L’obbligo del mantenimento dei figli si basa, nel processo di separazione, sul disposto dell’art. 148 codice civile che appunto impone tale onere in proporzione alle rispettive sostanze e secondo le capacità di lavoro professionale o casalingo.
Per il coniuge il diritto a ricevere dall’altro quanto necessario al proprio mantenimento, è basato sul presupposto della mancanza di adeguati redditi propri.
Anche a causa del particolare momento economico in cui viviamo è frequente che il coniuge obbligato improvvisamente venga licenziato o comunque perda la possibilità di continuare ad espletare il lavoro prestato.
Tale circostanza tuttavia, non lo esime dal rispetto dell’ordine del Tribunale di provvedere al pagamento dell’assegno di mantenimento.
Sembra un’ingiustizia quella di mantenere a carico del marito un assegno di mantenimento anche dopo che questi perda il lavoro e rimanga privo di reddito.
Eppure su questo punto vi è una giurisprudenza assolutamente costante anche della Suprema Corte, reiterata di recente con la sentenza n. 24424/13 depositata il 29 ottobre 2013, con la quale è stato confermato tale principio.
La fattispecie esaminata dalla Cassazione, simile a quella esaminata dal Tribunale di Roma in un caso analogo (decreto n. 218/13) riguardava un cuoco al quale era stato accollato un assegno di mantenimento in favore dei figli di 300 euro che egli sosteneva di non poter più versare avendo perso il lavoro.
Sul punto già si era pronunciata la Corte di Appello di Roma, la quale aveva respinto l’impugnazione del ricorrente, rilevando che l’appellante non era riuscito a dimostrare alcuna causa ostativa al reperimento di una nuova occupazione.
Avverso tale sentenza si rivolgeva alla Cassazione il marito, rilevando che null’altro dovesse provare se non di essere stato licenziato ed aver perso il lavoro, apparendo assurdo che gli si imponesse altresì di dimostrare, come sosteneva il Giudice di Appello, che non sussistevano altre cause ostative al reperimento di una nuova occupazione.
IL PRINCIPIO DI DIRITTO DELLA SUPREMA CORTE
La Cassazione confermava tuttavia la sentenza del Collegio di Appello, ritenendo che andava condivisa la decisione di merito, evidenziandosi come il modesto contributo economico posto a carico del marito fosse comunque sostenibile sulla base delle presunte capacità lavorative e tenendo conto della possibilità di reperire, presuntivamente, occupazioni anche saltuarie.
Dunque, secondo la Corte Suprema, appariva irrilevante che il cuoco avesse perso il posto, in quanto tale circostanza non poteva esimerlo dal cercare un’altra attività lavorativa, seppure incostante, per far fronte ai propri obblighi nei confronti dei familiari.
Lo stesso orientamento è ravvisabile nel decreto del Tribunale di Roma emesso nel 2013 (n. 218), con il quale in un caso pressoché analogo un cameriere, dopo aver firmato una separazione consensuale, si rivolgeva al Tribunale chiedendo l’annullamento del mantenimento con il procedimento di modifica delle condizioni di separazione, atteso appunto che non solo aveva perso il posto, ma non era neanche in grado di procacciarsi lavori saltuari, tenuto conto della propria età non più giovane.
Anche in tal caso il Tribunale rigettava la richiesta di modifica e per di più condannava lo sfortunato cameriere anche al pagamento delle spese di lite per 1500 euro.
LA PERDITA DEL LAVORO NON SEMPRE SI TRADUCE IN UNA RIDUZIONE DELLE CAPACITA’ ECONOMICHE
Lo stesso principio è stato confermato in tema di modifica delle condizioni della separazione (art. 710 c.p.c.) ed in tema di revisione delle condizioni del divorzio (art. 9 legge 898/70), in più occasioni, precisandosi che, in tema di assegno di mantenimento, i “giustificati motivi” la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni apportate in sede di separazione dei coniugi, non sono ravvisabili nella mera perdita da parte dell’obbligato di un cespite o di un’attività produttiva di reddito.
Ciò in quanto resta da dimostrare sempre, con onere a carico dell’interessato, che la perdita medesima si risolva in una riduzione complessiva delle risorse economiche e il giudice in tal senso deve estendere la propria indagine non solo alla risoluzione e perdita del rapporto di lavoro ma anche all’eventuale trattamento di quiescenza goduto dal marito ed alle sue possibilità di svolgere altre attività.
PERDI IL LAVORO: E’ COLPA TUA
Singolari sono altre decisioni di merito (ex multis Trib. Trani 12.12.2006 n. 759) dalle quali si evince che il persistere nell’obbligo del mantenimento può imporsi anche valutando le modalità della perdita del lavoro.
Nella fattispecie il Tribunale rilevava che pur essendo certa la perdita del lavoro da parte del marito, tuttavia dall’esame delle modalità del licenziamento si era appurato che tale risoluzione era stata causata semplicemente dall’ingiustificata condotta del lavoratore dipendente il quale non si era presentato sul luogo del lavoro, accumulando tante assenze da indurre il datore direttamente al licenziamento.
Tenuto conto di tale circostanza ed attesi i doveri del marito di sostentamento del coniuge e del figlio, immodificabili in sede di separazione, ne derivava comunque l’obbligo del pagamento di un assegno di mantenimento (400 euro per il coniuge e 250 per il minore), oltre aumenti Istat ed oltre assegni familiari eventualmente percepiti.
Non si può soprassedere, ha ritenuto il Giudice, su un obbligo essenziale, come quello del mantenimento, dovendosi presumere la possibilità per l’obbligato comunque di procacciarsi un’attività lavorativa, qualunque essa sia, per adempiere ai propri doveri.
TUTTO CAMBIA SE A PERDERE IL LAVORO E’ LA MOGLIE
Due pesi e due misure nel caso delle donne.
La Cassazione infatti (n. 4312 del 19.03.2012), allorché a perdere il lavoro non era stato il marito, ma la moglie, ha deciso di elevare il mantenimento in favore di quest’ultima.
Nella fattispecie in esame, il marito percepiva un reddito di circa 1260 euro al mese dei quali 200 erano stati destinati alla moglie per l’integrazione del reddito di questa in quanto la stessa svolgeva attività di colf con guadagni piuttosto modeste.
Successivamente la donna era stata licenziata ed in sede di revisione delle condizioni di separazione il Tribunale aveva elevato l’assegno in favore della donna a 450 euro mensili, tenuto conto delle difficoltà di trovare altra occupazione.
Il marito, in appello e poi in Cassazione, aveva eccepito che la moglie avrebbe comunque facilmente potuto trovare altra attività lavorativa, eventualmente anche in nero, in quanto la richiesta di colf sul mercato era piuttosto vivace, pur se i datori di lavoro non facilmente erano disposti a versare i contributi.
Tuttavia la Cassazione ha precisato che in caso di separazione dei coniugi, la comparazione dei redditi e delle potenzialità di reddito delle parti, al fine della determinazione dell’assegno di mantenimento, non può utilizzare l’argomento per cui l’avente diritto potrebbe comunque procurarsi da guadagnare ricorrendo al mercato del lavoro domestico in nero.
Ciò in quanto, secondo la Cassazione, si imporrebbe così alla donna di violare la normativa fiscale e previdenziale: è ritenuto perciò legittimo il rifiuto di un’attività lavorativa priva delle garanzie di legge.