malosti, che ne cura anche la regia. Ha partecipato a varie rassegne tra cui “Un palcoscenico delle donne” a cura di Franca Rame e Dario Fo (Teatro Pierlombardo Milano, 1994), “Perle” (Sesto Fiorentino, 2003), “I teatri della Legalità” (Teatro Garibaldi, S. M. Capua Vetere, 2008), “La Sicilia di Paolo” del Teatro Stabile di Catania (Anfiteatro Catania, 2012). Nel 1993 “Green” di RAI Tre, nel 1994 “Mixer” di RAI Due e nel 2011 GR Parlamento RAI dedicano a Il mio giudice uno speciale. A tutt’oggi è allestito da numerose compagnie, anche con l’adesione di Don Ciotti e il patrocinio di Libera (Teatro Manzoni Pistoia, 2014).
[2] Se in Teatro ho potuto garantire a questa ragazza coraggiosa un’estrema vittoria, preservando la sua identità e tramandandola al pubblico sulla scena, altrettanto non si può dire ciò sia accaduto nei fatti. Dopo la sua morte, un gruppo di donne e giornaliste accompagnò il feretro da Roma al piccolo cimitero in provincia di Trapani, ma la lapide fu poco dopo distrutta a martellate dalla madre di Rita, la punizione pubblica per una “ragazza infame”: di nuovo donne contro donne e, ancora una volta, la responsabilità di quelle che, nell’indifferenza generale, misurano il proprio potere notificando la condizione dei parenti, dei vivi, come dei morti. Assurdamente, quella di Rita Atria è rimasta una tomba senza nome per venti lunghi anni e solo di recente al decesso della madre la giovane ha avuto una degna sepoltura. (nda)
Su questo humus vischioso, immerso nella stasi secolare, si stagliano, come sul nero la madreperla, la chiarità di Rita, il suo luminoso pensiero, irrompono la sua forza, la sua dignità, l’essenziale verità e tracciano segni profondi. La giovane donna, pur costretta a fuggire dalla sua terra, continua a combattere confidando nei principi della Legalità e dello Stato, sostenuta dall’esempio luminoso del giudice Paolo Borsellino; poi, nello spazio scarno del forzato esilio, a Roma, si consuma la tragedia. Quando il “suo” giudice viene ucciso, Rita è indotta al gesto più disperato che nella mia opera assume il significato catartico di un’estrema denuncia per cui ella resta tuttora simbolo di una Sicilia e di un’Italia che vogliono cambiare.
Ancora donne protagoniste in «Cattive madri»[1]. Il testo che completa la Trilogia è ambientato in una comunità apparentemente normale e nella crisi di questi giorni. Nel disagio economico, incrinato un equilibrio, la famiglia finisce con l’isolarsi, e la forza del gruppo parentelare rischia di esaurirsi incontrollata, implode in relazioni domestiche perverse. La società civile allarga le proprie maglie, e sta a guardare…
Il tono stavolta è grottesco, leggero, da presa diretta, scelto per raccontare anche il miscuglio nocivo a cui si giunge quando gli elementi più retrivi della cultura contadina si amplificano e si esaltano a contatto con quelli più futili ed esteriori imperanti nella società metropolitana. Sebbene l’azione si svolga in una grande città che ha conosciuto con uno sviluppo industriale anche una massiccia emigrazione, e per quanto il quartiere dove Anna vive assomigli a qualsiasi altra zona periferica settentrionale di oggi, ci troviamo in effetti ancora una volta al Sud, stavolta nei pochi metri quadri di una portineria adibita ad abitazione. Anna, la mala mater è una bizzarra popolana meridionale inurbata da tempo ma mai integratasi al Nord; abbandonata dal marito, ha disamorato la figlia femmina Ivana allevandola secondo i dettami della società dei consumi, peraltro praticati da questa senza freni assieme all’amica Susy; ed ha intessuto un’amorosa tela attorno al figlio maschio Guido, un artista su cui ella deposita forti aspirazioni di riscatto. L’uomo, per ovviare alle difficoltà economiche, ha deciso di trasferirsi a casa della madre, con il figlio neonato e la compagna Erminia, una borghese nevrotizzata da un difficile maternage.
Sono deboli ormai i legami con la sua terra di origine, per non dire del tutto smarrito il fondamento degli antichi retaggi mutuati dalla cultura popolare contadina, eppure Anna con allucinatoria, pagana convinzione vi fa appello per avvantaggiare i suoi cari e proteggerli propiziatoriamente da oscuri presentimenti. Non esita a ricorrere a tutto un prontuario da rituale: dai proverbi agli scongiuri, a formule segrete tramandate, impiegando anche un folto campionario di erbe, oggettini e animali per pratiche riparatrici, insomma ella assume il magico e nel tentativo di superare le avversità non si fa scrupolo alcuno, perfino di eseguire, sui parenti acquisiti o sugli affini, sortilegi che potrebbero risultare letali. Dapprima Erminia, spinta da una curiosità da entomologo e attratta dalla forza dei vincoli affettivi della famiglia di Guido, si avvicina all’instancabile e piena di abnegazione Anna; cerca di comprenderla e con un senso spontaneo di solidarietà vorrebbe pure appoggiarla contro il dispotismo filiale, ma le divergenze tra le due, a cominciare dal quotidiano, si dimostrano incolmabili; impensierita, poi, da un’affettività che si fa via via sempre più soffocante (carica di pathos com’è quella della suocera), e tormentata dai più pesanti sospetti, diventa nei confronti di Anna assai diffidente; ma quando Erminia giunge a scoprire l’insolita natura dell’amore che lega madre e figlio, una dipendenza reciproca, ormaila violenza si è insinuata nella casa. Riemergerà allora dal passato una figura che sembrava sparita per sempre, a nulla serviranno pozioni, formule magiche e intrugli, quando toccherà alla cattiva madre chiudere il cerchio incantato.
[1] Cattive madri, scritto per il teatro nel 1993, è finalista al premio Fondi-La Pastora nel 1995; la versione qui pubblicata è quella del radiodramma vincitore del premio RAI e Unesco Microfono di cristallo (RAI di Firenze, 2008). Nel comporre il testo mi sono ispirata anche all’opera Le cattive madri di Giovanni Segantini, in cui il pittore ha fissato l’ambiguità del rapporto esclusivo, sensuale, tra madre e figlio. (nda)
Sempre sui temi della Trilogia, questa esplorazione mi ha condotta da una parte nei vicoli di Napoli della mia città e dall’altra, spingendomi molto più a Sud in Nordafrica. A Napoli ho ambientato «Regine 416 bis»[1], una commedia nera che prende spunto dalla cronaca[2], con femmine camorriste sovrane della stabilità del delinquente, o regine del sentimento che – per una tralignata forma di emancipazione – giungono a sostituirsi al maschio nella guida del clan. Figure che pure possono rivelarsi fondamentali nello spezzare il meccanismo malavitoso. Con «Portasudeuropa»[3] ho descritto una giornalista perseguitata dagli integristi in un’Algeria dove il processo di democratizzazione si era bruscamente interrotto. Molto prima che il mondo occidentale drammaticamente scopra l’estremismo islamista internazionale, Khalida, ferma nella sua identità di donna evoluta, combatte l’oscurantismo e sceglie di non fuggire – un’altra individualità esemplare, capace di lottare, come la Rita de «Il mio giudice» per i grandi rinnovamenti.
[1] Regine 416 bis, scritto nel 2003, vince il Premio Speciale Elsa Morante 2004.Diretto dall’autrice viene accolto con grande successo nella serata anticamorra a cura di Goffredo De Pascale e, in collaborazione con la RAI di Napoli (Teatro Mercadante, Napoli 2003), tra gli interpreti Antonio Casagrande e gli attori della serie TV “La squadra”, musiche di Pino Daniele; è radiotrasmesso da Radio Rai in “Teatri sonori”. Alcuni neologismi creati dall’autrice sono stati inseriti da Renato De Falco nel dizionario napoletano.
[2] Dall’inchiesta “Camorra city” di Goffredo De Pascale e Giantomaso De Matteis per Diario della settimana.
[3]Portasudeuropa, scritto nel 1996, è dedicato alle giornaliste italiane Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli. Diretto dall’autrice debutta a Parigi all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi con Théâtre des Italiens di Maurizio Scaparro nell’anno che la Francia dedica all’Algeria (Parigi, 2003); è in scena poi al Teatro Valle di Roma in programmazione ETI 2004/05, tra gli interpreti Laura Lattuada, Massimo Borriello, Alessandro Roja; durante la successiva tournée si sviluppano varie iniziative, anche sostenute dalla Federazione Nazionale della Stampa e in collaborazione con Reporters sans Frontiéres. Va anche in scena con lo Stabile di Torino, direzione artistica di Massimo Castri, regia di Stefania Felicioli, interprete Bruna Rossi (Teatro Gobetti, Torino 2002).
MARIA PIA DANIELE
(per gentile concessione dell’editore)
Donne del Sud – Trilogia
di Maria Pia Daniele
editore: La Mongolfiera
pagine: 210
prezzo: 15 euro
Per saperne di più http://www.lamongolfieraeditrice.it/product.asp?intProdID=259