In nomen omen, dicevano i latini. Nel nome il destino. E Donatella Spaziani, ciociara, classe 1970, artista di formazione accademica, grandi occhi verdi smarriti, crea e con-forma spazi. Vi giunge attraverso un’attività che dal disegno, e la memoria, soprattutto là, nell’attività del revenant, delibera l’ambiente con rutilanti wallpaper: carte da parati adeguate al sito che le ospita; piante dei luoghi; silhouette disegnate in verticale (fin dove arriva la sua mano, con faticosa estensione); autoritratti su pellicola contenuti in camere d’albergo e, in fine, sedie d’adeguamento corporeo.
Il revenant è il non morto, colui che torna, l’immagine che vediamo, l’impronta fisica del corpo, pertanto, è già altrove. Nell’altrove. Non più nemmeno nella galleria Oredaria Arti Contemporanee di Roma, dentro la quale è visibile la personale di Donatella Spaziani. Oggetti concepiti per armonizzare i corpi trattenendoli e contraendoli, in assenza, in immaginarie posture d’angoisse o di cura. Non dobbiamo ― dico proprio che abbiamo a che fare con il dovere, la soglia e la segregazione dentro il proprio universo-corpo ― cadere nel tranello di un’arte di genere. Tutt’altro. Credo sia talmente in filigrana, il discorso del corpo, da restare imprigionato dentro le carte disegnate e i fiorami di quelle altre, da parati. «Vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male. Qual è la soluzione per non farsi male? Bisogna innanzitutto conoscere lo spazio in cui si vive», dice Georges Perec in Especes des Spaces, saggio che è servito a titolare anche una mostra con Spaziani e altri cinque artisti, curata da Luca Beatrice a Torino nel 2003. Una camera tutta per sé, come diceva Virginia Woolf, costituisce anche il primo atto d’indipendenza, di secessione quasi, dagli ambienti di “contenzione” che sono quelli di rappresentanza (come il salotto); una camera per sé riassume l’imprimatur di tutte le ribellioni. Ancorché, come sostiene sempre la Woolf, l’emancipazione, la facoltà di istruirsi, gestire un bilancio, di costruire uno spazio di contraddizione, avrebbe rimpicciolito quell’immagine nello specchio che ha reso l’uomo un gigante e la donna inferiore. La “confusione” fra nature, ordini d’appartenenza gerarchici, sessuali come antropologici, abita uno spazio filosofico, culturale e biologico di stampo dualistico. Poi avviene che ci si inoltri, da questo horror pleni, nel suo contrario: nel vacuum. Nel corpo improvviso, ritratto nel tempo imponderabile dell’autoscatto. Figurale, la Spaziani estende questo concetto di astrazione delle linee mediante le quali riconosciamo il corpo al di là del contemporaneo; ne fa un concetto. Eppure queste figure, talvolta piene, talaltra in pura linea chiara, appartengono alla soglia e al silenzio. Tanto è vero che quella di Donatella Spaziani potrebbe essere detta un’arte della testimonianza; una dimensione quasi tattile di spaesamento. Poi le cornici, la rarefazione in apparenza leggera del vetro, sicché le sagome sono sul parato, non dentro il quadro, sebbene incorniciate; contenute, insomma, queste sagome nere, per dire meglio di come si danno in virtù della messa in opera. E una cornice contiene il suo soggetto e si staglia in antitesi allo spazio (ancora lo spazio) esterno, almeno per come ha insegnato Georg Simmel. Materiali preziosi, piccole cose in ordine; legno, pelle, carta. Per raggiungere il limite, stabilire una regola per il vuoto, abitare l’incertezza del tempo (autoscatto), contenere l’angoscia nella posa – invisibile –, separare per raggiungersi e per essere, al fine, toccati.