Alla sbarra Quentin Tarantino, regista sboccato, violento e divertente. All’accusa: Spike Lee, regista impegnato sul fronte dei diritti civili delle minoranze etniche. La dichiarazione di Lee arriva come un ferro da stiro sullo scroto: “Django Unchained”, il nuovo film di Tarantino, “è irrispettoso verso i miei antenati” e aggiunge “la schiavitù degli afroamericani non era uno spaghetti western di Sergio Leone”.
La pellicola incriminata racconta infatti della vendetta di uno schiavo, ma alla maniera “pulp” ed esplosiva. È una faida che dura da anni, da quando Spike Lee, che ha dedicato la sua vita al cinema del sociale con “Fa la cosa giusta” e con la biografia di Malcom X, si è sentito chiamato in causa dalla parola “negro” usata, anzi secondo lui abusata, nei film di Tarantino. “Nessuno può rinfacciarmi il fatto di aver usato nel film quella parola, non più di quanto la gente facesse nel 1858, nello stato del Mississippi, il luogo e il tempo in cui è ambientato il film”, questa la risposta logica e posata di Quentin. Forse Lee vorrebbe dei nazisti ben educati? O vuole insegnarci il bon ton degli schiavisti? Nessuna delle due, signori della giuria, perché l’accusatore ha ammesso pubblicamente di non aver visto il film, la prova schiacciante del procurato allarme razzismo. Il vero scontro è infatti tra due modi di fare cinema, uno con la maschera triste e uno con la maschera allegra, scegliete il vostro, ma non scassate i maroni al prossimo come Spike Lee.