Dopo aver incontrato prima un bimbo pugliese di otto anni e poi una trentenne siciliana, oggi andiamo a trovare una giovane trentaseienne pugliese che lavora con i bambini. Un volto antico e intenso come il suo nome, che subito mi fa pensare a cose passate e a Kafka, Milena Galeoto ha gli occhi di una straniera in patria. Non so se per il fatto che passi molto del suo tempo con i bambini o perché oltre l’educatrice si occupa di traduzione di testi letterari. Tradurre o educare, in fondo, non sono mestieri possibili se non si è disposti a sostare nelle sospensioni del mondo, lì dove le cose esistono ma stanno per diventare altro.
– Tu lavori con il mondo infantile, oggi i bambini, in generale, fanno molte attività ma stanno meno tra di loro. Come si può creare un mondo a loro misura, che li rispetti e li aiuti a crescere lasciandogli esplorare e non inibendo le loro qualità, risorse, potenzialità etc.
Un mondo che, anzi, sappia imparare dalle loro richieste e visioni, ritrovando desideri e immaginazione perduti. O è già tardi, i bambini sono ormai stati rovinati e giacciono apatici e un po’ tutti uguali davanti alla televisione o alle playstation, agli adulti, etc..?
Per creare un mondo a misura di bambino, è necessario partire da un sistema in grado di garantire il rispetto dei suoi diritti. Apparentemente, potrebbe sembrare un argomento complesso, ma basterebbe rivedere il sistema scuola per creare occasioni di confronto, di socializzazione e non solo di sterile trasmissione di programmi ministeriali. Bisognerebbe agevolare tutte quelle attività in grado di valorizzare la persona, di ascoltare le esigenze dei più piccoli per adattare, successivamente, un programma valido, in grado di fornire anche agli stessi genitori gli strumenti per avere una continuità formativa, educativa, fuori dalla scuola. Lavorando all’interno delle scuole, attraverso progetti educativi, sento come primo impatto, l’assenza di un approccio umano. Sarebbe utile anche soltanto migliorare questo aspetto, creando un ambiente più sereno e giocoso per ottenere maggiori risultati, dando vita ad una scuola del benessere e non del disagio. Siamo noi adulti ad essere rovinati e apatici… non i bambini. A volte, sarebbe sufficiente ricreare spazi condominiali, recuperare i cortili delle scuole, frequentare i parchi per capire che i bambini sono felici con poco, inseguendo una palla, giocando con la loro fantasia. Senza doversi ipnotizzare di fronte ai videogiochi, dopo aver trascorso ore ed ore dietro una mole di compiti scolastici da fare, isolandoli dalla possibilità di socializzare, di esprimere se stessi.
Tendiamo, spesso, a interagire con i bambini come fossero piccoli adulti. Quante volte mi è capito di ascoltare frasi tipo: “dai, smettila di piangere, non fare il bambino!”.
Forse, dovremmo ricordarci che sono bambini, ogni volta che opprimiamo loro con le nostre aspettative, ogni volta che li neghiamo ore di gioco libero con i loro coetanei, fuori dai circuiti di attività agonistiche. O quando assegniamo loro pagine e pagine di compiti da fare, nonostante molti frequentino scuole a tempo pieno. Quando li neghiamo la lettura di una storia, come momento significativo tra genitori e figli.
O quando rispondiamo di non avere tempo e di sbrigarsi.
I bambini hanno il diritto di essere amati, ascoltati, guidati serenamente perché non hanno chiesto loro di venire al mondo e quando si decide di essere genitore o insegnante, è giusto tutelarli pienamente.
– Come valuti l’offerta culturale riservata al mondo dell’infanzia, parlo di libri, spettacoli teatrali, film, cartoni etc presenti, oggi, sul mercato?
Ci sono autori davvero validi o in generale c’è un paesaggio superficiale?
L’offerta culturale è piuttosto scarsa e di pessima qualità, ma non è difficile comprenderne il perché: a causa di una scarsa richiesta. Non siamo, purtroppo, ancora educati al mondo dell’infanzia. Pensiamo di ricreare gabbie con palline colorate, musica da discoteca dove rinchiudere i bambini perché tornino a casa stremati e ci si possa rilassare. Pensiamo di lasciare i bambini davanti a canali interamente dedicati a cartoni animati, talvolta, senza una logica comprensibile, per ritagliarci un po’di tempo
Finché, considereremo i bambini come disturbo, ricreeremo sempre spazi diseducativi, angoli dove “parcheggiarli”. E’ terribile leggere insegne come “baby parking”, un sistema di ludoteche a ore considerato da molti un vero e proprio business.
Esistono una miriade di validi autori, ma come conoscerli se non si frequentano le biblioteche e se le stesse, in molte realtà, non hanno libri per bambini?
Per questo, sarebbe utile rifondare un sistema in grado d’informare le famiglie, educare al mondo dell’infanzia. E quale luogo migliore della scuola può permettere un valido incontro tra adulti e bambini? Invitando esperti dell’educazione, promuovendo laboratori di lettura, teatro, occasioni che agevolino un panorama culturale ricco, stimolante, fuori dai circuiti che hanno una visione distorta del bambino, considerato solo come potenziale consumatore di un offerta commerciale.
Eh si, purtroppo la realtà è questa. Tempo fa sono stato in una di queste ludoteche per accompagnare mia figlia ad un compleanno. Era la prima volta che ci andavo, dato che mia figlia è ancora piccola, e sono rimasto inorridito. Mi sembrava un posto al confine tra un pollaio moderno, uno studio televisivo, una discoteca e una catena di montaggio. Non esagero, anzi è difficile trovare le parole per descrivere questi luoghi. Tutto è sbagliato, a mio parere, lì dentro. Una società civile dovrebbe impedire che ci siano dei posti come questi dove imprigionare l’energia dei bimbi ma essi rispecchiano pienamente il vuoto della nostra cultura e delle vite di tante persone. Già solo il fatto che ci fosse una parte di spazio dove far stare gli adulti con sedie e tavolini per consumare le cibarie della festa e un’altra dove mettere i giochi e i bambini relegati in vere e proprie gabbie, con tanto di rete, e poi che della bruttissima musica suonasse a volume così alto, senza produrre alcun ascolto ma solo baccano e un eccitamento vano e nevrotico, mi ha fatto venire voglia di fuggire appena entrato.
Ma sono rimasto perché mia figlia voleva stare con i bambini e sono stato con lei quasi tutto il tempo di questa tragica permanenza come a doverla proteggere.
Se inventiamo posti del genere non è solo per la comodità di stordire i bambini e poi di poterci stare con meno fatica o perché non vogliamo ascoltare la loro complessità e ricchezza,
ma perché non conosciamo più il potere magico dello spazio e dei suoni, della luce e della natura. Perché passiamo troppo tempo in interno quando invece l’esterno potrebbe donarci molta armonia ed energia. Perché stiamo perdendo sempre di più il nostro corpo.
Il teatro (inteso come il crocevia dei linguaggi artistici o creativi) potrebbe aiutarci a custodire questa nostra umanità… ma il teatro che ha dentro questa necessità, questa urgenza, non parla quasi più con nessuno…
Molti gruppi teatrali si dedicano a spettacoli per l’infanzia. E’ più che altro un business, offrendo un intrattenimento culturale “obbligato” o nasce da un’esigenza profonda di condividere con l’infanzia un linguaggio articolato e fisico come quello teatrale? Di immergersi nel potere delle fiabe, per esempio, per poterne rivivere e dunque far vivere tutta la loro intensità, la loro magia sensoriale e simbolica? I bambini sanno leggere i simboli?
Ho avuto occasione, durante la mia esperienza di madre ed educatrice, di incontrare sia gruppi teatrali animati da una profonda passione con i quali ho anche avuto modo di collaborare e altri dove era chiara l’improvvisazione con l’evidente obbiettivo di speculare su questa attività. Anche in questo caso sta all’insegnante, al dirigente scolastico saper scegliere il gruppo teatrale in grado di coinvolgere i bambini. Esiste, infatti, l’attore dilettante e l’attore pedagogo, in grado di trasmettere ai piccoli spettatori un’esperienza altamente coinvolgente.
Le storie hanno un potere immenso, sono una fonte inesauribile di esperienze. Sono il veicolo che, personalmente, uso per interagire con i bambini. Tutte le esperienze didattiche e creative che porto nelle scuole, nascono dall’ascolto di una storia. Ed è meraviglioso come i bambini riescono a coglierne spontaneamente l’aspetto simbolico.
I bambini sanno leggere i simboli, sono esperti in questo perché non sono ancora condizionati da sovrastrutture… se solo li lasciassimo parlare di più, capiremmo meglio come ricreare un mondo su misura al loro modo di essere.
C’è più bisogno di fiabe, di poesia, di realismo o di metafore nella narrazione contemporanea? O di una complessità che sappia miscelare queste “dimensioni” in modo fertile?
Di fronte a questa domanda mi vengono in mente le parole di Gunilla Bergström, un’autrice svedese di storie per bambini: “La realtà è una favola. Ogni giorno è nuovo. I bambini capiscono perfettamente ciò che noi adulti abbiamo dimenticato. Così, voglio raccontare storie in modo che i bambini e gli adulti possano ricordarsi, ridere e stupirsi insieme. I bambini che hanno compreso la magia della realtà sono più ampiamente dotati e se un giorno questi bambini saranno al potere o saranno semplicemente genitori, potremo contare su un mondo migliore”.
Credo che questa sia la dimensione ideale per riportare adulti e bambini a ricercare nella realtà, elementi significativi, attraverso storie dove i piccoli lettori possano riconoscersi. Storie che parlino di bambini come loro, che sognino come loro, agevolando così una buona autostima.
Personalmente, prediligo storie dove non ci siano stereotipi come principesse, principi, eroi e fanciulle in attesa di essere salvate. Perché anche le bambine possano sentirsi libere di leggere avventure considerate al maschile, e viceversa. Questo è un argomento che cerco di affrontare insieme agli editori, ogni volta che propongo loro nuovi racconti di autori che traduco. Perché attraverso la lettura si può crescere consapevolmente e sentirsi orgogliosi di essere se stessi.
Credi che oggi ci sia più bisogno, di fronte ad un’opera artistica o creativa, di abbandono o di analisi.
Di imparare ad orientarsi e a dare significato alle cose o di accettarle nel loro scorrere senza farsi troppe domande.
Credo che molto dipenda dalla situazione. Io, ad esempio, cerco di adattarmi al momento. Se un’opera d’arte mi trasmette gradevoli sensazioni, in grado di far emergere un’analisi personale, sento il bisogno di approfondire la conoscenza, successivamente. Mi è successo in alcuni casi di essere stata condizionata da informazioni didascaliche, incapaci di sostenere il valore dell’opera.
E’, comunque, affascinante contestualizzare un’opera artistica, cercare di comprendere le motivazioni profonde che hanno guidato l’autore nella realizzazione.
Si, ma credo che una lettura di un’opera, per così dire, oggettiva, o forse è meglio dire profonda, dovrebbe stimolare non solo la comprensione delle motivazioni dell’autore ma anche le ragioni generali che l’hanno stimolata.
Suggerendoci anche di leggerci dentro e di capire perché riceviamo di più un segnale, un’idea, un piacere piuttosto che un altro. In questo modo l’arte diventa una via di conoscenza per tutti, attori e spettatori, e dunque assolve anche una funzione terapeutica. Bene inteso che il viaggio interiore può portarci anche a territori misteriosi, indefiniti o liquidi, per usare una parola cara ai sociologi.
Viviamo, invece, in un’epoca in cui o si esalta romanticamente e spesso non veramente l’artista, la sua personalità creativa, le sue radici etc, oppure si tende a volerlo sciogliere a favore della “realtà”, quale essa sia, come se il suo lavoro, il suo compito più alto dovesse consistere in questo arretramento.
A mio parere, a monte di ciò, c’è la questione della responsabilità individuale. Nel senso che l’uomo contemporaneo non si prende molto la responsabilità di esprimersi o di indagare veramente (che poi forse sono la stessa cosa). Quanto quella di specchiarsi, come un Narciso intrappolato in un riflesso fugace cha affiora in superficie…
Esiste, per te, un problema di autostima degli operatori culturali che può condizionare il loro impegno, il loro senso di responsabilità?
Esiste un problema di preparazione a condizionare l’impegno di un operatore culturale. Se un operatore culturale ama il proprio lavoro, conosce ciò che fa, lo trasmette senza ricorrere ad effetti speciali perché ha padronanza del suo ruolo.
Tu sei un’ambasciatrice della cultura svedese e hai fondato un progetto editoriale che si chiama BRO (in svedese ponte). Avendo vissuto e studiato in Svezia puoi dirmi quali sono le differenze fondamentali tra l’infanzia dei bambini svedesi e quella degli italiani?
La differenza è che i primi vivono in un paese che agevola la loro crescita, attraverso un sistema educativo attento a rispondere al meglio ai loro bisogni, aiutandoli a crescere in modo autonomo, sereno, rispettandoli come bambini. Con diverse iniziative che sostengono in pieno i loro diritti.
Prima tra tutte: a scuola si va senza zaino, perché è lo Stato a fornirti tutto il materiale e a casa torni senza compiti e, finalmente, puoi vivere la tua famiglia e i tuoi amici serenamente. E poi, in Svezia, si fanno le cose con calma, si parla senza urlare e già passivamente si assimila un modello di civiltà fin da bambini.
I nostri bambini, invece, si adeguano tristemente ad un mondo adulto. Svolgendo attività di adulti in miniatura, scimmiottando modi di fare propri del mondo dei grandi. E poi, basterebbe soffermarsi a guardare le nostre città, abbassarsi ad altezza bambino per capire come il loro orizzonte sia limitato dal nostro modo di essere ingombranti, con le nostre auto in doppia fila, negozi e ipermercati a misura d’uomo e il bambino che non conquista facilmente un’autonomia perché mancano gli strumenti e le occasioni per sostenere questo sviluppo. E la scuola poi, una nota dolente: le nostre classi sono state definite aule-pollaio dove, in certi casi, è vietato fare ricreazione per motivi di sicurezza e dove si chiede ai bambini di usare tempera matite con apposito contenitore per non alzarsi.
Mentre in Svezia, essere bambini è un privilegio… in Italia, essere bambini rischia di diventare un incubo se continueremo di questo passo.
Un mio collega che stimo, Silvano Agosti, da anni parla della scuola italiana come di una prigione. Frank, il bambino che si racconta nel suo film D’amore si vive, dovrebbe essere visto obbligatoriamente da tutti gli adulti (si può trovarlo facilmente sul web). Ogni insegnante, ogni genitore dovrebbe ascoltare e riflettere sulle parole di questo bambino straordinario. Ma a parte la sua bellezza, resta il fatto che, se vogliamo ricostruirlo questo paese, a mio parere, bisogna concentrarsi sui diritti dell’infanzia più di qualsiasi altra cosa. O meglio, sulle sue risorse che, se ascoltate e rispettate, ci ridarebbero ancora la voglia di vivere e di gioire.
Chiudendo questo incontro non posso non pensare al nome di questo tuo progetto: il ponte. Non posso non pensarci perché il ponte è un luogo magico, dove la sospensione diventa permanente ma, forse, per ricordarci l’inesistenza del tempo. E perché, tanto tempo fa, su un piccolo ponte della Padania che si muove nella nebbia, sono stato molto felice. E poi, soprattutto, perché il mio primo corto si chiamava il Ponte ed era tratto da un racconto di F. Kafka: Bambini sulla via maestra.
Me lo produsse la Provincia di Lecce dove tu ora lavori. L’idea, mi dissero, era di raccogliere una serie di corti e di autori che raccontassero il Salento. Un’operazione ombelicale e superficiale, ma questo sarebbe argomento per un altro articolo.
Immediatamente pensai a questo breve racconto di Kafka che è il manifesto sulla magia dell’infanzia più intenso che abbia mai letto. Immediatamente pensai all’Albania che è la terra che sta oltre il mare, di fronte al Salento. Il racconto di Kafka restituiva le sensazioni di un bimbo che si immerge insieme ai suoi compagni nella campagna e nei boschi. Finché arriva il tramonto. Trascrivo qui le ultime righe del racconto, mentre ripenso a quei bambini albanesi meravigliosi con cui girai il film. Bambini trovati realmente su una strada vicino ad un bosco, a 80 km da Tirana. Io e i miei collaboratori ci perdemmo con loro seguendoli sulle montagne e ancora oggi il loro sguardo su un piccolo pontile di ferro dove il film si chiude, idealmente proteso verso l’altra parte, mi fa pensare non tanto al paese dove sono nato ma a quello che mi piacerebbe abitare, dove i bambini ancora si stancano… veramente.
“Così si cantava, il bosco alle nostre spalle, per gli orecchi dei viaggiatori lontani. I grandi erano ancora svegli in paese, mentre le mamme preparavano i letti per la notte.
Era già l’ora. Baciavo quello che mi stava accanto, davo così la mano ai tre più vicini, e mi mettevo a correre sulla strada del ritorno, nessuno mi chiamava. Al primo incrocio, dove non potevano più vedermi, voltavo e correvo di nuovo lungo le redole nel bosco. Volevo andare nella città a sud del nostro paese, della quale si diceva da noi:
“Laggiù c’è gente! Pensate, quelli non dormono!”
“E perché no?”
“Perché non si stancano.”
“Perché no?”
“Perché sono scemi.”
“E gli scemi non si stancano?”
“Come potrebbero stancarsi gli scemi?”
F. Kafka