L’Opera di Bologna chiude la sua stagione operistica, prima dell’estate, con un’opera contemporanea, Divorzio all’italiana di Giorgio Battistelli, per la prima volta sulle scene italiane dopo il suo debutto nel 2009 all’Opéra National de Lorraine di Nancy. Il compositore di Albano laziale si era già cimentato con sceneggiature cinematografiche, in Teorema, Prova d’orchestra, Miracolo a Milano.
Qui ha tratto il suo libretto dal celebre film di Pietro Germi (con Marcello Mastroiani e Stefania Sandrelli), considerato il capostipite della commedia all’italiana, che nel 1961 ironizzava sulla mentalità della Sicilia e sull’arretratezza legislativa dell’Italia. L’intenzione di Battistelli è stata quella di mettere in risalto l’attualità di quella vicenda che poneva in termini ancestrali il problema della coppia. E ne è venuta fuori una vera e propria opera comica, che ha svelato ancora una volta l’innato talento teatrale del compositore. Nella partitura, articolata in 23 scene, Battistelli ha steso innanzitutto un colore di fondo caricaturale, affidando tutti i ruoli femminili (tranne quello della giovane Angela) a voci baritonali, sottolineando così il carattere forte e “baffuto” delle donne del Sud (la parte del sensibile e delicato Carmelo Patanè è stata invece scritta per un controtenore).
La scrittura vocale si basava su un ampio declamato, piuttosto uniforme nonostante i continui passaggi tra parlato, recitativo, Sprechgesang, ma con alcuni squarci lirici e gag ritmiche che riuscivano a dare un preciso carattere a ciascun personaggio. La scrittura del coro e dell’orchestra, assai densa e d’impronta tradizionale, ricorreva tuttavia ad alcune interessanti soluzioni timbriche, sfruttate sempre in maniera molto teatrale (e restituite con grande efficacia dalla scrupolosa direzione di Daniel Kawka): trasformava ad esempio un tic del Fefé cinematografico in un elemento ritmico e percussivo, giocava “rossinianamente” su effetti onomatopeici e reiterazioni incalzanti e un po’ demenziali (della serie «sì, sì, no, no»), creava momenti corali di grande effetto (cori bisbiglianti, cori di baci, il coro che recitava come una litania ossessiva la parola «cornuto»).
L’atmosfera ironica e pungente del film, i cliché maschilisti, il colore locale di questa Sicilia anni Cinquanta, con il suo mito dell’onore, le sue tradizioni e idiosincrasie, era sottolineato anche di più nella regia di David Pountney, piena di soluzioni farsesche, e nella scenografia geometrica, colorata, e un po’ sbilenca di Richard Hudson, che appariva come un omaggio a Giorgio de Chirico: una grande scalinata che saliva verso la chiesa del paese, piena di botole (che evocavano sia il continuo aprirsi e chiudersi delle finestre e gli occhi curiosi della gente), con un grande letto, insieme talamo nuziale e tomba, che si ergeva al centro della scena come un totem, simbolo di tutti i matrimoni e dello loro crisi. E tutto evocava l’universo domestico, e molto siciliano, di casa Ferraù: le spaghettate, i fornelli (ovunque, anche attaccati alle pareti), le arance, il canapé, il water. Mentre Angela appariva come una presenza davvero soprannaturale, intenta a fare bolle di sapone, adagiata su un letto che veniva calato dall’alto, come dal cielo. Su un grande schermo, che si apriva e chiudeva come l’anta di una finestra, venivano proiettati i sogni di Fefè, un filmato di come liberarsi della moglie, mostruosi face morfing che trasformavano la bella Angela nella grottesca Donna Rosalia. Adeguatamente scelti gli interpreti, a partire dallo spaesato Fefè del tenore Cristiano Cremonini, e da Sonia Visentin, un’Angela assai credibile scenicamente, e sicura nella tessitura acuta della sua parte. Esilarante Alfonso Antoniozzi nel ruolo en-travesti di Donna Rosalia, come il minuto Daichi Fujiki nella parte del pittore Carmelo Patanè.