Un viaggio nei Territori occupati, dove i coloni israeliani continuano a insediarsi gestendo i pozzi d’acqua, offrendo villette a schiera a giovani coppie e incrementando il controllo militare. Lì i palestinesi fanno paura anche da morti.
Ha avuto un certo risalto, nell’attuale clima di campagna elettorale per le amministrative, la “piccola” polemica tra un gruppo di viaggiatori italiani e Nichi Vendola. Il governatore della Puglia – per molti uomo nuovo della sinistra italiana – aveva accolto con parole di entusiasmo l’ambasciatore israeliano Gideon Meir inneggiando alla terra latte e miele, alla fertile Palestina irrigata con tecniche innovative, riproponendosi anche di intrecciare rapporti turistici e commerciali con quel Paese capace di trasformare “aree desertiche in luoghi produttivi e giardini” (in allegato il video dell’incontro). Per chi, come me, era appena tornato in Italia da una settimana intensamente vissuta nei Territori, e aveva visto con i propri occhi le colonie irrigate ai danni dei villaggi di contadini e pastori palestinesi lasciati all’asciutto, era difficile credere che fosse proprio Vendola a parlare. Così è stato per il resto del gruppo, una quarantina di persone guidate da Luisa Morgantini, ex vicepresidente del Parlamento europeo, da sempre attivista per la pace e tra le animatrici di “Donne in nero”. I viaggiatori hanno scritto una lettera aperta a Vendola, “Tu quoque, Nichi?”, invitandolo a visitare, oltre ai giardini e agli orti degli israeliani, anche la Cisgiordania dove il Muro separa le case dai campi da coltivare (e dopo sette anni i terreni incolti possono essere per legge requisiti) e i bambini per andare alle elementari devono aspettare una scorta militare, come nel povero villaggio di Al Tuwani, dove per non essere presi a sassate dai coloni vengono accompagnati e guardati a vista. E dove i volontari italiani di Operazione Colomba si sono stabiliti proprio per dare una mano in questa emergenza. Per tacere della striscia di Gaza, dove gli agricoltori vengono presi a fucilate anche oltre la no man’s land di confine e i pescatori si sono visti ridurre a un nonnulla le acque navigabili, sempre meno pescose, dalle 20 miglia nautiche degli accordi del 1993 alle 3 miglia sancite (si fa per dire) dall’operazione Piombo fuso. Il limite è imposto con le armi e i pacifisti internazionali lo difendono con operazioni disarmate come quella della Nave Oliva, l’imbarcazione della Civil Peace Service for the Gaza Waters con una ventina di volontari vestiti di bianco che, a bordo del piccolo yacht dipinto di bianco anch’esso, sono in missione dalla fine di aprile.
La questione palestinese è tornata di attualità (ma aveva mai smesso di esserlo?) in questi tempi incendiari per il Nordafrica e il Medio Oriente. Le notizie in queste settimane si sovrappongono rapidamente e quasi senza darti tempo per elaborarle, in un Occidente distratto dalla crisi economica e barricato dietro alle sue ultime certezze: tra sbarchi a Lampedusa, respingimenti, confini che ormai sembrano invalicabili con la Francia, già Paese dell’accoglienza. La morte dell’attivista e pacifista Vittorio Arrigoni, lo storico accordo tra Hamas e Al Fatah, ora la morte di Osama bin Laden, che non chiuderà certo il capitolo del terrorismo. Ora, di nuovo, l’ultimo messaggio del leader di Al Qaeda, che collega gli attacchi agli Usa proprio al sostegno americano alle politiche israeliane. Anche ai più indifferenti dovrebbe venire da riflettere.
Ma questo breve viaggio in Palestina mi ha insegnato ad andare oltre la propaganda e le semplificazioni, almeno a tentarlo. Come sempre quando è la società civile ad avere la parola e si ha tempo di ascoltare. Ci sono ragazzi che, a Nablus – dove il giorno di Pasqua un ebreo ultraortodosso, nipote del ministro israeliano della Cultura, è stato ucciso da un poliziotto palestinese mentre tentava, senza permesso, di andare a visitare la tomba di Giuseppe – hanno creato un centro dove i bambini che hanno sperimentato la violenza e il conflitto in tutte le forme possono trovare uno spazio di creatività e di elaborazione del disagio, magari per organizzare un improbabile pic nic vicino a un check point (ce ne sono otto solo attorno a questa città, ma il più impressionante è quello di Kalandia alle porte di Gerusalemme, lì ci si passano delle ore, sotto il sole o la pioggia, scendendo dai taxi collettivi e procedendo a piedi).
A Ramallah abbiamo incontrato gli universitari del gruppo “15 marzo”, poco più che ventenni, con una forte presenza femminile, che non si oppongono soltanto all’occupazione israeliana ma anche alla politica dei partiti ufficiali palestinesi e rifiutano l’ipotesi dei due Stati come una gabbia intollerabile. Hanno scelto questa data, il 15 marzo, proprio perché è priva di significati politici, neutra (anche se nulla può essere neutrale in queste latitudini) e segna questa distanza e la voglia di uscire dalla logica del conflitto permanente, di vivere fuori dall’apartheid, magari anche di andarsi a divertire. Ci sono altri ragazzi, israeliani progressisti, che abbiamo visto manifestare a Sheik Jarrah, una quartiere di Gerusalemme dove i coloni hanno occupato una casa palestinese col giardino: adesso la legittima proprietaria sta sotto una tenda mentre loro leggono il Talmud seduti sul divano. Lì accanto si manifesta con i tamburi e i megafoni con slogan come “One, two, three, four… occupation no more”. Lì parliamo con un ragazzo israeliano, David, che detesta la destra israeliana e crede possibile la soluzione dei due Stati, “uno unico no, perché i palestinesi sono troppo divisi al loro interno”. Ma ci sono suoi coetanei dell’altro lato della barricata condannati a 250 anni di carcere ed esiste addirittura una prigione per i cadaveri, che dopo morti continuano a restare dentro, fino allo scadere della pena. Mai la definizione di ergastolo, “fine pena mai”, è stata più letterale e atrocemente calzante.
Insieme a Luisa Morgantini, che qui tutti trattano come una sorella maggiore, saggia e gentile ma anche irremovibile, siamo stati a Bil’in, un villaggio che è diventato simbolo della resistenza a oltranza. Il 60% delle terre sono state annesse allo Stato di Israele per costruirci il famigerato Muro che lungi dal seguire la green line, si snoda in percorsi tortuosi e non certo casuali. Ma gli abitanti non si arrendono, non se ne vanno, e sostenuti da attivisti israeliani e internazionali, tutti i venerdì manifestano davanti al “cantiere della vergogna”. Eravamo lì il 22 aprile e abbiamo visto l’esercito israeliano sfoderare immediatamente le sue armi di fronte a un corteo del tutto pacifico, dove c’erano anche molti ragazzini e innocue signore: lacrimogeni urticanti di ultima generazione, idranti caricati con un liquido dall’odore di latrina che ti resta addosso per ore e ti costringe a buttare via i vestiti, proiettili di gomma che possono fare anche molto male, per esempio accecare. Qui a Bil’in, negli stessi giorni, si è svolta la sesta conferenza internazionale sulla resistenza popolare. Grande partecipazione e commozione, specie per l’intervento di Cindy, madre di Rachel Corrie, la ragazza americana uccisa a Rafah nel 2003 mentre protestava contro l’abbattimento di una casa palestinese minacciata da un bulldozer israeliano. Cindy ha raccontato del suo dolore per la morte di Vittorio Arrigoni e ha chiesto di mettere fine a questi crimini: “Sia con la fine immediata del lancio di missili dalla striscia di Gaza verso le città israeliane, sia con il ritiro definitivo delle truppe dalla Palestina” Utopia? La conferenza di Bil’in, quest’anno, era dedicata proprio a Vik Utopia, presenza costante durante il nostro viaggio nei Territori, che sono ancora in lutto per lui. Dopo la commemorazione a Ramallah di aprile, in contemporanea con i funerali a Bulciago, dopo che una scuola nella Valle del Giordano è stata intitolata a Vittorio, l’11 maggio è partito per la Striscia il convoglio “Restiamo umani”, formato da associazioni e movimenti pacifisti: un’ottantina di persone che lo ricorderanno nel trigesimo della sua uccisione.
Se Gaza è una prigione a cielo aperto (bisogna assolutamente leggere, o rileggere, il diario dell’offensiva Piombo fuso di Arrigoni, lo pubblica il manifestolibri e naturalmente si intitola Restiamo umani), Hebron è una città fantasma, annichilita dal progetto (apparentemente delirante, forse scientifico) di seicento coloni ortodossi che lì si sono installati durante la Guerra dei Sei Giorni, perché lì è sepolto Abramo, e che ora tengono in ostaggio 160mila abitanti palestinesi con la forza militare e la minaccia costante. Reti e filo spinato, check point, strade sbarrate o divise in due da uno spartitraffico di cemento (e la parte più stretta è quella dove possono camminare gli arabi), famiglie che vivono in case dove nessun altro può andare perché stanno nel punto sbagliato della città, un metro prima o un metro dopo, bambini presi a sassate, uno quasi accecato dall’acido cloridrico gettato da un balcone al piano di sopra, una casa con le finestre murate dove i soldati hanno fatto penetrare dei serpenti da un buco scavato nella parete per far entrare l’aria. Come ricreare un universo concentrazionario, ma stavolta dalla parte dei carnefici. Ebbene, a Hebron (raccontata benissimo dal documentario di Giulia Amati e Stephen Nathanson, che era anche candidato ai David di Donatello, This is my land… Hebron) è attivo un progetto di riabilitazione delle architetture che riporta vita e bellezza anche nella società e negli animi grazie all’Hebron Rehabilitation Centre. Altri progetti, nella incantevole e martoriata Valle del Giordano: qui la ong italiana Vento di terra ha costruito una scuola di pneumatici, paglia e fango con tanto di ufficio della preside e gabinetti, perché le costruzioni in muratura vengono regolarmente abbattute. Siamo nella zona “C” dei Territori, quella sotto il controllo dei militari israeliani. Anche qui, sullo sfondo, come ovunque in Palestina, i settlement, schiere ordinate di villette dai tetti tutti uguali, circondate da recinzioni e alberate. Ce n’è uno enorme, sulla strada tra Gerusalemme e Betlemme, dove si possono acquistare appartamenti a prezzi stracciati, soluzione ideale per giovani coppie. E così la terra si erode e l’invasione continua a ritmi serrati e le strade per chi ha la targa palestinese diventano sempre più accidentate e interrotte da controlli infiniti.
Eppure c’è ancora qualcuno che si impegna al dialogo a oltranza. Come Sami Adwan, uno storico palestinese del Prime (Peace Reserch Institute for the Middle Est) che, insieme al collega israeliano Dan Bar-On, scomparso purtroppo nel 2008, ha ideato e realizzato la prima storia locale comparata, La storia dell’altro (in Italia pubblicata da Una Città). A Betlemme, una sera, abbiamo incontrato Adwan che ci ha raccontato questo straordinario progetto, con un tono incredibilmente pacato nonostante anche lui abbia scontato in passato, nel 1994, qualche mese di carcere. “Proprio durante quell’esperienza ho capito che bisognava trovare un altro modo di raccontare il conflitto, lasciando spazio a entrambe le narrazioni”. Lavorando per un anno con settecento ragazzi e una dozzina d’insegnanti israeliani e palestinesi che si sono prestati a un lavoro collettivo sulla loro memoria nazionale si è partiti da tre eventi (la dichiarazione di Balfour, la guerra del 1948 e la prima Intifada) con l’impegno, come diceva Dan Bar-On, di “disarmare la storia, perché i testi scolastici sono depositari del sapere legittimato e della conoscenza rispetto alla propria nazione”. Ed è scritto proprio così il testo, già al secondo volume e in via di pubblicazione negli Usa col titolo Side by Side, con uno spazio bianco al centro dove lo studente possa scrivere una terza versione, la sua personale. Un libro molto amato, preso da modello in altre realtà critiche e conflittuali come quella macedone, ma non adottato dalle scuole israeliane, che hanno addirittura diffidato alcuni insegnanti dall’usarlo. “Non siamo aborigeni di cui liberarsi, continueremo a costruire la nostra società”, ci ha detto Adwan, che spera nella soluzione dei due Stati con diritti uguali e ovviamente nella fine della politica dei settlement e delle espulsioni. Ma soprattutto lavora ad alimentare lo spazio bianco tra i due contendenti.