In uno scambio epistolare fra Franco Bevilacqua, leggendario grafico che disegnò la prima Repubblica, e Antonio D’Orrico (riportato in parte su Sette, inserto del Corriere della Sera, del 4 luglio 2014) viene raccontato un aneddoto che sottolinea la scrupolosità di Dino Buzzati redattore. Un piccolo racconto che, però, fa riflettere.
Cosa resta in questo terzo millennio della scrittura, degli articoli pubblicati sul ‘Corriere della Sera’, dei fumetti, delle interviste e dei suoi quadri dal tratto ironico e fantastico? Cosa rimane, oggi, dell’eclettismo che ha caratterizzato il lavoro di Dino Buzzati, il più controverso autore italiano? Alla sua morte per tumore al pancreas, avvenuta in una clinica di Milano il 28 gennaio 1972 confortato da Almerina Antoniazzi e da sua figlia Luna, sull’onda dell’emozione generale apparve su un giornale lombardo il seguente titolo: ‘Per Dino Buzzati Traverso comincia un grande futuro’.
Il romanzo che lo rese famoso fu ‘Il deserto dei Tartari’, pubblicato nel 1940 e trasposto in un film del 1976 diretto da Valerio Zurlini. L’opera registica restituisce fedelmente le atmosfere mute di inesauribile attesa di uno dei più importanti capolavori della letteratura italiana del novecento. La cura attenta per le ricostruzioni ambientali, la fotografia realizzata da Luciano Tovoli, un cast internazionale composto, oltre che da Vittorio Gassman, da Helmut Griem, Francisco Rabal, Jean-Louis Trintignant, sino all’indimenticabile Giuliano Gemma. E ancora: Max von Sydow, Fernando Rey, Philippe Noiret, Jacques Perrin, il protagonista, e poi ancora la viscontiana Lilla Brignone, Rolf Wanka, Loris Bazzocchi, Giorgio Cerioni, Laurent Terzieff, Sandro Dori, Mario Novelli, Dino Mele e da Giuseppe Pambieri, Enzo Bottesini, Shahran Golchin, Bryan Rostrom, Kamran Nozad, Chantal Perrin, Yves Morgan, Giovanni Attanasio, Manfred Freyberger, Alain Corot, Jean-Pierre Clairin, Shaban Golchin Honar a Maurizio Marzan; infine, la colonna sonora di Ennio Morricone. Tutti questi ingredienti consentirono la realizzazione di un film di grande livello artistico, che vinse il David di Donatello per la regia nel 1977 battendo il favorito ‘Casanova’, di Federico Fellini. La trama, povera di avvenimenti esterni, s’incentra sulla vita interiore del protagonista, oppressa da una logorante attesa destinata a restare insoddisfatta. Una dimensione esistenziale che viene raffigurata dal deserto, metafora di un’arida solitudine, sempre uguale a sé stessa e dal viaggio che, con la sua progressione incompiuta, rappresenta un’esistenza priva di sviluppi.
Il gusto del favoloso resta così l’aspetto caratteristico della scrittura di Buzzati e fornisce materia anche alla produzione elaborata negli anni successivi, con la quale lo scrittore mette a punto quella misura narrativa che gli rimase poi congeniale: il racconto breve. È questa la forma più felice della sua narrativa. E, comunque, quella che lui preferiva. Così affermava: “La narrativa breve non fa in tempo a stancare il lettore”. Buzzati, nei suoi racconti, cattura e trasmette le emozioni ai lettori attraverso la suspense e il grottesco irrazionale, per condurli alla scoperta di una dimensione magica che, troppo spesso, risulta nascosta nella banalità quotidiana, poiché ogni situazione ha un lato nascosto e, attraverso l’immaginazione e l’intuizione di questo ‘invisibile’, Dino Buzzati ci indica, ancora oggi, quei sentieri della libertà spirituale attraverso i quali si può ancora recuperare l’ampiezza del nostro essere e misurare le potenzialità del nostro pensiero, svincolato da limiti e categorie. Anche quando, dopo il conflitto mondiale, Dino Buzzati tornerà a scrivere in un clima sociale e politico sostanzialmente nuovo, egli continuerà a prediligere la forma breve del racconto, piegandola anche ad argomenti frivoli e leggeri. Scelta che lo terrà, ancora una volta, lontano dal dominante neorealismo della narrativa contemporanea e gli consentirà di coltivare il tema dell’evasione, sempre più necessario per allontanarsi da una realtà in cui egli non era più disposto a riconoscersi.
In quegli anni, Buzzati inizia a sperimentare generi letterari diversi: torna al romanzo e si esercita alla composizione di opere teatrali, dedicandosi anche alla poesia. Tra questa consistente e varia produzione si distingue il ‘Poema a fumetti’, del 1969, dove trova compimento accanto alla vena di narratore quella di disegnatore, una passione che Buzzati aveva coltivato fin dalla fanciullezza e che, nella maturità, divenne, come già la scrittura, uno strumento finalizzato a raccontare storie. Attraverso i disegni prendono forma quei mondi fantastici che mai lo abbandonarono. Buzzati parlava di ‘Poema a fumetti’ come di una delle sue cose più care: “Il mio romanzo”, spiegava lo scrittore a Corrado Stajano in un articolo apparso su Il Tempo nell’ottobre del 1969, “è una fantasia, una storia che mi è venuta in mente pensando al mito di Orfeo ed Euridice, e che io ho creduto di poter rappresentare con disegni, forse più che con parole, ritornando alle origini perché quando ero ragazzo facevo storie scritte e illustrate, storie molto ingenue, di montagne, gnomi, elfi, spiriti. Perché ho scritto un romanzo a fumetti? Perché mi sono illuso, disegnando, di poter dire cose che con le parole non sarei riuscito a dire abbastanza chiaramente. E poi anche perché credo che si vada verso una civiltà dell’informazione sempre più visiva”. Per disegnare le duecento tavole, Dino Buzzati impiegò due anni servendosi di fotografie fatte apposta o ritagliate dai giornali, e il libro fu stampato da Mondadori nel settembre del 1969.
Ebbi l’occasione di essere ospitato, a cena, da Almerina Antoniazzi Buzzati e da sua figlia Luna nella loro casa milanese, in viale Vittorio Veneto 24, all’ultimo piano, casa-museo della letteratura e della pittura del genio di Dino Buzzati Traverso, nato nella Villa di San Pellegrino, Borgo Piave, Belluno il 16 ottobre 1906. Era l’appartamento che dominava il terrazzo di Lucio Pozzi, il marito pittore di Dacia Maraini dal quale divorzia dopo quattro anni di vita comune e un figlio perso poco prima di nascere.
“In un tempo e in un luogo indefiniti un giovane ufficiale, Giovanni Drogo (Jacques Perrin), viene inviato alla Fortezza Bastiani, un avamposto al limite di un deserto, presunto punto strategico per l’attacco del nemico. Dopo un viaggio lungo e faticoso, Drogo raggiunge la roccaforte, immersa nel silenzio e in una solitudine immensa, dove il tempo trascorre sempre uguale. Max von Sydow, è il maggiore Ortiz, comandante della compagnia di Drogo. Vittorio Gassman è il comandante della guarnigione, conte Giovanbattista Filimore. Al di là della roccaforte si trova il deserto, chiamato dei Tartari perché lontane leggende tramandano la notizia che anticamente questi lo avessero abitato. La vita trascorre monotona nell’attesa snervante e mai realizzata di un attacco nemico. Drogo aspetta inutilmente per mesi, per anni, per decenni e, con lui, gli altri militari che vivono nella fortezza, come il maggiore Matis, interpretato magistralmente da Giuliano Gemma, il quale riesce in egual misura a risultare indisponente ed antipatico ai subalterni così come ai superiori, pur svolgendo sempre i suoi compiti con una rigidità pari ad altrettanto cinismo. Quando infine l’evento tanto atteso sta per arrivare, Drogo, ormai vecchio e malato, è costretto ad allontanarsi per affrontare l’unica grande occasione concessagli, la battaglia decisiva: l’incontro con la morte”.
È sintomatica la predisposizione dell’autore a situazioni descritte nel suo romanzo ‘Il deserto dei Tartari‘, già in nuce a vent’anni, in una lettera giovanile al suo amico Arturo Brambilla: “Passo un periodo in cui non faccio nulla, in cui vedo passare miseramente la vita, in cui mi accorgo del mio terribile egoismo e aspetto, e nell’aspettare, m’accorgo che sono intelligente come tutti gli altri uomini, che davanti a me si apre l’aurea porta della mediocrità, per sempre. Senza una briciola di volontà, con un orgoglio infame, non riuscirò a nulla”.
Nei romanzi ‘Bàrnabo delle montagne’ del 1933, ‘Il segreto del bosco vecchio’ del 1935, ‘Il grande ritratto’ del 1960, ‘I sette messaggeri’, ‘La famosa invasione degli orsi in Sicilia’. Nel 1950 diventa vicedirettore della Domenica del Corriere, incarico che manterrà fino al 1963. Seguono ‘Sessanta racconti’ del 1958. Nel 1961 scrive “Battono alla porta”, l’opera che sarà musicata da Riccardo Malipiero. E continua ad esporre: nel 1966 e nel 1967 a Milano, l’anno seguente alla Pléiade di Parigi. Nello stesso anno assume l’incarico di critico d’arte al Corriere della Sera. Seguono altri libri di racconti: ‘Il Colombre e altri cinquanta racconti’ del 1966, ‘Le notti difficili’, ‘Paura alla Scala’. Tutti i suoi racconti, mettono in comunicazione la realtà quotidiana con un mondo fantastico e surreale paragonabile alle ambientazioni di Kafka.
Nel suo primo romanzo, ‘Bàrnabo delle montagne’, dalla sintassi lineare e allegra, dimostra subito uno stile deciso e originale, un taglio di narrativa pulito, immediato, rigoroso e moderno. Quando un critico gli chiederà chi avrebbe considerato come punto di riferimento, o maestro di genere, risponderà: “Penso che in ogni scrittore i primi ricordi d’infanzia siano una fase fondamentale. Le impressioni più forti che ho avuto da bambino mi hanno formato: appartengono alla terra dove sono nato, tra le selvatiche montagne che la circondano…”.
A una nativa predisposizione alla fantasticheria può essere ricondotto un po’ tutto il mondo espressivo di Buzzati, anche quando una più decisa opzione per il realismo, che si evidenzia in ‘Un amore’ del 1963, trasforma in un limite la disinvoltura giornalistica della sua prosa e del suo gusto per le situazioni emblematiche. Postumi sono usciti “Cronache terrestri” nel 1972, e ‘I misteri d’Italia’ nel 1978.
Tuttavia, per molti, troppi anni, così non è stato, almeno in Italia. Chi l’avrebbe mai detto, quarant’anni fa, che uno degli autori più significativi del ‘900, paragonato dall’intellighentia europea e non solo, ai grandi geni della letteratura italiana, finisse nel dimenticatoio della storia? Mentre all’estero risulta l’autore italiano più studiato insieme a Dante, Elio Vittorini, Montale, Calvino, Maffia, Maraini, con un numero incalcolabile di pubblicazioni e convegni. E qui da noi, in Italia? Per fortuna da qualche anno le cose stanno cambiando, anzi, possiamo affermare senza tema di smentita che negli ultimi tempi non si fa che parlare di Buzzati, o almeno ci si prova. È di questi mesi la riscoperta da parte della Kogoi Edizioni, degli autori italiani e stranieri caduti nel ‘dimenticatoio’. Ci si augura che venga preso in considerazione e ‘riportato’ alla lettura, dalla Kogoi, anche Dino Buzzati!
Sarà ben lieta la signora Almerina Antoniazzi Buzzati, che ha ormai 75 anni, ricordare suo marito Dino, le cui ceneri conserva amorosamente a Milano. Nell’incontro nella casa milanese le chiesi dove fossero custodite precisamente, e lei rispose: “Non l’ho detto nemmeno ai miei cari, e non lo sa neanche mia figlia Luna. Io avrei voluto disperderle liberandole nelle montagne amate da Dino, sulle Cinque Torri. Però nel Veneto cattolico non c’è una legge che lo consenta e allora aspetto… e sinceramente non lo so cosa aspettare. Forse, quando me ne andrò anche io, mia figlia le mescolerà con le mie ceneri, per poi disperderle fra le montagne o nel mare… Liberando così un simbolo, che serve al ricordo dei vivi, per chi lo ha apprezzato e per le generazioni che lo apprezzeranno ancora. Si chiuderà così il circolo di un racconto surreale, che è la vita”.
Ormai chiunque si appresti a scrivere o a proporre corsi di scrittura creativa, come “Scrivere, tecniche e percorsi per chi ama raccontare” della Fabbri Publishing, sente il dovere di citarlo e per i quarantatre anni dalla morte stanno per essere istituiti Premi a suo ricordo, reading dalle sue opere letterarie, documentari televisivi, mostre delle copertine dei suoi libri, dei suoi fumetti, delle fotografie di un’epoca culturale che non andrebbe dimenticata. Addirittura sembra siano stati trovati negli archivi della RAI e dell’Istituto Luce quasi tutti i documentari prodotti su di lui durante e dopo la lunga carriera di Buzzati.
Ma se si andasse nelle scuole a chiedere agli studenti o addirittura agli insegnanti di nuova generazione, “Chi era Dino Buzzati?” probabilmente resteremmo delusi. Fatti salvo ‘Il deserto dei Tartari’, ‘Un amore’ e ‘Poema a fumetti’ sono ben poche le opere citate in televisione negli ultimi venti anni. Ciò detto, come si giustifica questo ritorno a Buzzati? Perché solo pochi anni fa per parlare dell’incredibile attualità della sua opera bisognava bussare alle porte delle riviste più specializzate mentre oggi, possiamo farlo su un giornale on line e con grande visibilità o ancora sulla rivista, ormai storica, Orizzonti, della Aletti editore. Una risposta forse c’è e chiama in causa direttamente la critica letteraria che troppo presto ha bollato l’opera di Buzzati come ‘estremo’, ‘delirante’, ‘un pittore troppo surrealista che scrive romanzi’ impedendo un dibattito serio, aperto magari a voci un po’ più giovani e fresche, sui temi e sull’eredità culturale di Buzzati. Si è realizzata insomma l’oscura profezia, quella che solo una parte degli studiosi di letteratura, sacerdoti e sacerdotesse della scrittura creativa, ha continuato a portare avanti in alcune accademie italiane e in quel grande serbatoio di intelligenze che era la Mondadori con a capo Alberto e Virginia, creatori dei nuovi geni della letteratura italiana, così come lo è stato l’editore Giovanni Scheiwiller per Alda Merini.
Quella che negli anni ‘70 era ritenuta eccessiva complessità, stilismo ante litteram, arte fantastica è, a uno sguardo contemporaneo, il messaggio in codice di Buzzati su ciò che avremmo vissuto col passare del secolo: la scomparsa della realtà, il mutare delle città e della società, la finzione che si fa verità, la cibernetica, l’informatica, l’immagine e l’ossessione voyerista… tutti temi che oggi indichiamo come postmodernità, del mondo globale, della rivoluzione digitale e che quarant’anni fa non erano così interessanti per molta parte della critica. Per fortuna oggi, dopo i grandi maestri americani da Tennessee Williams, Andy Warhol, Ernest Hemingway, a Paul Auster anche gli scrittori nostrani sembrano riprendere l’eredità di Buzzati. Qui diventa però complicato il discorso e specialmente definire il limite tra romanzieri e sceneggiatori; l’esempio lampante è Paolo Sorrentino, che nel 2010 ha esordito nel mondo letterario con ‘Hanno tutti ragione’, romanzo terzo classificato al Premio Strega 2010, e in particolare il suo ultimo film, ‘La grande bellezza’, che molti hanno celebrato come una nuova ‘Dolce vita’, richiamo fin troppo scontato che ancora una volta conferma il ritardo nell’elaborazione della grande eredità lasciataci da Federico Fellini. Se provassimo invece a pensarlo come un prosieguo ideale sul piano poetico e stilistico di ‘Roma’, di ‘Casanova’, di ‘Ginger e Fred’ più che della ‘Dolce vita’ forse capiremmo qualcosa di più su Paolo Sorrentino, su Federico Fellini, sull’Italia, su noi stessi e sul genio narrativo e fantastico di Dino Buzzati.
Non a caso ho ricordato Federico Fellini in questo articolo. Si incontrarono a Milano, in un corridoio del Corriere della Sera, e così raccontò: “Si aprì una porta e si affacciò, di traverso, un signore magro, mi pare con una giacchina nera, i capelli tagliati corti, un po’ militaresco, stette fermo a metà fra stanza e corridoio, c’era penombra, non si decideva ad uscire… Il mio amico mi disse: “Ecco Buzzati”. Non riuscii a parlargli, era come fosse tagliato a metà, probabilmente finiva di parlare con qualcuno dentro la stanza… Credo fosse il 1962. Poi venni a sapere che nella stanza c’era Eugenio Montale!”
È certo che Dino Buzzati è sempre stato un animo tormentato, nonostante la sua fantasia e la sua creatività siano state fervide e prolifiche, almeno quanto la sua vita sociale, almeno in apparenza, tranquilla e lineare. Ma il limite tra romanzieri e sceneggiatori sta nella linea di demarcazione che si assottiglia quando il giornalista passa la mano al narratore e allo sceneggiatore e viceversa. Ciò che è evidente nel suo universo narrativo, è il motivo dell’attesa, così come si evince in tutti i suoi scritti: un’attesa carica di inquietudine per un evento terribile e sconosciuto e inderogabile o per il miraggio di una grande occasione rigenerante. Il tutto dominato dall’imprevedibilità del caso.
Dino Buzzati affermava: “Il fatto è questo: sono vittima di un crudele equivoco, sono un pittore il quale per hobby ha fatto lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa, e non può prendere sul serio le mie pitture. So bene che il mio gigantesco talento di pittore sarà un giorno riconosciuto, e che avrò un posto al Louvre, alla National Gallery, a Valle Giulia. Ma, per ottenere questo, bisogna che io prima defunga. Dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie”.
Ancora e sempre, la parola, il segno, il colore. Marcel Brion ha scritto che i quadri di Buzzati introducono nel “si vaste domaine des territoires fertiles de la nuit”; e Alfonso Gatto aveva concluso dicendo che per Dino Buzzati “i conti tornano”, e con il tempo sono in rialzo.
Nel 1970 espone l’originale collezione dei ‘Miracoli di Val Morel’, ex voto dal tono surreale, a Venezia, a Trento e a Roma. Si tratta di una serie di trentacinque quadri che Buzzati concepì e dipinse come un album di scherzi senza sapere d’avere ‘scritto’ con il pennello uno dei suoi racconti più magici. A Parigi esiste da anni un’Associazione amici di Buzzati, e studenti di ogni paese europeo continuano a chiedere a sua moglie, Almerina, di rovistare nelle carte di casa in cerca di inediti per preparare le loro tesi di laurea. Penso che questo sia il miglior segno della vitalità di un autore come lui che, anche nel dipingere, ‘scriveva’. In conclusione, mentre per alcuni studiosi Dino Buzzati è da paragonarsi almeno per lo spirito analitico della quotidianità a Franz Kafka, per altri è da ritenersi un narratore di favole neogotiche di ispirazione mitteleuropea; c’è da precisare che l’arte di Buzzati è la summa dei miti che hanno sempre nutrito l’immaginifico, soprattutto in Italia, attraverso le tradizioni, le leggende dell’antichità, le credenze, le storie quotidiane, dove la nostra cultura popolare affonda le proprie radici.
Qualunque definizione risulta limitativa, ed è proprio per questo che ancora oggi la letteratura di Buzzati è attuale, perché travalica i generi, troppo spesso legati ai tempi. La fantasia di questo scrittore non si basa sull’assurdo puro, ma esprime la ricerca di un significato che va oltre le apparenze. E questo, nella sua narrativa, si evidenzia nella metafora, nel simbolo, che non è più la proiezione dell’individuo, ma diventa realtà, a volte non immediatamente visibile, ma da decodificare. Così, anche le storie più paradossali, come quella dell’uomo che entra in ospedale per curare una lieve malattia e si ritrova preso in un diabolico meccanismo che lo trascina verso la morte, possono diventare la metafora di certe distorsioni sociali, che minacciano la vita di chiunque. Dino Buzzati rientra nella definizione di filosofo esistenziale, che si pone domande di ordine pratico-morale, come per esempio: la vita ha un senso? Può l’uomo essere felice? Dopo la morte c’è qualcosa o con la morte finisce tutto?; la maggior parte dei critici concorda oggi nel ritenere che Buzzati non possa essere considerato solo un pittore scrittore per il fatto che, pur avendone l’attitudine e i mezzi “culturali”, era viziata in partenza la sua volontà di speculazione. Egli infatti, sollecitato da motivi biografici e storico-culturali assunse sin dall’inizio un atteggiamento critico nei confronti della vita e dei valori che essa esprime, considerati alla stregua di miti e illusioni. Tali convincimenti, penetrati profondamente e per tempo nel suo pensiero, ne condizionarono di fatto l’attività e gli intendimenti, cosicché, quando Buzzati disporrà degli strumenti filosofici e psicologici, se ne servirà non per sottoporre a critica razionale il suo atteggiamento di base, bensì per rafforzarlo, per aumentarne la consistenza logica e la naturale persuasione.
Cosa resta di lui se non un mito? Fatto sta che Dino Buzzati, dalla sua interessante e poliedrica vita, è e rimarrà un singolare esempio di narrativa del fantastico e dell’irrazionale, del grandioso e tenebroso enigma dell’inconscio.