In generale, potremmo dire che se i fenomeni sociali, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, si caratterizzano sempre più come universi complessi, perché attraversati da più elementi di disagio, da sovrapposizioni di fragilità, da continui e rapidi cambiamenti che ne modificano, anche nel profondo, le cornici e le dimensioni, nel caso delle persone transessuali le cose si complicano ulteriormente.
Infatti, in molte situazioni e soprattutto in quelle di maggior rischio e marginalità, le/i trans è come fossero schiacciati in una sorta di interazione negativa tra disagio, discriminazione, luoghi comuni e percezioni folckloristiche.
Una pressione su più livelli che porta le persone a perdersi, a tentare di nascondersi per non essere visti. Dove gli individui vengono abbandonati o ridotti a categorie, a volte negati nella loro stessa umanità.
Sono processi duri e devastanti che alla lunga portano chi ne è vittima a perdere, a svuotarsi completamente delle energie e della fiducia che sarebbero necessarie al cambiamento, all’uscita dalle difficoltà.
In tale contesto quello che si vive è un quotidiano, dove nulla è più normale, dove la propria identità per essere riconosciuta deve essere, urlata e rivendicata, potando tutto all’eccesso, estremizzando comportamenti e relazioni.
Insomma, lavorare con le persone transessuali spesso vuol dire non solo fare i conti con più dimensioni del disagio ma anche e, forse, soprattutto intervenire per prevenire, arginare, rimuovere ogni tentazione a lasciarsi andare, a dare per scontato che nulla può cambiare, a sentirsi vuoti e incapaci da un lato di riconoscere i propri diritti, d’altro lato di abitare la propria dignità.
Significa ancora rielaborare una domanda di aiuto spesso debole o mal posta, perché percepita come inutile e inascoltata.
E, allora è del tutto evidente come la presa in carico di fragilità così complesse possa essere possibile solo se in grado di attivare un sistema di talenti e abilità altrettanto articolato.
In primis, i servizi devono fare i conti con la consapevolezza del proprio limite, con il coraggio di dirsi e di esplicitare all’esterno quello che da soli non si riesce o non si sa fare. In altre parole, la complessità dei fenomeni richiama gli attori del lavoro sociale alla consapevolezza del proprio non essere sufficienti.
Per questo il tema delle alleanze diventa centrale e dirimente. Uso la parola “alleanza” perché richiama, almeno nel mio percepito, ad uno spazio più profondo, più fiduciario, di maggior senso rispetto al termine “rete”. Per altro, quest’ultima, è stata così abusata o usata a sproposito che nel tempo non solo ha perso significato ma ha anche assunto, almeno in alcuni casi, una dimensione di ambiguità.
Troppo spesso, infatti, il nostro è stato uno stare insieme precario, interessato, quasi mercenario, oppure centrato solo sulle nostre incapacità, sulle emergenze con cui non riuscivamo più a fare i conti da soli.
In questi anni, forse perché schiacciati dalle continue emergenze, forse perché troppo egoisti o competitivi, poco abbiamo investito in termini di tempo e risorse sulla costruzione di spazi veri di lavoro comune e condiviso.
Inoltre, nei nostri luoghi comuni, ci siamo limitati a guardare al quotidiano. Non siamo riusciti ad uscire dalle cornici troppo strette dei nostri servizi e dei nostri specialismi, per costruire alleanze di senso perchè capaci di darsi una prospettiva di cambiamento.
Su questo dobbiamo riflettere e dobbiamo ritornare a percepire la rete come una sorta di processo teso a definire “aperture” e collegamenti. Anche per prevenire il rischio, in tempi di crisi, di rintanarci in ciò che conosciamo, nella routine delle nostre pratiche, magari scivolando in logiche sempre più aspre di competizione.
Ancora, per non correre il rischio di cristallizzarci in un contesto di “abilità” che abbiamo ma che se non aggiornate, messe in discussione, aperte al contributo di altri finiranno per trasformarsi in “disabilità”.
Solo un sistema di collaborazioni concepito come aperto, come spazio di crescita, può aiutarci a stare nella realtà in modo critico, a mantenere una funzione di cambiamento e non di meri gestori dell’esistente.
Stare nella realtà in modo critico perché capaci: di proporre cambiamento e innovazione, in un momento in cui tutto sembra statico o in arretramento; di costruire connessioni, legami, colleganze, in un clima sociale in cui tutto spinge verso la frammentazione, la solitudine, l’esclusione; di proporre policy a partire dal dato di realtà, dal coraggio di farsi carico dei fenomeni sociali complessi, con tutto il loro portato di criticità e conflitto, in cui molti preferiscono, un po’ vigliaccamente, agire sul percepito, sull’allarme e le preoccupazioni, magari per quotare, come ricorda Marco Revelli, la paura sul mercato del consenso elettorale.
Per fare tutto questo, è evidente, non bastano reti qualsiasi.
Intanto, una buona rete non è il frutto dell’improvvisazione ma il risultato di un processo lento e paziente. Perché l’aiutarsi reciprocamente non è cosa facile. Occorre condividere la necessità di stare dalla stessa parte pur essendo differenti. Fondare lo stare insieme sul rispetto reciproco, sulla pari dignità. La rete, in primo luogo, è il frutto di un lavoro paritario in uno stato di eguaglianza.
Inoltre, le nostre alleanze devono caratterizzarsi da un parte come luoghi aperti e in movimento, dall’altra caratterizzarsi come spazi fortemente democratici, dove tutti i componenti partecipano non solo alla definizione delle decisioni, ma all’analisi delle problematiche, alla definizione degli obiettivi, alla progettazione degli interventi, al monitoraggio e alla valutazione.
Ancora, una buona rete: non è riconosciuta all’esterno come somma di soggetti, ma come insieme coordinato di competenze e rappresentanze; è strutturata su livelli sia orizzontali che verticali e consente la partecipazione anche di attori informali; è uno spazio in cui tutti si sentono riconosciuti perché solo attraverso il riconoscimento si può provare fiducia e sentire appartenenza; è un luogo caldo, a volte anche un po’ umido, in cui alla fine si mettono in gioco anche emozioni e affetti.
Insomma, senza sistemi di alleanze in grado di determinare senso e cambiamento siamo troppo soli per rispondere alla complessità, alla durezza dei contesti che spesso incontriamo.
Se non troviamo spazi permanenti di collaborazione e lavoro comune con altri non solo rischiamo di stare sula superficie, di accettare pericolosi meccanismi di delega, ma anche corriamo il rischio di trasformarci, come dice Boffa, il direttore del Ferrante Aporti di Torino, in “ultime stanze”. In gestori assistenziali delle vite disperse da un modello di società sempre più spietato, infastidito da ogni forma di ospitalità, teso ad allontanare e recludere ogni forma di differenza o alternità.
Il nostro lavoro è altro, è prima di tutto il tentativo di promuovere e tutelare diritti di tutti e tutte ad iniziare da quelli delle persone più deboli e in difficoltà.
Il nostro lavoro è quello di ripristinare sul mondo transessuale, come sugli altri fenomeni sociali, un racconto vero; una narrazione alternativa a quella dominante, capace di ridare corpi, voci, storie, “nomi propri” a persone che troppo spesso sono abbandonate e rese invisibili.
Perché, come ricorda Eugene Enriqué: “Il lavoro degli operatori non è essere riparatori, di fare la carità o di essere gentili e sorridenti. Ma è fare ogni sforzo, porre in essere ogni supporto per permettere alle persone in difficoltà di ritrovare e ri-abitare la loro dignità. Di consentire a queste persone di essere a loro volta esseri viventi normativi e di produrre cultura”
Recuperare tale prospettiva; ricollocare il nostro lavoro in una dimensione politica e culturale non è cosa semplice. Costa fatica, disponibilità a ripensare le nostre modalità e i nostri linguaggi. Ci costringe ad essere degli equilibristi. E anche qui torna, e con questo concludo, il tema delle alleanze. Perché se vogliamo imparare bene a fare ed essere equilibristi dobbiamo mettere in conto le cadute e si sa, che senza rete, quando si cade, il rischio è quello di farsi troppo male.