L’uso di concedere la casa, di proprietà dei genitori di uno dei coniugi in uso gratuito al proprio figlio, perché vi abiti con la propria moglie o compagna, è un fenomeno estremamente frequente nella pratica.
Vediamo però cosa succede se il matrimonio finisce in Tribunale.
In tal caso la gioia dei genitori viene cancellata dalla successiva separazione dei giovani coniugi e, non solo per il fallimento dell’unione, ma perché di fatto i genitori-proprietari finiscono con il perdere a vita l’uso dell’immobile.
LA RIVENDICAZIONE DEL DIRITTO DI PROPRIETÀ
La questione non è di poco conto ed ha trovato soluzioni contrapposte nella giurisprudenza fino al consolidamento di un orientamento univoco a partire dal 2004.
Da un lato vi è il diritto di proprietà dei genitori i quali giustamente reclamano l’immobile una volta che il figlio abbia abbandonato la casa e, spesso come in genere avviene, l’ex moglie abbia iniziato una relazione sentimentale con altri.
Secondo la normativa generale in tema di tutela della proprietà, i genitori legittimamente potevano richiedere la restituzione dell’immobile rivendicandolo da qualunque occupante.
Ovviamente i genitori proprietari eccepiscono che, il provvedimento di assegnazione della casa, nell’ambito del successivo processo di separazione dei coniugi, così come avviene nella totalità dei casi, non fosse a loro opponibile riguardando soltanto gli interessati.
Del resto la giurisprudenza è univoca nel ritenere che, di norma, il provvedimento di assegnazione, non possa ovviamente danneggiare i diritti dei terzi sull’immobile, come per esempio, nell’ipotesi di appartamento locato, laddove il rapporto contrattuale di affitto, continuerà il suo corso ed alla scadenza legittimamente il proprietario potrà richiedere la restituzione della casa.
LA COMPRESSIONE DEL DIRITTO DI PROPRIETÀ E L’OPPONIBILITÀ DELL’ASSEGNAZIONE AI GENITORI DEL MARITO
D’altra parte la moglie, assegnataria dell’immobile, rileva giustamente che, se la casa fosse stata restituita ai suoceri, lei ed i propri figli, avrebbero perso un punto di riferimento sicuro e cioè la casa nella quale erano sempre vissuti e destinata proprio a quello scopo.
Poiché la volontà del genitore era quella di attribuire l’immobile affinché divenisse la casa coniugale della famiglia, la circostanza che sia intervenuta la separazione tra i coniugi, nulla toglie a questo vincolo di destinazione.
Pertanto sarebbe assurdo costringere moglie e figli ad allontanarsi dalla casa, e ciò anche se, in questo modo si finirebbe con l’annullare il diritto di proprietà dei genitori.
Tuttavia tenuto conto della destinazione del bene vincolata all’autonomia economica dei figli, sarebbe impensabile mandare via di casa, nuora e nipoti.
Dunque è giusto, se si ammette tale tesi, che di fatto i suoceri finiscano con il perdere per tutta la loro vita la possibilità di usufruire dell’immobile per il quale magari avevano utilizzato la propria liquidazione o comunque somme consistenti.
LA SCELTA DELLA CASSAZIONE: TRA I DUE MALI SCEGLIAMO IL MINORE
Come sempre avviene, allorché la Corte Suprema si deve occupare della risoluzione di problemi particolarmente spinosi, necessariamente giunge ad una soluzione di compromesso, pur nelle valide ragioni di entrambe la parti, decidendo così per il male minore.
Questa scelta, dopo continui tentennamenti, veniva operata con la sentenza a Sezioni Unite della Cassazione n. 13603 del 7/9/2004.
Secondo tale decisione, in ipotesi di concessione in comodato da parte di un genitore di un bene immobile di proprietà, affinché sia destinato a casa familiare, allorché sopravvenga la separazione dei coniugi ed un successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario dei figli minorenni o convivente con i figli maggiorenni non autosufficienti, senza loro colpa, la statuizione giudiziale non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina la concentrazione, nella persona dell’affidatario o del collocatario, del diritto all’uso della casa familiare, che resta regolato dalla disciplina del comodato.
In sostanza la Cassazione ha ritenuto che il comodante (cioè il genitore proprietario), sia tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto fino a che i figli divengono autonomi.
Ad onor del vero tale interpretazione della Cassazione tende a forzare le normative sul comodato, laddove l’art. 1810 c.c. statuisce che, allorchè non sia convenuto un termine, il comodante possa chiedere al comodatario la restituzione del bene in qualunque momento.
Tuttavia la Corte Suprema, nell’evidente volontà di proteggere la moglie ed i figli rimasti nell’alloggio, ha interpretato in senso restrittivo il concetto di scadenza del comodato, ritenendo che, in questa fattispecie, non ci si trova in presenza della mancanza di un termine, ma la scadenza sussiste ed è prevista ab origine secondo la tacita volontà dei coniugi e dei genitori, fino all’autonomia economica dei figli.
Sussistendo dunque un comodato a termine, ed applicandosi la normativa del Codice Civile, la restituzione può essere richiesta solo alla scadenza del termine o per sopravvenuti urgenti ed imprevedibili bisogni (art. 1809 comma 2° c.c.).
LE OSCILLAZIONI SUCCESSIVE DELLA GIURISPRUDENZA E LA CONFERMA RECENTE
Successivamente alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite vi sono state in situazioni isolate dei ripensamenti, ma sostanzialmente la perdita del bene per i genitori è stata confermata.
Sotto tale profilo, di recente la Corte di cassazione con la sentenza del 02/10/2012 ha reiterato tale principio.
Nel caso in esame il proprietario dell’immobile rilevava che era pur vero che egli avesse concesso in comodato gratuito l’immobile al figlio.
Tuttavia tale concessione in comodato doveva intendersi a titolo precario.
Quindi non si ricadeva nella specie di comodato con termine prestabilito, nel quale la restituzione non può essere richiesta, se non alla scadenza del termine.
Rilevava in sostanza il proprietario che aveva sbagliato il Tribunale e poi la Corte d’Appello a considerare opponibile il provvedimento di assegnazione anche a lui stesso, laddove il suo scopo era appunto quello di concedere l’immobile a titolo precario al figlio, potendolo richiedere in qualunque momento in restituzione.
La Cassazione rigettava però il ricorso.
La Suprema Corte, infatti riteneva di confermare il precedente orientamento da considerarsi assolutamente prevalente ed in tal senso ribadiva le specificità della destinazione a casa familiare quale punto di riferimento e centro di interesse del nucleo familiare.
Tale fine è incompatibile, secondo i giudici, con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall’incertezza che caratterizzano il comodato cosiddetto precario e che legittimano la cessazione ad nutum del rapporto su iniziativa del comodante.
Dunque poiché doveva presumersi dalle risultanze del processo di separazione che l’immobile era stato concesso proprio perché venisse adibito a casa familiare, non vi era dubbio, secondo i giudici della Corte Suprema, che la volontà del comodante in origine, era proprio quella di lasciare la casa al figlio, alla moglie ed ai nipoti, fino all’autonomia economica degli stessi.
Quindi legittima era la richiesta della moglie separata, di utilizzare l’immobile per tutti gli anni a venire, fino appunto all’intervenuta autonomia economica della prole, apparendo corretto che il proprietario ne perdesse ogni facoltà di possesso, essendo in fondo questa la volontà originaria.
LE SOLUZIONI CONCRETE
Non vi è dubbio che l’interpretazione della giurisprudenza, pur forzando evidentemente l’istituto del comodato per adattarlo alla soluzione voluta dalla Corte Suprema, suggerisce di assumere le necessarie cautele, in fattispecie similari.
I legali infatti ormai sanno benissimo che, allorché l’immobile viene concesso in comodato dopo il matrimonio ad un figlio e poi, questo dopo la nascita dei bambini, si separi, di fatto l’immobile per il genitore-proprietario è perso, rimanendogli solo la nuda proprietà, ma senza alcun diritto di uso reale.
Conseguentemente per ovviare a tale pericolo, viene in genere stipulato un atto ritualmente registrato, per esempio un comodato a tempo predeterminato o meglio un contratto di locazione, con il versamento di un canone mensile che deve essere regolarmente erogato, al fine di dimostrare che non si tratti di un contratto simulato, bensì di un accordo che rispecchia l’esatta volontà delle parti.
Il numero elevato di contenziosi sotto questo profilo d’altra parte è ben comprensibile, laddove in genere i genitori del marito hanno investito nell’immobile tutti i loro risparmi e non infrequentemente continuano a pagare un mutuo bancario, riferito ad un immobile del quale il figlio viene spossessato per sempre, talvolta per una separazione imputabile proprio alla moglie.
È pur vero che, al momento del matrimonio è difficile ragionare sulle possibili ipotesi nefaste successive, tuttavia la prudenza e soprattutto la considerazione per cui statisticamente in Italia nella realtà un rapporto su due viene a cessare (ricomprendendo matrimoni e convivenze alle quali pure è applicabile lo stesso principio), suggerisce di prestare estrema attenzione.